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Conservare la carne: il salam d’la duja

Le risaie in LomellinaC’eravamo lasciati con la promessa di analizzare una ricetta tipica dedicata ad ognuna delle tecniche di conservazione degli alimenti di cui ho parlato nel precedente articolo. Scavando (e già, cos’è un antropologo se non un archeologo della cultura?) nella storia delle antiche ricette italiane mi sono imbattuta in un metodo di conservazione della carne che utilizza lo strutto per la conservazione di questo alimento: i famosi “Salam d’la duja“.
Si tratta di piccoli salamini avvolti nello strutto e messi a conservare nella duja, come in dialetto locale viene chiamata la giara in terracotta. Il dialetto è quello piemontese, ma in realtà la patria di questi deliziosi salamini è ampia: da Vercelli a Novara, lungo la bassa Val Sesia e poi a Mortara, Vigevano, Pavia fino a Mantova. Certo, paese che vai ricetta che trovi, così il nome e gli ingredienti cambiano da luogo a luogo, ma il metodo di conservazione rimane lo stesso: il grasso animale.
In Piemonte a finire sotto lo strutto sono i salamini di carne suina (le parti della coscia, culatello, coppa e grasso di pancetta) macinata e aromatizzata (sale, pepe, aglio e vino rosso corposo) insaccata nel budello torto di manzo. In Lombardia, invece, troviamo la salamina di filzetta, che deriva dalla luganega, quindi ancora carne suina contenuta in un budello sottilissimo. Rimanendo in questa regione, a Vigevano e Mortara, è la carne d’oca a essere regina.

Salam d'la dujaQuesto perché, fin dall’epoca degli Sforza, a Mortara in particolare, aveva sede una nutrita comunità ebraica. In osservanza con i precetti religiosi che vietano il consumo della carne di maiale agli ebrei, questi hanno rivolto la loro attenzione a questo volatile, eleggendolo principe delle loro ricette. Non a caso l’oca è definita il maiale degli ebrei.
E’ a loro che si deve la nascita del salame “ecumenico” o salame della pace, chiamato così perché è l’unico che rispetta le regole alimentari delle tre principali religioni del Mediterraneo (Ebraismo, Cristianesimo e Islam). Così anche l’oca finisce conservata nel grasso, grasso d’oca ovviamente particolarmente profumato e saporito, nel quale vanno a riposare e ammorbidire (ecco un altro vantaggio di questo metodo, consente sì la conservazione ma anche di avere carni più morbide e tenere) i suoi piccoli prosciutti, i famosi quartini.
Che sia di maiale o di oca l’usanza di conservare questi piccoli insaccati nel lardo risale al Trecento, dove l’esigenza di preservare la carne nasce dalla particolare geografia del luogo; la Lomellina è una terra ricca di fiumi, torrenti e risaie. Il lardo era l’unico modo per combattere l’eccessiva umidità (che si sa è nemica degli insaccati).
Ogni famiglia della zona preparava la sua “olla” (altro nome dato alla giara di terracotta), usando anche mezzi di fortuna se non si aveva la fortuna di disporre di una vera e propria olla (si utilizzava per esempio damigiane a cui veniva tagliato il collo), annegando i salamini nel lardo fuso e coprendo il tutto con un asse di legno. Rituali che coinvolgevano tutta la famiglia, che in questo modo conservava parte di quell’unico maiale nutrito e allevato per tutto l’inverno (il maiale veniva ucciso, di norma, il 17 gennaio per la festa di S. Antonio Abate che l’iconografia cristiana vuole raffigurato insieme a questo animale) ma che al contempo, una volta aperta la olla, prevedeva che si mangiasse tutti insieme. Un rituale familiare quindi, che vedeva tutti i componenti con in mano lo spiedo ad arrostire il proprio salamino sulla fiamma del camino.
Una volta cotto, il più delle volte lo si adagiava su una fetta di pane fatto in casa, dove il lardo, sciogliendosi, creava un’alchimia di sapore e profumo unica. Il pane era, infatti, il giusto companatico di questi salamini, un pane casareccio forse un Miccone (o Pavese) a base di pasta acida, farina di grano tenero, acqua e sale se rimaniamo in Lombardia, o una Mica, derivazione della biova, se rimaniamo in terra piemontese.

DiotsIl profumo di questi morbidi salamini era dovuto sia al contenitore in cui erano conservati sia alle spezie impiegate nella ricetta. La duja in passato era in terracotta grezza, e veniva conservata, una volta riempita del suo prezioso contenuto, in cantina su suoli di sabbia pregni di acqua che permetteva così a mantenere fresche le giare contribuendo alla buona riuscita della conservazione.
Verso la fine dell’800 questo tipo di contenitori è stato sostituito dalle olle bianche in ceramica che, con il vantaggio dell’invaiatura, evitano l’eccessivo assorbimento del grasso da parte dei salamini, e il conseguente “profumo di forte” che li caratterizzava anticamente. Il profumo di questi piccoli insaccati è infatti dovuto alla ricetta che li vuole a stagionare per circa un anno in uno strutto aromatizzato con foglie d’alloro e granelli di pepe nero o altre spezie.
I nostri cugini francesi rivendicano l’origine di questa antica ricetta, se ci spostiamo, infatti, in Alta Savoia troviamo i “diots” piccole salcicce conservate nello strutto e messe a stagionare in giare di terracotta. Ma la storia dell’alimentazione, frutto di migrazioni, mescolanze, e prestiti fa presto a raccontarci il perché; i nostri salamini non hanno fatto altro che cambiare di confine a seguito delle vicende storiche che hanno visto il territorio dell’Alta Savoia far parte dello Stato Piemontese fino al 1860, e dopo questa data dividersi tra Francia e Italia. I diots si differenziano dai nostri salamini per vari motivi; prima di tutto usciti e ripuliti dallo strutto vengono cotti nel vino bianco o messi ad affumicare, inoltre sebbene il metodo di conservazione sia per lo più nello strutto a volte questi vengono conservati sotto la cenere o nel fieno.
Che sia italiana o francese questa ricetta si va sempre più perdendo, sono sapori in via d’estinzione, che vanno preservati perché raccontano una storia genuina del cibo, cadenzata da quel desiderio e necessità che rendevano il mangiare sempre una festa, e mai una banalità.

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