Il nuovo libro di Nico Orengo: “Di viole e liquirizia”
“Qui dove il vino è come il petrolio e ognuno si vanta di farlo meglio dell’altro”
Le prime cinquanta pagine del libro appassionano, hanno il merito di lasciar incollati alla lettura chi ama il vino profondamente e chi lo sta cominciando ad incrociare nel suo percorso, chi è stato nelle Langhe o chi ci vorrebbe andare: citazioni di paesi, vigne storiche e produttori sono perfettamente integrati all’interno della narrazione che scorre apparentemente senza particolari sussulti, ma che delinea con lentezza e delicatezza la storia ed il contesto e, soprattutto, è ricca di spunti di riflessione.
Un sommelier francese, Daniel, per lavoro, soggiorna per alcuni giorni ad Alba e tra una lezione e l’altra del suo corso di degustazione presso una locale enoteca, visita luoghi, attraversa paesaggi, ma soprattutto incontra “ritratti umani”, che illustrano pienamente quella grande terra che è la Langa, con il merito di trasmettere al lettore quel carattere quasi scontroso, introverso, timido, ma schietto, delle genti di queste terre, che scaturisce dall’incontro di uomini e donne che avranno ruoli ben delineati all’interno della narrazione e che saranno più che significativi, quasi sconvolgenti, nella vita del nostro protagonista.
Un sommelier verrebbe da dire “atipico” rispetto a quello che, purtroppo, siamo soliti a volte osservare oggi, sommesso, che non vanta certezze scolpite e che osservando, durante un veloce e frugale pasto, alcuni commensali roteare con movimenti circolari i bicchieri per cogliere necessariamente e ad ogni sorso chissà quali sfumature, si rende conto di cosa sia la pura ostentazione e di come, soprattutto, in parte, quelli come lui siano stati i principali responsabili di questo decadimento.
Francese, dicevamo, il protagonista, ma con una approfondita conoscenza dei vini piemontesi in generale, ma soprattutto langaroli, ed un’amore per queste terre quasi commovente, ingenuo a tratti, che viene costantemente riportato “per terra”, smitizzato e quasi sbeffeggiato dal primo dei significativi compagni di viaggio e di soggiorno che irrompe nella narrazione, Luciano, il taxista che beve solo birra, che lo scorrazzerà tra colline e stradine e che ha il ruolo di smitizzare, quasi distruggere a tratti, quell’alone di imponente imperialità che attraversa ognuno di noi quando pensa a queste meravigliose terre ed ai suoi vini, una sorta di coscienza critica che non ha paura di bacchettare vignaioli, politici, critici e chiunque abbia avuto il merito di rilanciare e portare definitivamente nell’olimpo dei grandi vini la Langa, ma al contempo, di averne anche stravolto l’originarietà e la sincerità e di aver creato nel tempo anche avidi speculatori, più che sanguigni e semplici vignaioli. Non si parla di modernisti contro tradizionalisti, come spesso è capitato, ma ancora capita, di leggere quando si descrivono uomini e terre di Barolo e Barbaresco, ma di boschi scomparsi a scapito di vigneti, anche là dove le vigne non c’erano o non dovevano esserci, di crus dal valore economico oggi stellare, quando invece, fino a non molti anni fa, venivano svenduti per racimolare un gruzzoletto di denaro per trasferirsi a Torino e lavorare in FIAT.
“Un paesaggio monotono: colline e colline di vigna tutte uguali. Non c’è più un albero da frutto…tagliati tutti i frutteti per far posto alla vigna…vede un orto? Via anche quelli, tanto c’è la Coop e un presidio di Petrini, sperso chissà dove…abbiamo una bella fantasia o no?“. Fantasia e inventiva, doti anche per Daniel importanti nel suo lavoro, lui che praticamente se lo è inventato, ad un certo punto della sua vita, decidendo, per mestiere, quello di scegliere i vini per le cantine dei ristoranti che volevano ampliare la loro scelta, ma che nella bocca di Luciano diventano taglienti e dure da digerire per chi probabilmente non conosce a fondo questi posti: “Per inventivi siamo inventivi. Qui in Langa è tutta un’invenzione…ci siamo inventati un paradiso di vigna per amanti del vino…colline da far invidia alla Toscana. Tutte balle. Qui non sai cosa fare se non mangiare ed ubriacarti, se te lo puoi permettere“.
Poi, il brusco cambiamento nel mezzo della narrazione ed un finale, molto cinematografico e quasi americanizzante, che lascia un lieve, ma deciso, retrogusto amarognolo: le vicende personali, familiari ed amorose, del protagonista assorbono ad un certo punto completamente la narrazione, con intermezzi non semplici da decifrare e integrare, ma soprattutto un finale da film western, da duello finale all’ultimo sorso e riconoscimento, avulso dal resto della trama e quasi forzato, come a voler ritornare sul “pezzo”, sul vino, ma in modo esterno e non magistralmente integrato come nella parte iniziale del racconto.
All’interno del variegato mondo dell’informazione enogastronomica, scritta e virtuale, pochi hanno parlato di questo libro, forse appunto perchè libro e non magari pellicola: stride il confronto con Sideways, film americano che non moltissimi mesi fa ha fatto molto, anche troppo, parlare di sé, scomodando illustri produttori nostrani di vino che si lamentavano del fatto che in Italia nessuno avesse pensato di dedicare un’opera cinematografica ad uno dei prodotti più rappresentativi del nostro paese.
È un libro che mi sento di consigliare, perché scritto bene, senza eccessi linguistici, con sobrietà e bell’italiano, con interessanti spunti geopolitici sul mondo del vino di Langa che possono tranquillamente essere riportati in altre terre dove sostanzialmente sono accadute, e continuano anche adesso ad accadere, cose simili a quelle langarole e che lasciano nel lettore un sentimento a metà strada tra la nostalgia e l’amarezza e che fanno, senza eccessi polemici, riflettere.
La parte finale, degna di un film hollywoodiano, nel quale il protagonista, solo contro tutti, ma con pochi e fidati compagni a tifare per lui, compie l’impossibile in una sfida all’ultimo sorso nel tentativo di riconoscere profumi, sapori e infine vini con nome, cognome e anno di nascita, fa sorridere e anche un po’ innervosire da una parte, dall’altra suggella l’impressione che, pian piano, emerge leggendo il libro e che magari renderà, finalmente, felice qualcuno: se da questo romanzo se ne ricavasse la sceneggiatura per una pellicola nostrana sul mondo del vino, tanto invocata ultimamente da alcuni dopo l’uscita del film americano sopra citato, non se ne rimarrebbe più di tanto stupiti.
Chiudiamo con una delle tante stilettate che escono dalla tagliente verve polemica di Luciano, probabilmente, vero alter-ego dell’autore stesso:
“…io di tutta sta retorica del vino non ne posso più. Abbiamo oramai solo quello e ci costruiamo castelli di balle. E non c’è più posto per niente, per un ricordo, sembriamo nati tutti signori da quando questa non è più terra di malora“.
Alessandro Franceschini
Di viole e liquirizia
di Nico Orengo
Einaudi editore
pp. 155
euro 15.50