Anteprima Amarone 2013, stato dell’arte
In quest’ultimo fine settimana, in una Verona soleggiata ma fredda, con la luce scarsa che illumina marmi e palazzi incantevoli, si è tenuta Anteprima Amarone 2013, la presentazione “ufficiale” della nuova annata.
Edizione di successo, dicono dalla Gran Guardia: 78 aziende, 83 vini presentati (quelli dell’annata 2013, poi ogni azienda aveva un paio di bottiglie più vecchie, in media: quindi basta fare due conti…), ma soprattutto 2800 persone tra giornalisti, appassionati e operatori del settore, a cui era dedicata una giornata ciascuno – mi ricordano i numeri da capogiro della Valpolicella al 2016: 2286 aziende agricole di cui 229 anche imbottigliatrici. Grande attenzione e curiosità quindi per il noto rosso veronese, con un’anteprima che ha cambiato un po’ la sua natura.
Niente di troppo rivoluzionario, solite questioni sul banco: ci sono aziende che stanno già vendendo il 2014 e solo il 37% delle etichette presentate era già in bottiglia, gli altri tutti campioni da botte, talvolta ancora molto “spettinati”. Però dicevo della natura un po’ diversa di quest’anteprima, con largo spazio dedicato all’Amarone, alla sua cultura, al ruolo di simbolo di un territorio come sono certe opere d’arte. E di questo infatti si è parlato con Philippe Daverio, un nome che tra chi studia e si appassiona all’arte risveglia subito molte emozioni. La sua parlata così singolare infatti ha accompagnato per anni, su Rai3, i viaggi nella storia attraverso quadri, statue, musei e tutto quello che di più bello ha prodotto l’uomo nel corso della sua storia.
A Verona c’è un Daverio a ruota libera, tra aneddoti, storia, cultura, bellezza, politica (che appunto stride vicino alle parole precedenti). Soprattutto la bellezza, vera chiave per fare economia e raccontare un vino come l’Amarone nel mondo. Nasce in un territorio di enorme ricchezza culturale ed estetica, e questo deve diventare un suo punto di forza, come tutto il made in Italy di qualità.
Bisogna usare il patrimonio artistico-culturale, recuperare la coscienza storica: nulla nasce per caso, se non ha radici storiche non può nascere e le radici del vino veronese sono nel VI°-VII° secolo, nella rinascita dalle macerie dell’Impero romano. Sono, alla fine, le stesse radici anche dell'”errore Amarone”, anche se la sua manifestazione è molto più recente.
È utile fare una velocissima digressione dato che anche di recente si è letto e sentito di tutto. Ormai è di moda la comunicazione veloce, dinamica, coi video e i tweet, ma in tanta frenesia si dicono tante di quelle eresie che se solo Cassiodoro potesse maledire tutti questi improvvisati (o talvolta no, ma allora ancor più colpevolmente incompetenti) “comunicatori”…
Il nome Valpolicella risale a poco prima del 1200 e richiama le poleselle, ovvero le ghiaie sabbiose dell’Adige e dei progni che solcano, uno per ogni valle, la Valpolicella, scavando i Lessini e portando a valle le ghiaie calcaree e i sedimenti che hanno costruito l’alta pianura dove sorgono le città maggiori. Altre origini etimologiche, talvolta a dir poco fantasiose, sono frutto poi di suggestioni che nel corso degli anni derivano dalla fortuna enologica del territorio, ma il cui nome è profondamente legato invece alla geografia e alla pedologia di queste vigne.
Vigne che, per secoli, hanno prodotto vini di qualità, prevalentemente rossi, con una gran moltitudine di vitigni che ancora, in parte, si coltivano. L’Amarone infatti si produce, almeno, con Corvina, Corvinone e Rondinella. Un tempo, e in alcune aziende accade tutt’oggi, si aggiungevano Molinara, Oseleta, Dindarella, Forsellina, Negrara, Rossignola, Turchetta, Spigamonti, Sangioeto e Corbina, in una coralità che andava a comporre un’identità veronese ricca di sfumature. Le uve, una volta raccolte, devono subire un appassimento di almeno 100 giorni, e non si può mai vinificare prima del 1° dicembre. Alle vinacce risultanti dai passiti può essere aggiunto il Valpolicella (rosso originato dallo stesso uvaggio, ma da uve fresche) e diventare quindi Ripasso.
La pratica dell’appassimento trova le proprie radici almeno dal V secolo, quando viene scritta la famosa lettera di Cassiodoro, ministro di Re Teodorico, in cui non solo si nomina l'”acinatico”, ma se ne descrivono anche le caratteristiche e la produzione. Ancor oggi quel “limpido umore spremuto dalla porpora” si ritrova nelle migliori bottiglie di Recioto della Valpolicella.
E l’Amarone invece è “invenzione” recente. La leggenda dei “recioti scampai” corre tutto sommato a ragione per le strade tra le vigne: se pensiamo a come poteva essere l’enologia di cent’anni fa, non è certo assurdo pensare che qualche Recioto potesse scappare e fermentare tutti gli zuccheri. Ma negli anni ’30 e poi ’50 del Novecento, qualcuno ha l’ardire di imbottigliare questo Recioto secco, o Amarone – per tanti anni le due diciture in etichetta si accompagnano – ed ecco nascere la storia dell’Amarone: una storia giovane, innestata su una storia millenaria, come diceva Daverio.
Veniamo a quest’annata di Amarone. Difficile tratteggiare una linea precisa, in questo momento, riguardo i vini. Da un punto di vista agronomico si fa molto prima: seguita la stagione, si prosegue con lo studio dell’appassimento e con l’osservazione di come si comporta l’autunno. Si ricorderà per l’assoluta divergenza climatica tra la prima fase (ciclo vegetativo) e la seconda (maturazione). Nel primo periodo la vite è stata sottoposta a un clima davvero difficile con precipitazioni frequenti e basse temperature mentre da giugno alla maturazione, la pianta ha fronteggiato un andamento meteorologico esattamente opposto. Tutto ciò ha determinato un timbro netto nei vini.
Il 2013 è un’annata che ben rappresenta il cambiamento climatico, dove variabilità e incostanza sono sempre più frequenti e sottopongono la vite a regimi metabolici opposti ed estremi. Lo stress idrico in pre-invaiatura ha stimolato una intensa attività di sintesi antocianica, polifenolica e tannica. Alte temperature e carenza di precipitazioni nella fase di maturazione hanno permesso di ottenere uve sane, mature e ricche di zuccheri. Il periodo autunnale dell’appassimento, infine, ha giovato di umidità bassa e belle giornate.
Da un punto di vista enologico, dicevo, discreta difficoltà a giudicare molti vini ancora irruenti, in maturazione e talvolta coperti dal legno. Alcuni campioni (una manciata) avevano evidenti problemi, ma da un vino in piena maturazione o appena imbottigliato si può accettare; rimane il dubbio sul senso però. Sembra confermata la tendenza a produrre vini più asciutti, più profondi, e in un contesto di vendemmie sempre più precoci e calde non è facile. Ma sembra anche che si faccia sempre più fatica a maneggiare i legni (o forse la maturità fenolica?), che talvolta imprimono una nota dolce e troppo coprente il panorama di profumi che può offrire un vino così complesso per pedologia, ampelografia ed enologia. Rimane anche quest’anno la scelta del Consorzio nel permettere alle aziende di portare un vino più vecchio, ma quindi godibile, e rimane però anche l’interrogativo sull’Anteprima che magari nel 50° della Denominazione, l’anno prossimo, ci svelerà qualche altra sorpresa, chiamando a raccolta più produttori e riunendo assieme vini più comparabili ma soprattutto togliendo la confusione della presenza sul mercato di un’annata più recente, diventando finalmente una vera grande panoramica della denominazione di questo incantevole vino.
«Una specie di tramonto di sole che dà scarso colore, ma riflessi e bagliori incantevoli» scriveva Giovanni Quintarelli su un vino della Valpolicella…
I vini che mi hanno colpito:
Albino Armani (da botte) sia Classico che Cuslanus, con una bella pulizia e definizione aromatica, anche se il Cuslanus è più marcato dal legno ma una bocca più matura e con una grande evoluzione potenziale.
Corte Rugolin con il Monte Danieli (da botte) che mostra un interessante dialogo balsamico-fruttato al naso, una bocca piuttosto dolce, ma complessa e coerente.
Corte Sant’Alda con un Valmezzane (da botte) che sembra davvero un Recioto secco: profumi molto dolci di frutta passita, intensi, ma bocca di buon equilibrio.
Degani con il La Rosta (in bottiglia) con profumi particolarmente scuri, officinali, tra il giglio e l’incenso, e una bocca asciutta e piacevole con richiami balsamici.
Massimago (bottiglia) aveva un inaspettato catrame e liquirizia che, mescolati al frutto, mettevano curiosità all’assaggio mentre in bocca rivelava buon equilibrio e complessità.
Novaia con il Corte Vaona (da botte) con ancora sentori irruenti e tannino crudo, ma su un vino che si percepisce definito e con ottimo potenziale.
Villa Canestrari con il 1888 (da botte) mostrava profumi balsamici tra l’anice e la spezia, e una bocca che richiamava una certa dolcezza.
Per finire Zymé, con un campione da botte indecifrabile, poco partecipe nel farsi leggere ma molto grintoso ed energico: chissà come evolverà…