Barbaresco Rio Sordo 2002 Cascina delle Rose: elogio e meraviglia
Non credo esista al mondo un alimento capace di partire fiacco e dopo vent’anni essere molto, ma molto migliore di quanto appariva all’inizio. Mi correggo, uno c’è: il vino.
E la cosa ancora più straordinaria è che, per quanta esperienza si faccia, ci sono sempre dei casi che mettono in discussione tutto quello che in tanti anni eri convinto di avere ormai appurato e consolidato.
Giovanna e Italo nel 2002 conducevano vigna e cantina da soli, figli troppo piccoli, e non erano ancora accadute cose spiacevoli come il brutto infarto di Italo.
L’azienda di Barbaresco, che prende il nome dalle meravigliose rose che abbracciano la casa, rappresenta uno dei fiori all’occhiello della denominazione langhetta; è tanto, troppo tempo che non torno a trovarli, per questo ho voluto “consolarmi” aprendo il loro Rio Sordo 2002, consapevole che le possibilità che fosse ancora bevibile non erano molte, in parte per l’annata piovosa e problematica, in parte perché non lo avevo messo in cantina, gli spazi limitati mi hanno costretto a mettere coricate al buio nello stanzino un buon numero di bottiglie accumulate negli anni.
E invece, nonostante il tappo fosse arrivato ai suoi limiti, quasi totalmente imbevuto, mi sono trovato davanti un Barbaresco incredibile, oltre qualsiasi ipotesi più rosea!
Ero già mentalmente pronto a versarlo nel lavello, invece mi sono preso uno schiaffo morale meritatissimo, per non avere avuto fiducia in lui, anzi, in quella coppia di viticoltori straordinari che lo hanno forgiato…
In realtà non è del tutto vero, in questi anni ho aperto molte bottiglie trattate in questo modo e ho spesso avuto ottimi riscontri di tenuta, una parte di me confidava in questo, ma mai mi sarei aspettato tanta grazia. Il loro Rio Sordo nasce sempre un po’ scorbutico, difficile nella trama tannica, il mio amico e collega Alessandro Franceschini nel 2009 lo aveva descritto così: “Il timbro del Rio Sordo lo ritroviamo anche in questo millesimo, nelle spezie che mai lo abbandonano. Il frutto, delicato e sottile, di lamponi e ribes, si affianca alla scorza di arancio. Una certa diluizione nel centro bocca, un tannino ancora acerbo e lievemente verdeggiante, una struttura che fatica a trovare equilibrio ed armonia non intaccano una beva succosa e nervosa”. Ovvero, nonostante emergessero in quell’anno alcuni limiti che sembravano appartenere proprio alle caratteristiche del millesimo, la beva era succosa e nervosa, cioè sotto sotto c’era materia, solo ancora disorganizzata.
Bene, dodici anni dopo essere rimasto in uno stanzino, invece di decadere ha trovato una splendida armonia, la cosa che più mi affascina è proprio il bouquet che rilascia nel giro di pochissimi minuti, pulitissimo, riduzione quasi inesistente, frutto ben maturo ma privo di derive ossidative, una speziatura dolce, finissima e addirittura rose macerate! Non sa di fungo, né di cuoio conciato, né di cenere o polvere da sparo; di goudron certamente, ma è una qualità, di tabacco e felce, ma va più che bene, ma è lo slancio fruttato a colpire, la ciliegia e la prugna che litigano su chi deve prevalere, senza mai spingere verso la marmellata.
Al palato non smentisce quanto aveva detto Alessandro, si sente che l’annata non può dare tutto quello a cui il Rio Sordo ci ha abituato, una certa diluzione a centro bocca rimane, ma l’insieme funziona alla grande, c’è equilibrio e grande espressione dell’humus che caratterizza il cru. E poi è vivo, in continuo movimento mentre si ossigena, si potrebbe impiegare una giornata a descrivere tutti i sentori che si alternano, un vino così merita idealmente un punteggio altissimo, semplicemente perché è arrivato dove molti altri non ce l’hanno fatta, perché oggi è meglio di 19 anni fa, perché non ne vuole sapere di mollare, come uno scalatore improvvisato che riesce con la sua sola volontà ad arrivare in cima pur non avendo tutti gli strumenti per farlo, come fece il franco-algerino Nadir Dendoune nel 2008, un principiante che per ottenere un bacio dalla ragazza di cui si era invaghito riuscì a scalare l’Everest.
Vale la pena di vivere anche per meraviglie come questa, grazie Giovanna e Italo.
Roberto Giuliani