Anche la fame vien leggendo…”L’Appetito”
Col lockdown, pieno o leggero che sia, non ha molto senso recensire ristoranti dove per un pezzo nessuno potrà andare. E, quanto alle opportunità di asporto e delivery, ci saranno presto novità su questi schermi. Ma di ciò è presto per parlare.
Viste quindi le prospettive di una lunga costrizione sul divano, cosa di meglio che suggerire letture edificanti?
È il caso di questo libello che ho letteralmente – il verbo non è scelto a caso – divorato.
L’ha scritto Serena Guidobaldi, un’amica nonché collega con la quale ho condiviso numerose ed entusiasmanti avventure pedestri, essendo lei, col “garantito” Charlie Macchi e il sottoscritto, uno dei fondatori del “Pellegrinaggio artusiano” (gli interessati possono approfondire qui), ovvero la zingarata enogastropodistica che abbiamo più volte portato in giro per l’Italia.
Ma si diceva del libello.
Che poi, formato a parte, tanto libello non è.
Anzi, occorre dire che una delle prime cose che si notano immergendosi nella lettura di questo romanzo storico, asciutto per dimensioni ma tutt’altro che asfittico, è proprio il contrasto tra la leggerezza del titolo e del taglio tipografico tascabile da un lato e la densità del racconto dall’altro. Un racconto denso nel tema e pure nel tipo di scrittura, tutta da masticare e quasi da metabolizzare: a suo modo complessa e immaginifica, piena di citazioni, finezze, riferimenti, sottintesi e uno scenografico vernacolo romanesco. Un testo articolato, dunque, ma non privo di crudezza e a volte di un gusto grandguignol tipicamente fumettistico, che infatti non rinuncia a illustrazioni gotiche e a parentesi teatrali. Serena del resto è anche una brava autrice di graphic novel e si vede.
L’opera si intitola “L’Appetito” e già in ciò è tutto un programma.
Il titolo suona soavemente provocatorio, considerato che il fil rouge della storia non è certo il borghese – e in fin dei conti perbenista, per non dire eufemistico – appetito, appunto, ma quella sua declinazione popolare, viscerale e spesso dolorosa che si chiama “fame“. La fame atavica del popolino, quella che in certi strati miserabili si succhiava col latte materno e che, anche in caso di un destino fausto, ci si portava dietro tutta la vita, come una canagliesca condizione dello spirito, un cinico riflesso condizionato capace di indurre, in apparenza giustificandoli, ogni bassezza, ogni stratagemma, ogni inganno e, ovviamente, ogni delitto.
È in questo scenario che si dipana una fosca storia a cavallo tra tante cose: due città, Roma e Parigi; due secoli, il ‘700 e l’800; la rivoluzione, l’impero, la restaurazione. Dove una lunga striscia di sangue, di sugo, di minestre e di scodelle accompagna le vicende, vivide e sordide, di un’umanità macilenta in ininterrotta relazione col cibo. Gente per la quale, suo malgrado, il mangiare funge da legante quotidiano delle ore della giornata fra tragedie, amori, morti, avventure, beffe e prigioni.
Non sta bene, recensendolo, rivelare la trama di un libro che anche sulla trama basa la sua forza.
E non lo farò certamente io, perché l’opera è pure agile e la lettura avvincente. Tra graveolenti odori di zuppa, serramanici scintillanti, parroci di malaffare, emigrati d’antan, balordi de noantri, ricchi e poveracci, sembrerà spesso di calarsi nelle atmosfere e perfino nei suoni del Marchese del Grillo.
Ma con lo stomaco molto più vuoto e con molta meno voglia di scherzare.
Eppure lo spirito se ne gioverà.
Stefano Tesi
“L’Appetito”
di Serena Guidobaldi
Eris Edizioni, 2020, 190 pagine, 13 euro.