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Carnivori o vegetariani? Riflessione sull’etica del mangiare carne

Bistecca e vegetaliMichael Pollan, in un brillante saggio che consiglio a tutti di leggere, l’ha definito Il dilemma dell’onnivoro (Adelphi ed., 2006): il trovarsi al vertice della catena alimentare e poter mangiare tutto, impone all’homo sapiens delle scelte non sempre facili da compiere, e quella di mangiare o meno la carne è una di queste. Quasi tutte le persone dotate di buon senso infatti, almeno una volta nella vita, si sono certamente domandate se è giusto o meno uccidere degli animali e cibarsi delle loro carni, quando questo non è strettamente necessario. E tutti più o meno si sono dati delle risposte coerenti con il proprio comportamento: i carnivori avranno trovato delle giustificazioni che legittimano la scelta di consumarla, mentre i vegetariani, in maniera altrettanto convinta, hanno invece formulato teorie etiche contro l’assunzione di quel tipo di cibo. Ma cerchiamo di approfondire meglio la questione e cerchiamo di capire quanta ragione hanno gli uni e quanta ne hanno gli altri.
Mangiare carne è diventato per molti un atto di dubbia moralità. I vegetariani sono sempre più numerosi, e gli attivisti dei movimenti di liberazione animale non sono più considerati dei fondamentalisti ed hanno trovato un posto di tutto rispetto nella cultura ufficiale, forse grazie anche alla scienza medica che ha avanzato qualche riserva sulla bontà di questo alimento. Per non parlare poi della caccia, che è divenuta un’attività particolarmente contestata anche da chi mangia carne, come se la violenza più crudele che si possa perpetrare ad un animale fosse proprio l’atto dell’uccisione, o forse perché questo atto viene eseguito per puro divertimento. Il perché tutto questo stia accadendo proprio ora, dopo che per migliaia di anni l’essere umano si è cibato di carne senza troppi turbamenti, non è molto chiaro. Probabilmente la nostra civiltà si sta evolvendo così tanto da reputare barbarico e vergognoso un atto che fa parte della nostra storia evolutiva.

Uccisione maialeLe ragioni da cui prende le mosse il vegetarismo, o vegetarianesimo – ossia la scelta di non mangiare carne ed alcuni, o tutti gli alimenti di origine animale (come le uova o i latticini) – possono essere diverse, ma la principale filosofia che ne è alla base è quella antispecista. Tale filosofia, di cui Peter Singer (Liberazione animale, 1987) è stato ed è tuttora uno dei più autorevoli esponenti, si basa su un ragionamento molto semplice e se si accettano le sue premesse, anche difficile da confutare. Ormai sembra scontato l’assunto dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Ma cosa si intende con “uguaglianza”? L’esistenza di differenze è un dato di fatto: c’è chi è più alto, più bello, più intelligente e così via. Come fa notare Singer, “l’uguaglianza è un’idea morale, non un’asserzione di fatto; e la tutela degli interessi di tutti non deve dipendere dalle capacità o dalle caratteristiche che possiedono”.
Fin qui tutto bene, non si è inventato nulla il filosofo; ma è quello che segue che rivoluziona tutto il pensiero: “Se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano ad utilizzarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare un umano a sfruttare i non umani per lo stesso scopo?”. Questa è l’essenza del suo ragionamento. Qualcuno potrebbe obiettare che gli esseri umani sono differenti, a livello morale, dagli animali. La risposta a questa obiezione invece ci viene fornita dall’estroso ed illuminato filosofo utilitarista, Jeremy Bentham (Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, 1823): quali dovrebbero essere allora, si chiede il filosofo, le caratteristiche che rendono una creatura degna di considerazione morale? Forse la facoltà della ragione? O forse quella del linguaggio? Ma un cavallo non è forse più razionale e comunicativo di un bambino appena nato o di una persona affetta da demenza senile? La domanda da porsi quindi non è “possono ragionare?” né “possono parlare?”, bensì “possono soffrire?”.
La condizione quindi, perché una creatura abbia interessi è che sia capace di provare piacere e dolore; nel momento in cui questa condizione è soddisfatta, il principio di uguaglianza impone di prendere in considerazione il suo interesse a non soffrire, indipendentemente dalla sua specie di appartenenza. Questo è in sostanza l’antispecismo, ossia l’andare contro lo specismo (che sarebbe l’equivalente del razzismo, ma che riguarda la specie anziché la razza), contro cioè quella convinzione che un essere della propria specie vada trattato diversamente da quelli di specie diversa. Ma rinunciare allo specismo non è possibile, perché potrebbe portarci a scelte eticamente inaccettabili: se dovessimo scegliere se eseguire un esperimento scientifico doloroso su un orfanello fortemente ritardato o su un maiale, secondo il pensiero antispecista dovremmo sacrificare il bambino, perché il maiale ha maggiore capacità di provare dolore, e capiamo bene che una soluzione di questo tipo equivale a gettarsi in un precipizio etico di dimensioni enormi. Fortunatamente però nella vita di tutti i giorni non siamo chiamati ad effettuare scelte tra il maiale e l’orfanello, ma l’alternativa sarebbe semmai tra il maiale e la soia. Anche se rifiutiamo l’antispecismo puro di Singer e Bentham, rimane da capire se un animale in grado di provare dolore sia degno della nostra considerazione morale. La risposta dovrebbe essere ovvia: certo che lo è.

Stalla muccheE allora perché mangiamo carne? Come giustifichiamo l’uccisione di un animale pur sostenendo che è degno della nostra considerazione morale? La prima risposta a questa domanda, quella più ovvia, va ricercata nella storia evolutiva dell’essere umano. Anche se oggi probabilmente non c’è più un bisogno esclusivo di mangiare carne, in quanto le sostanze contenute in essa possiamo ritrovarle in tanti altri alimenti, l’uomo lo ha fatto per tutto il tempo della sua permanenza nel nostro pianeta. Infatti sia la nostra dentatura che il nostro apparato digerente sono stati progettati per mangiare carne, e secondo gli studi antropologici il consumo di questo alimento ci ha aiutato a diventare quello che siamo, sia sotto l’aspetto fisico che sociale. Il cervello umano infatti, stimolato dalla caccia, sarebbe cresciuto in dimensioni e complessità; e la cultura fiorì e crebbe maggiormente in quelle zone dove si imparò a cuocere e a tagliare in modo appropriato le prede. Si tratta quindi di un retaggio culturale, forse addirittura genetico; sarebbe riduttivo pensare al consumo della carne come una semplice predilezione gastronomica. Smettere di mangiare carne significherebbe perdere irrimediabilmente una parte della nostra identità.
Un’altra possibile spiegazione al fatto che mangiamo carne è dovuta al dubbio che un animale sia realmente in grado di provare una sensazione di sofferenza. Secondo alcuni scienziati (come ad esempio Daniel Dennet e Stephen Budiansky) si dovrebbe fare una distinzione tra il dolore, esperienza indubbiamente condivisa da gran parte del mondo animale, e la sofferenza, che deriva da un tipo di coscienza di sé apparentemente ristretto a pochissime specie. La sofferenza non è solo un dolore più forte, ma è una sensazione amplificata da caratteri prevalentemente umani, come il rimorso, l’autocommiserazione, la vergogna, l’umiliazione e la paura. Spingere un manzo verso il macello non è paragonabile all’accompagnamento di un condannato a morte verso il luogo di esecuzione: nella mente bovina non c’è la percezione della fine della vita, perché non esiste in essi il concetto di non esistenza.
Un’ultima considerazione in favore dei carnivori. Siamo così sicuri che se un giorno smettessimo tutti di mangiare carne, e si realizzasse l’utopia vegetarianista, il mondo ne trarrebbe beneficio? Per sfamare l’intera popolazione mondiale sarebbe necessario intensificare (ancora di più di quanto non lo sia già oggi) la produzione agricola con l’impiego di fertilizzanti chimici e combustibili fossili, in quanto non sarebbero più disponibili quelli naturali. E siamo così sicuri che in un siffatto sistema le condizioni dell’ambiente possano essere migliori di quelle odierne?

BuoiVisto in questa ottica ci rendiamo conto che mangiare carne non è poi un atto così riprovevole; anzi, probabilmente è l’azione più morale possibile. Ma questo non significa che non dobbiamo avere a cuore il benessere degli animali. Il rispetto per essi non può venire meno. Oggi le aziende industriali di produzione di carne allevano il bestiame in maniera a dir poco violenta: pochissimo spazio a disposizione per muoversi, bombardamenti ormonali, antibiotici, mangimi sintetici; e questo non è assolutamente tollerabile. È su questo punto che dovrebbero battersi gli animalisti, non sull’atto dell’uccisione, dove l’animale probabilmente neanche si rende conto di cosa sta subendo. Oggi esistono migliaia di fattorie che allevano il bestiame nei pascoli all’aperto; pascoli che vengono fertilizzati con il letame prodotto dagli animali stessi, in un sistema naturale dove al centro della propria filosofia produttiva c’è il rispetto per l’ambiente e per la fauna. Un giorno quegli animali verranno uccisi per alimentare gli uomini e per continuare quel ciclo vitale chiamato natura. Ma avranno vissuto una vita dignitosa.

Gianluca D’Amelio

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