Come riconoscere un vino costruito
Luca Gargano e il suo nuovo approccio gustativo
“Dobbiamo ridisegnare il sistema di degustazione e la conoscenza dei vini!”, come esordio non c’è male. Siamo nella periferia milanese, ospiti di un ristorante molto particolare, De Gustibus, di Giuseppe Zen, proprietario e chef, per una serata all’insegna dei “vini veri”, o meglio, di quelli che Luca Gargano, patron della V.E.L.I.E.R., nota azienda genovese importatrice e distributrice di vini e distillati esteri, ma non solo, ha raggruppato col nome “Triple A“, dove le tre “A” stanno per: Agricoltori, Artigiani, Artisti.
Le similarità tra la filosofia di fondo che anima la scelta dei vini da parte di Gargano nel suo catalogo e quella produttiva e quasi esistenziale di Nicolas Joly, vignaiolo biodinamico e promotore di un movimento che sta convincendo molti produttori, non solo in Francia, sono molto forti.
Ma il tema della serata, non è solo ed esclusivamente la biodinamicità, tema certo non secondario, anzi, ma anche l’approccio alla degustazione del vino in generale. Le tecniche di degustazione, più o meno tutte, indipendentemente dall’istituzione deputata a tale insegnamento, si basano su tre aspetti fondamentali della degustazione: quello visivo e a seguire quelli olfattivo e gusto-olfattivo. Osservo il colore di un vino, cerco di analizzarne intensità e complessità olfattive, infine scandaglio l’aspetto gusto-olfattivo, cercando di descrivere il possibile equilibrio di un vino, scomponendolo in tutte le sue parti e meditando sulla persistenza del nettare dopo averlo ingerito, in termini temporali e di richiami con ciò che ho avvertito al naso.
Bene, immaginate invece qualcuno che vi dica: “Prendete il bicchiere e bevetene il contenuto tutto di un fiato, poi cercate di concentrarvi su ciò che in bocca sentite in termini di bevibilità, scorrevolezza, piacevolezza anche personale, dovete sentire come uno schiocco da parte della lingua verso l’alto, dopo averlo ingerito“.
Il nuovo metodo Gargano
Riassumendo, questo il punto cardine: difendere il concetto di denominazione di origine, di terroir, quando non solo distruggo i suoli con trattamenti invasivi, come l’utilizzo di diserbanti, ma impiegando poi in cantina anche lieviti selezionati e non indigeni, magari provenienti da ceppi di altri vitigni, con lo scopo di incidere sull’aromaticità del mio vino e uniformarlo allo standard che in un determinato momento il mercato richiede, non ha più senso.
Ma cosa c’entra la tecnica della degustazione in tutto questo? C’entra eccome, invece: i vini, che magari riportano tranquillamente in etichetta la denominazione di origine, ma che di questa non hanno più nulla, per i motivi di cui sopra, anche se in effetti provengono da uve di un determinato terroir, sono costruiti ad arte per piacere a chi li analizza con il metodo che abbiamo descritto: visivo, olfattivo e gustativo.
Colori iperconcentrati per colpire il consumatore, ma non solo, profumi intensissimi e monotematici e infine grandissime morbidezze e concentrazioni, spesso confuse per la vera e propria struttura di un vino, per far cadere definitivamente in un brodo di giuggiole l’ignaro e condizionabile amante di vino, ma anche il degustatore provetto o magari già professionista, sfornato dagli innumerevoli corsi che abbondano ovunque oggi in Italia.
Gli altri due postulati, oltre all’approccio descritto precedentemente, cioè bere immediatamente il vino senza osservarne il colore o bearsi col naso dentro il bicchiere, per scovare il vino “costruito”, che Gargano illustra, sono:
– un buon vino, un vino vero, migliora dopo due, tre giorni dall’apertura, anche dopo una settimana, un vino “costruito” muore in poco tempo, magari anche dopo mezz’ora;
– la prova del calorifero: mettete una bottiglia su un calorifero, d’inverno, per almeno un’ora. Un vino vero manterrà inalterate le sue caratteristiche, i suoi equilibri, un vino costruito si scomporrà completamente.
I limiti dell’attuale tecnica degustativa
È un intero sistema, che parte dalla vigna e arriva fino a come l’appassionato, il consumatore normale, piuttosto che il professionista, si approccia al bicchiere di vino, ad essere messo in discussione: non è più solo e soltanto una questione etica, di rispetto del territorio e difesa degli equilibri naturali, ma anche di qualità del prodotto finale, di piacevolezza del bere quotidiano, oramai corrotto dalla tendenza a pensare che il vino debba essere sempre e soltanto un campione, spesso dopato, da concorso a premi.
È come se ci fosse un sotterraneo filo rosso che accomunerebbe negativamente alcune delle pratiche che vengono contestate in vigna ed in cantina, con chi poi è deputato a far conoscere i risultati di queste ultime: giornalisti, sommelier, assaggiatori ed in genere chi, più o meno professionalmente, comunica e descrive ciò che si ritrova nel bicchiere su riviste, guide, siti web e quant’altro.
L’unico modo, quindi, per smascherare i vini “costruiti”, ma che in realtà non solo sono lontani da ciò che è il “vero” vino, ma anche da ciò che definiamo come “buono” e “gradevole”, sarebbe quello di rivoluzionare il nostro approccio degustativo al vino, altrimenti, con gli schemi attuali, saremo sempre portati a non accorgerci del trucco ed a incensare di lodi e magari premi, vini in realtà “cattivi” e “sgradevoli” al gusto.
Rivoluzione o fraintentimento?
Partendo dal presupposto che mettersi in discussione è sempre positivo e necessario, rimane il sospetto di un fraintendimento di fondo in questo approccio, che vorrebbe essere rivoluzionario: siamo sicuri che sia il classico metodo di valutazione organolettico adottato, seppur con delle varianti, da più o meno tutte le associazioni di settore, ad essere errato e da cambiare o il modo e l’interpretazione con cui spesso viene utilizzato?
I sei vini “veri”, tre bianchi e tre rossi, che sono stati proposti, come degni rappresentanti di quei parametri di autenticità sia in vigna che nel bicchiere, avevano un comune denominatore: ottima finezza olfattiva, in alcuni casi una oggettiva eleganza, equilibrio gustativo, con acidità presente e tannini piacevoli, rinfrescanti, ottima bevibilità e possibilità di abbinamento col cibo. L’ultimo vino, l’esempio di vino “costruito” per piacere ai classici parametri degustativi e premiato dalle guide con il massimo riconoscimento, era semplice, non complesso, monotematico, incentrato su sentori soprattutto legnosi.
Ora, queste caratteristiche, che nella maggior parte dei casi, i partecipanti della serata hanno riscontrato, erano percepibili solo con l’approccio “Gargano” o anche attraverso il classico metodo degustativo? È qui che è presente il fraintendimento cui si accennava prima: sappiamo bene che ancora oggi, anche se forse meno di ieri, il modello di piacevolezza di un vino è spesso purtroppo incentrato sull’intensità di un profumo più che sulla sua complessità, sulla esasperata ricerca della concentrazione del colore e della morbidezza, più che sull’equilibrio, la bevibilità e la possibilità di abbinamento col cibo. Caratteristiche queste che hanno totalmente reso in molti casi impossibile una riconoscibilità di un determinato prodotto nei confronti del vitigno di partenza, per non parlare della zona di provenienza, ai limiti, di un terroir ben preciso, di un cru, di una parcella con un toponimo.
Ma siamo sicuri che scomponendo la degustazione nei tre modi classici, visiva, olfattiva e gustolfattiva, non si possa essere più in grado, oggi, di distinguere un vino palesemente “costruito”, da uno rispettoso delle sue origini e delle sue primarie caratteristiche? Non si può più o non si vuole in molti casi?
Non confondiamo le discutibili motivazioni che spesso portano le guide di settore a premiare vini palesemente “palestrati” con i criteri classici della degustazione, che, seppur andrebbero in alcuni casi rivisti e aggiornati, non sono certo, se usati correttamente e da veri professionisti, i veri capi di accusa contro cui scagliarsi per combattere le proprie battaglie.
La difficoltà di comunicare concetti interessanti
Una delle critiche che spesso viene rivolta a chi perora, non solo la causa biodinamica, ma diciamo, in generale, il recupero di un vino che sia il semplice frutto del lavoro e del rispetto della terra, è quella di cadere in posizioni estreme opposte, ugualmente errate, che rischiano, a volte, di voler far passare come pregi, in realtà difetti, ugualmente non piacevoli. A onor del vero, i vini degustati, non presentavano difetti; il pinot nero borgognone, era perfettamente riconoscibile, non solo come pinot nero, ma anche come origine; la sapidità e mineralità del sauvignon di Quincy rispecchiava bene le caratteristiche di questa particolare zona della Valle della Loira, che dona ai suoi vini timbri diversi da quelli, seppure geograficamente vicini, di Pouilly o Sancerre. Idem dicasi per l’italianissimo nerello mascalese proposto che, seppur, in modo evidente, troppo alcolico al naso, aveva una sua originalità e piacevolezza di beva, che sicuramente lo contraddistingueva da molti altri prodotti siciliani della stessa zona, che ricercano interpretazioni totalmente diverse e spesso stravolgenti del vitigno stesso.
Fabio Luglio, collaboratore di Luca Gargano nel progetto “Triple A” mi dice, infatti: “Attenzione, Artisti, una delle tre A, significa appunto questo, vini senza chimica in vigna e rispettosi in cantina, ma comunque buoni ed equilibrati, creati da vignaioli che sanno fare bene il loro mestiere, artisti appunto, con la consapevolezza che non da tutte le annate possa sempre nascere un vino eccelso”.
Il rischio però che si intravede in tutto questo è quello di non trasmettere nel modo più proficuo le motivazioni di fondo, interessanti e per molti tratti condivisibili, che alimentano incontri come questi: la cultura del vino in generale e la sua trasmissione, non solo ad operatori di settore, ma anche al pubblico dei consumatori quotidiani, è sicuramente argomento delicato, ma al tempo stesso importantissimo.
Venire a conoscenza del fatto che attraverso i lieviti selezionati, magari prodotti da un’unica multinazionale leader di settore, si stravolgono i profumi di un vino, che in realtà i lieviti indigeni presenti, come natura prescrive, sull’acino, possono tranquillamente svolgere il loro compito (fermentazione alcolica, ma anche sintesi di molte sostanze odorose) se in vigna si cerca di non stravolgere l’equilibrio naturale con agenti chimici, sono sicuramente notizie interessanti ed è lodevole il lavoro di chi si dedica alla comunicazione di queste.
La demonizzazione delle normali tecniche di degustazione, che permettono ad un consumatore finale, appassionato e magari particolarmente attento ai dettagli di ciò che sta bevendo, non mi sembra il modo migliore per far capire a chi si ha di fronte, che il giudizio su un vino non dipende solo dalla concentrazione del colore e da morbidezze eccessive che snaturano il vino a semplice bevanda.
Il ritorno alla bevibilità
“…dobbiamo convincerci che un vino per essere grande non può non avere una sua bevibilità, che non è quella del novello ben inteso, parliamo piuttosto di fluidità: alla sensazione densa del corpo deve corrispondere la tensione dell’acidità e dei tannini, altrimenti il vino diventa una bistecca da aggiungere al piatto che stiamo mangiando. Esistono dei vini, considerati grandi, che bastano a se stessi, degustandoli ci chiediamo se abbiamo voglia di mangiare, questi non sono adatti ad abbinare i cibi, si fanno apprezzare quasi come bevande da meditazione. Tuttavia se i vini-bistecca diventano un modello qualitativo di pienezza e personalità, cosa beviamo con piatti importanti? Alcuni sostengono che un vino è perfetto quando non ha bisogno di cibo per essere degustato. Si tratta di una deviazione pericolosa che toglie al rapporto tra vino e cibo la godibilità e la sensazione appagante”.
Queste righe, che dovrebbero essere stampate a lettere cubitali sui testi dei corsi che formano sommelier piuttosto che professionisti del settore enogastronomico, sono tratte dall’ultimo libro di Sandro Sangiorgi, “Il Matrimonio tra Cibo e Vino”, edito da Porthos, rivista da lui stesso fondata e diretta.
Poco oltre, sempre nello stesso libro, Sangiorgi nota come gli abbinamenti che Veronelli propose per primo, tentando una razionalizzazione di questa difficile arte, anni fa, oggi, siano quasi improponibili. Perché? La globalizzazione che ha investito il mondo del vino ha portato con sé anche l’omogeneizzazione di questo su parametri standardizzati, che spesso hanno stravolto l’identità di molti vini, di molte denominazioni e tipologie, tanto che, oggi, affermare che con della carne di agnello sarebbe preferibile e consigliabile, per esempio, un aglianico del Vulture, non ha più senso, se non specificando il nome ed il cognome del vino in questione, poiché spesso, al di là della sacrosanta differenza di stili, molte delle caratteristiche organolettiche comuni a tutti i vini aglianico, magari di una stessa denominazione, sono state completamente stravolte da molte delle problematiche che Gargano ha sollevato.
Gargano parte da un presupposto molto simile: il vino è cambiato molto negli ultimi venti, trent’anni, si è affermato tra la critica specializzata e poi tra i consumatori un modello edonistico pericoloso e totalmente fuorviante e, giustamente, si chiede se gli strumenti (schede analitico-descrittive, organolettiche, a punteggio etc.) che le associazioni di settore utilizzano (A.I.S., F.I.S.A.R., O.N.A.V., Slow Food, etc.) siano ancora attuali ed in grado di percepire i cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni.
Il tema della riconoscibilità di un vino con il suo terroir, non viene preso in considerazione da nessuna scheda, aspetto, per altro, non semplice da analizzare e decifrare, non solo per un normale consumatore, ma anche per un degustatore professionista che non abbia una decennale e approfondita conoscenza di una determinata denominazione in riferimento ad un determinato vitigno.
Ma attraverso le normali tecniche di degustazione in essere, molti, sono comunque in grado, se vogliono, e lo sottolineo, al di là del proprio gusto personale, di riconoscere l’artificiosità di un vino “costruito”, la scarsa bevibilità dovuta alla quasi totale assenza di acidità, la monotematicità di profumi e sapori ottenuti con tecniche in vigna ed i cantina che mirano all’adeguamento ad un determinato gusto, stravolgendo completamente le caratteristiche che un terroir invece apporterebbe.
L’errore, altrettanto grave, è quello di ideologicizzare il vino, sia da una parte che dall’altra: è evidente che un ritorno a vini di maggior bevibilità e di maggior espressività territoriale, oggi, comincia, non solo nella stretta cerchia degli operatori di settore, ad essere un tema maggiormente percepito, voluto, per svariati motivi, legato spesso anche allo scottante ed attuale tema dei prezzi.
I consumatori, non più ignari e poco informati come un tempo, come troppo spesso si vuol far credere, cominciano a capire che un esasperato e disinvolto uso in cantina di tecniche atte ad amplificare oltremisura profumi e morbidezze, al di là del gusto personale, ha una ricaduta sul prezzo finale della bottiglia, spesso ingiustificato: se poi, come sta già, lentamente, accadendo, l’abbinamento col cibo, se non con precisione e tecnicismo da sommelier, ritorna comunque ad essere percepita come una necessità non più secondaria, ecco che è possibile affermare che un lento cambiamento sia già in essere, senza bisogno di inondare gli appassionati di nuove tecniche degustative, che sembrano più figlie del tentativo di voler “stupire” a tutti costi e corrono il rischio di celare e non trasmettere temi di interesse comune.
In tutto questo, un merito lo hanno sicuramente testate, giornalisti, operatori di settore e quant’altro che si sono sempre mossi un po’ controcorrente rispetto alle vulgate comuni, che non si sono mai fatti assoggettare dalle sirene della moda, ma questo non giustifica un atteggiamento estremo e rivoluzionario a tutti i costi: la definizione “vini veri” non ha senso, così come non la avrebbe quella di “vini normali” o “vini quotidiani”, perché sottointendono una visione di contrapposizione che non giova a nessuno, non da ultimo, ai consumatori.
Alessandro Franceschini