Da tempo, sotto la richiesta degli stessi produttori, il disciplinare docg che stabilisce l’uvaggio del Chianti Classico, ha subito progressive modifiche. Attualmente prevede come possibile aggiunta al Sangiovese (che deve essere presente per almeno l’85%), un massimo del 15% di uve autorizzate o raccomandate, fra le quali si annoverano il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Syrah. Tutti noi sappiamo bene, intenditori e appassionati, che l’apporto del 15% di uve “forti” come il Cabernet o il Merlot, lascia un’impronta più o meno marcata nel vino che va a comporre, condizionandolo in molti aspetti della sua personalità. Ciononostante – è questione di giorni o settimane – è al vaglio del MIPAF la proposta di un nuovo disciplinare che prevede la possibilità di aumentare ulteriormente la percentuale delle suddette uve, fino al 20%. E’ chiaro che i produttori chiantigiani sono consapevoli di quanto il Sangiovese sia un vitigno difficile, altalenante, poco incline a “compiacere”, e sentono sempre più impellente la necessità di dargli un “aiuto” per poter restare al passo con il mercato, soprattutto internazionale. Un mercato che vuole vini morbidi, colorati, concentrati, ricchi di polpa e profumi, al quale non interessa la “tipicità” di questo o quel vitigno, di questa o quella microzona. Già, ma il Chianti Classico non è proprio una microzona, ma una delle aree a docg più ampie d’Italia, che si estende dal nord-ovest di Siena fino a pochi chilometri da Firenze, e comprende i comuni di Gaiole, Radda, Castellina, Greve, parte di Castelnuovo Berardenga, San Casciano Val di Pesa, Tavernelle Val di Pesa, Barberino Val d’Elsa e una piccola area intorno a Poggibonsi. E se a Montalcino è ormai provato che il Sangiovese grosso dà il meglio di sé nella produzione del famoso Brunello – al punto di riuscire a tamponare i limiti di un disciplinare troppo vecchio, che chiede una permanenza di anni in botti grandi ormai inspiegabile e dannosa, che finisce, in annate meno fortunate, col fiaccare e privare il vino di quel minimo di energia e vivacità necessari a renderlo desiderabile – altrettanto non si può dire per il Chianti Classico, dove esistono infinite differenze da microzona a microzona.
Insomma, il Sangiovese è per molti una spina nel fianco, a causa della sua difficile adattabilità e dell’incostanza dei risultati. Oggi il vino italiano è cresciuto qualitativamente un po’ dappertutto, mettendo in evidenza vitigni un tempo scarsamente valutati, che hanno accorciato le distanze con altri più blasonati e conosciuti, fra cui proprio il Sangiovese. Eppure, se da una parte si avverte la necessità di rivedere l’uvaggio del Chianti Classico per restare concorrenziali, dall’altra non si può non riconoscere che mai come in questi ultimi anni si è assistito ad una vera e propria rinascita del mito del Chianti, dimostrata sia dall’escalation nelle vendite, sia dal notevole aumento dei prezzi a bottiglia. Basta andare in enoteca per rendersene conto: all’inizio degli anni ’90 spadroneggiavano i prezzi stellari dei supertuscan, mentre, salvo qualche etichetta di pregio (vedi Castello di Ama), il Chianti veniva collocato su una fascia decisamente inferiore, era raro trovare una bottiglia al di sopra delle 40.000 lire. Oggi la situazione è mutata radicalmente ed è quasi impossibile trovare un buon Chianti riserva al di sotto di 20 euro. E tutto questo a prescindere dall’eventuale aggiunta di Merlot o Syrah adottata da una parte dei produttori. Viene allora da chiedersi se è davvero così necessario effettuare queste “correzioni”, alterando quelle caratteristiche che rendono unica e inimitabile l’area del Chianti Classico, oppure si potrebbe lavorare e sperimentare più a fondo il Sangiovese, lasciando ad altre etichette, magari Igt, il gioco degli uvaggi, delle mescolanze? Ma le conoscenze che agronomi ed enologi oggi hanno acquisito, ci spingono a far loro una domanda, alla quale, forse, non si può ancora dare risposta certa e inequivocabile: è il Chianti Classico terra realmente vocata per il Sangiovese? Attendiamo fiduciosi una risposta.
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