Come vendere i vini…Veri: Intervista a Fiorenzo Sartore
Una volta che mi sono innamorato di un vino bio-dinamico, piuttosto che da agricoltura biologica, oppure “vero” o ancora “naturale” come faccio a venderlo? Lo propongo al cliente nello stesso modo di un vino non – bio?
Come e dove lo inserisco nello scaffale se sono un enotecaro o nella carta dei vini se sono un ristoratore?
Recentemente, ma credo che non sia più oramai un caso isolato, mi è capitato, non solo di mangiare in modo direi decisamente interessante, ma anche ad un prezzo assolutamente accessibile, considerando il livello qualitativo della cucina e del servizio, al Ristorante Le Due Spade di Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano: non era la prima volta, ma la novità della mia ultima visita è stata quella di osservare non solo una carta dei vini rinnovata nell’assortimento delle referenze, ma anche una sezione interamente dedicata a questa tipologia di vini.
Quel giorno, voglioso anche di far provare alle persone sedute con me al ristorante qualcosa, diciamo di diverso, in questo momento non mi viene in mente un’altra parola e non so se sia quella più corretta e appropriata, ordinai un vino selezionato proprio dalla prima pagina della carta dei vini, appunto quella intitolata “Vini Biodinamici”.
Chi mi ha dato consulenza al tavolo non ha sentito il bisogno di darmi particolari spiegazioni, se non quella di “lodare” la mia scelta e di chiedermi se conoscevo già il produttore del vino che avevo scelto, nient’altro.
Mi sono però chiesto: quanti commensali che frequentano quel ristorante, seppur appassionati o gourmant incalliti, conoscono il significato di quella parola ” bio-dinamico”, ed in che modo, soprattutto, specie se il consiglio è richiesto, come spesso capita, il sommelier o la persona addetta alla scelta ed al servizio dei vini, avrebbe presentato quei vini?
Tempo fa, partecipai con piacere e curiosità, a Milano, a più di una serata condotta da Luca Gargano, patron della V.E.L.I.E.R. di Genova, proprio sul tema dei vini bio-dinamici, anzi, dei “vini veri” e ne riportammo anche qui su LaVINIum, mostrando delle perplessità proprio sull’uso della categoria “vini veri”. Anche allora mi posi quel problema; se fossi un enotecaro cosa farei? Invece delle targhette regionali che solitamente si usano negli scaffali, ne farei una con su scritto “vini veri”? E poi? Non verrebbe subito in mente al cliente di chiedermi: “Ma gli altri, la maggior parte, cosa sono? Vini falsi?”.
Il tema dei vini bio-dinamici, usiamo questa categoria, anche se forse non è la più appropriata, è, quanto meno per gli addetti ai lavori, internettizzati o meno, abbastanza fecondo di dibattiti in questo periodo: in contemporanea a Vinitaly ci sono state le manifestazioni collaterali di Villa Mattarana, dal titolo “Vini Veri” e capitanata da Teobaldo Cappellano, e quella di Villa Favorita, “VinNatur”, in questo caso organizzata da Angolino Maule (Vedi i due articoli, sempre su LaVINIum, di Fabio Cimmino, qui e ancora qui).
Sul web, soprattutto nella blogsfera, si sono accesi prima e dopo svariati dibattiti: in particolare segnaliamo sia Aristide di Giampiero Nadali, da tempo attivo su questi temi, che Vino al Vino, il blog dell’amico giornalista Franco Ziliani, i cui articoli sulle manifestazioni sopra citate hanno suscitato non pochi interventi e polemiche.
Non vogliamo qui dibattere sulla necessità o meno, per il bene dell’intero movimento, di avere due associazioni che in fondo perseguono uno stesso fine, ma capire, se la questione commerciale, sia sentita o meno come importante e significativa, poiché un aspetto, banale e magari molto, troppo forse, pragmatico, lontano dalla poeticità che anima questo settore, è quello della vendita di questi vini.
Qualcuno potrà obiettare che, ovviamente, la scelta di tenere in assortimento vini di questo genere presuppone non solo un’ottima conoscenza del mondo vinicolo, ma una partecipazione anche “emotiva” a favore delle idee che ispirano vignaioli di questo genere, altrimenti il commerciante in questione si troverebbe alquanto in difficoltà a proporre un vino bio-dinamico, usando magari le vecchie e care leve del prezzo o dei premi vinti, argomenti non proprio perfetti per far “girare” vini di questo genere.
Fermiamoci, carne al fuoco ne abbiamo messa più che a sufficienza e cominciamo a chiedere “lumi” a chi lavora nel settore: cominciamo, per adesso, da Fiorenzo Sartore, enotecaro, anzi, come tiene a sottolineare lui “tenutario di enoteca”, genovese, on line dal 1995, dire quindi antesignano è quasi poco, considerando che undici anni fa’ la parola “sito” o “web” diceva qualcosa a pochissimi, ma anche, “tenutario” di un blog molto interessante dal titolo “Diario Enotecario“.
Scorrendo velocemente l’elenco dei vini che troviamo sul suo sito web mi sembra di intravedere poco di questa categoria, ma chiediamolo direttamente a lui:
Fiorenzo, cosa pensi dei vini biodinamici?
Non ho la tendenza ad avere opinioni per categorie: come sai, dire vino biodinamico può significare vino di sorprendente personalità, od emerita robaccia opalescente e rifermentata; ciò premesso, sono abbastanza favorevole alla filosofia “bio”, non sono tra quelli che hanno una sorta di pre-giudizio negativo (se ne incontrano).
Ne tieni in enoteca?
In questo momento ho solo due-tre etichette che sono identificabili strettamente come bio.
Che percezione c’è da parte del tuoi clienti?
Nessuna percezione specifica; forse ti deluderò, ma questo dibattito è tanto vivo (ed interessante, aggiungo) tra gli addetti ai lavori, quanto sostanzialmente ininfluente sulla massa dei miei clienti; per dirtene una, negli ultimi mesi ho avuto richieste specifiche di vini bio uguali a zero.
Li hai divisi inserendoli nello scaffale della regione di riferimento o hai attrezzato un “isola”, piuttosto che una scaffalatura ad hoc?
Io uso una suddivisione trasversale, diciamo (tieni presente che ho una superficie di vendita ridottissima, il mio e’ un piccolo negozio di quartiere) e i vini sono sostanzialmente divisi per aree geografiche (spannometricamente) ed all’interno di queste aree stanno le etichette in questione.
Come fai a proporli? Cosa racconti ai tuoi clienti per venderli?
Uso gli argomenti omologhi alle altre etichette: racconto al cliente cosa mi ha colpito del prodotto, racconto l’assaggio, racconto come l’ho scoperto. Riguardo alla specifica bio, privilegio gli argomenti che evidenziano la rinuncia a sostanze chimiche in vigna, esemplare a questo proposito è il prodotto di Bera, che nelle sue vigne esibisce una varietà di insetti e piante pressochéé sparite ovunque: molto suggestivo, no?
Sì, molto suggestivo, ma ai tuoi clienti quanto interessa il discorso sulla varietà di insetti, ma soprattutto, è in grado di capire perché sono importanti? Glielo spieghi tu? Ed una volta che gli hai detto che in vigna non usano chimica, non viene loro il sospetto che tutto il resto che hai in assortimento la usa ed il tutto, forse, non gli fa benissimo? Mi pare che alla fine si debba necessariamente usare gli stessi argomenti di vendita, assolutamente condivisibili (ce ne fossero di enotecari come te che propongono un vino in base alle sensazioni che hanno avuto loro assaggiandolo) e forse questo un po’ tradisce la filosofia con il quale vengono prodotti.
Sì, l’aspetto ecologico del non-uso di diserbanti ed altre sostanze chimiche viene recepito in modo chiaro, e certo, lo spiego io. Se consideri (esempio) che enti universitari studiano le vigne di Bera perché lì si trovano tipologie di insetti (ragni, se ricordo bene) altrove estinti, ammetterai che non è solo suggestivo, ma pure qualcosina di più. Nello specifico, se hai modo di visitare le vigne di Bera ti colpisce molto l’inerbimento fitto, che spicca in modo rilevante, soprattutto confrontando la situazione di vigne vicine nelle quali viene adoperato ogni genere di tecnica e queste sono addirittura dilavate, vista la mancanza di vegetazione. Ovviamente la cosa non è priva di contraddizioni, come immagini: se io evito l’uso di chimica ma lo fa il mio vicino, ci sono buone possibilità che il mio “purismo” sia solo parziale. A questo genere di obiezioni Bera adopera un argomento minimalista: io comincio ad essere bio, che in sostanza ò meglio che niente, gli altri seguiranno. Quanto al fatto che gli altri ragionino in modo differente, cioè facciano ampio uso di chimica, io faccio presente che parliamo sempre di sostanze concesse dalla legge. Il concetto è un po più ampio del semplice fa bene/fa male: e del resto sarebbe pure lecito chiedersi, vabbè, ma che c’entrano i ragni col barbera? Io credo si debba focalizzare meglio l’aspetto del non-trattamento in considerazione delle caratteristiche del prodotto finale. Mi spiego meglio: essere bio non significa solo e soltanto essere sani (onestamente poi, non abbiamo prove concrete che i non-bio ci avvelenino), significa semmai approcciare il concetto-vino in modo meno coercitivo, delegando la natura e limitandosi a ricevere, recepire, quello che la natura ci trasmette; il risultato finale, spesso (fortunatamente) è personalità, carattere, capacità di sorprendere e di restare fissato nella memoria. Ci sono aspetti, nell’uso della tecnologia, che concorrono a rendere “freddo”, a volte, il vino; come vedi non mi fisso tanto sull’aspetto salutistico, ma ragiono da assaggiatore, cioè considero il prodotto nel bicchiere, ribadendo il concetto che non possiamo dire che il prodotto non-bio sia velenoso; semmai, vale la pena riflettere sulla “freddezza” di certi prodotti un po’ troppo tecnici; prendi ad esempio il problema dei lieviti selezionati che finiscono per essere appiattenti, riguardo il corredo aromatico, soprattutto parlando di vini bianchi; molti produttori vini-veri-oriented riescono, rispettosi come sono dei lieviti autoctoni, a conferire carattere e personalità ai loro bianchi. Comunque, per restare alla “comunicazione” dei dati, per me è imprescindibile l’assaggio; considera che normalmente effettuo assaggi a campione, distanziati nel tempo, del prodotto che ho a listino, per avere pure un’idea del processo evolutivo e, in generale, per farmi un’idea complessiva del vino: che non è uguale a quello che era sei mesi fa quando l’ho comprato, e non sarà uguale a quello che diverrà tra sei mesi, e così via. Come uso dire, “mi porto il lavoro a casa”.
Ti sei mai posto il problema del concetto di “vino vero”, soprattutto alla luce del fatto che questo poi potrebbe far generare nel consumatore la legittima domanda “Ma allora tutti gli altri sono falsi?”
Circa questa cosa, è vero, il problema è di linguaggio; potevano scegliere un termine meno dicotomico, ma capisco che questo sia solo uno slogan, alla fine, senza la pretesa di essere esaustivo ma solo con l’intento di restare impresso.
Ultima domanda. Se venisse qualcuno e ti dicesse: “Cambiamo tutto e apriamo un’enoteca bio-dinamica, biologica, insomma, con vini naturali o veri che dir si voglia, e basta, tutto il resto lo tagliamo, magari la chiamiamo pure Enoteca Vera o qualcosa del genere” tu cosa gli risponderesti?
Probabilmente direi questo: se consideriamo (dati Nielsen) che i consumatori di vino di qualità, quindi, verosimilmente, il target delle enoteche, costituiscono il 20% della massa complessiva dei consumatori, dobbiamo pensare che coloro i quali fanno una scelta “radicale” di consumo esclusivamente bio sono una piccola nicchia di questa già risicata porzione; una nicchia della nicchia. Se aggiungi che, vox populi, l’enotecario ideale dovrebbe ricaricare il 20% (ma quando mai!) ottieni una bella formula per finire tra le braccia del curatore fallimentare a sei mesi dall’avvio. Non vorrei sembrare pessimista, ma non vedo granché spazio per una enoteca “all bio”. Aggiungi che questa è, diciamolo, pure una moda e che presumibilmente, presto, i vari Zonin e compagnia briscola usciranno con una loro linea bio.. humm, non ci farei troppo conto, su questa cosa. E poi ti tocca leggere 3d come quello sul forum del Gambero, ora, intitolato “Perché molti enotecari e ristoratori fanno fatica a pagare il vino?” (vedi qui). Magari perché i ricarichi ideali del 20% ti mandano a fondo? Ah, che difficile, a volte, resistere a innescare flames.
Alessandro Franceschini