Dalla cucina d’autore alla ricerca d’autore. Considerazioni sparse dopo Identità Golose 2008
Guardare il mondo degli chef con occhi neutri, o presunti tali, ma sicuramente curiosi, fa uno strano effetto. Ho cercato di fare una cronaca giornaliera, ovviamente non dettagliata, vista la quantità di interventi e seminari a disposizione, dell’ultima edizione di Identità Golose, attraverso il nostro Blog, per fissare momenti, conversazioni, fotografie, senza il filtro della riflessione. È passato un po’ di tempo, un mesetto direi, e ad essere sinceri cercare di capire dove stia andando la cucina d’autore italiana ed internazionale non è semplice e probabilmente, anzi, sicuramente, non è nelle mie capacità. L’autore ed ideatore del congresso in questione, il giornalista Paolo Marchi, che ringrazio per avermi ospitato anche quest’anno, sostiene che un buon giornalista si riconosce non solo da come scrive, ma soprattutto dal tempo che ci impiega a farlo. Dopo troppi giorni è troppo semplice: puoi leggere quello che hanno scritto gli altri, puoi tagliare e cucire o addirittura copiare ed incollare i pensieri altrui. Al volo e con originalità, invece, magari in giornata, è più difficile, ma vero. Ne sono poco capace, sicché, mi sono preso il tempo di cui avevo bisogno, nonostante il monito e temo di non aver trovato neanche il bandolo della matassa.
Qualche giorno dopo la chiusura del convegno, un amico chef, uno di quelli dove rifugiarsi non solo per mangiare bene, ma anche per star bene, uno di quelli che la ricerca la fa per davvero tutti i lunedì e non solo perché è di moda sbandierare la bontà delle materie prime, mi chiedeva che impressioni avessi avuto io, che cerco di scrivere di vino, ma che di cibo sono al massimo praticante assaggiatore senza velleità critiche di alcun tipo. Non saprei: certo le idee sono confuse e probabilmente questo è un bene.
Cosa è la creatività in cucina? Sorprendere con la ricerca e l’accostamento di ingredienti sconosciuti ai più? Concretizzare in un piatto sogni, idee, pensieri? Stupire, sempre, a tutti costi, giocando con la riconoscibilità di alimenti o con le preparazioni storiche rivisitate? Non so se nel mondo della cucina d’autore esistano fazioni, schieramenti e posizioni da difendere a oltranza come nel mondo del vino (tradizionalisti vs modernisti, barrique vs botte grande, lieviti selezionati vs lieviti autoctoni, vitigni autoctoni vs internazionali), di quelle che fanno sì che ci si scagli uno contro l’altro senza esclusione di colpi, compresi quelli bassi e proibiti. Certo, ascoltando giù dal palco “critici e personaggi austeri”, la sensazione è che se uno si fosse alzato e avesse affermato: “Perché devo mettere le ossa della faraona in una sorta di distillatore per ottenere un’acqua che profumi del volatile in questione e poi spruzzarla sulle sue parti, coscia o petto che sia, cotte sottovuoto, per esaltarne i profumi? Non basta trovarne una di qualità immensa, allevata con tutti i crismi del caso, cucinarla bene, e presentarla con un pizzico di fantasia ed originalità e farci gioire attraverso i profumi vivaci, originali e le sue consistenze primarie?” sarebbe stato accolto da uno sguardo di compatimento con annesso risolino infastidito che lasciava presagire la seguente risposta: “Non hai capito nulla, ancorato nelle tue posizioni vetero-tradizionaliste. Se devo cucinare così, dov’è la sperimentazione, l’evoluzione, la creatività?“.
Esistono tomi sulla cottura sottovuoto e non dubito che se sia così utilizzata, come ho visto in quei giorni, considerata praticamente imprescindibile per mantenere e migliorare la consistenza, per esempio, delle carni, un motivo ci sarà. L’amico chef di prima alla mia domanda sul perché lui non la usi mi ha ammonito: “Ma perché dovrei: quando trovo un piccione o una faraona come si deve, ed è già un risultato non indifferente oggi, cerco di farne esaltare profumi e sapori originari attraverso semplicità di esecuzione e di preparazione. Altrimenti, significa che tutta questa grande materia prima non ce l’hai veramente“. Chi ha ragione? Probabilmente il palato di ognuno di noi, i nostri gusti personali. Ma non è che questa risposta mi dia poi molta soddisfazione. Quando metto il naso dentro un bicchiere di vino nel quale il profumo è vivo, pulito, fresco e mi richiama inconfutabilmente il vitigno di partenza e la terra nella quale è stato allevato, appago i miei sensi in modo indiscutibile. Quando questo non accade e annuso una marmellata di frutta con ricordi del comodino di mia nonna, o, senza arrivare a queste perversioni enoiche, purtroppo ancora ben radicate e di moda, quando il vino è talmente concentrato e tirato per i capelli da essere distante anni luce dal suo luogo di provenienza, anche se magari tecnicamente perfetto e, perché no, anche di una certa piacevolezza, solitamente appago il portafoglio di chi ha creato quel vino, poco i miei sensi e dopo qualche bicchiere subentra la noia. Penso che più che interrogarsi sulle mille sfaccettature che la creatività umana, la tecnica e la ricerca possono apportare alla cucina, o al vino, sia opportuna un’operazione tanto semplice quanto evidentemente fastidiosa per molti: ritornare alla materia prima. Anzi, ritornare alla ricerca della materia prima. Poi, ben venga anche la provocazione, che non ha mai fatto male a nessuno. Ma ricercare non significa farlo tra i pur bravissimi selezionatori/distributori che oggi esistono in circolazione e che tutti i ristoranti, più o meno, utilizzano, ma prendere la macchina e cominciare a ricercare il fornitore che meglio ci soddisfa. Operazione costosa, dispersiva e troppo impegnativa? E’ vero, ma l’omologazione è dietro l’angolo e non bastano effetti speciali o tecnicismi esasperati per personalizzare una materia prima piacevole, di buona fattura, ma identica per tutti e quindi spersonalizzata.
I grandi vini sono unici e cambiano ogni anno: c’è chi i tannini li mette in polvere, i lieviti li prende alti, biondi e con gli addominali a tapparella, usa il concentratore ed ogni anno ti propone un vino sempre uguale, tecnicamente ineccepibile, ma tremendamente omologato ed alla fine, stancante. Nella cucina moderna d’autore la trasformazione delle cucine in piccoli laboratori di ricerca sperimentale chimica, ha realmente apportato novità, ma soprattutto miglioramenti, o ha fatto perdere un po’ la bussola rispetto alle operazioni elementari primarie da cui ogni chef dovrebbe pur sempre partire?
Alessandro Franceschini