Emanuele Pelizzatti Perego. Nel solco del padre
“Non farò mai quel lavoro lì!”. Vedeva il padre condurre una vita non certo semplice: preoccupazioni, fatica, incertezze e tanto tempo dedicato alla vigna e alla cantina. Il carattere di entrambi, poi, non era facile da accordare. Così, dopo il diploma di geometra, decide di lavorare con lo zio tra cantieri e muratori. Ma si stufa e decide di cambiare: questa volta sono le assicurazioni la sua tappa successiva, tra una trasferta e l’altra a Milano, per coltivare la grande passione per la chitarra elettrica insieme al suo gruppo.
Arriva il dicembre del 2002 e papà Arturo si ammala: quell’affermazione iniziale di rifiuto per l’attività di famiglia comincia a vacillare. Torna a casa e prova a vedere che sensazioni gli suscita girare tra vasche di cemento e botti, camminare su e giù tra i filari allineati sui ripidi terrazzamenti della Sassella e del Grumello. Il 2003 è praticamente un anno di ambientamento, anche se paradossalmente a casa sua: impara dal padre e dai vecchi cantinieri. “Nel 2004 cominciavo a capirci qualcosa”, ma, purtroppo, alla fine di quell’anno, rimane solo in cantina, insieme alla madre e alla sorella.
Prima di morire, tuo padre era contento di vederti in cantina?
Sì. Era contento perché aveva visto che mi ero appassionato e che c’era quindi un futuro per quello che aveva fatto lui.
Ma come hai fatto da solo? In fondo non eri ancora preparato.
Non solo. Molti aspetti relativi alla gestione della cantina li ignoravo completamente perché mio padre non mi aveva mai parlato. Per fortuna, però, era solito redigere delle agende dei travasi.
Cosa sono?
Delle vere e proprie agende sulle quali scriveva tutto: tempi e metodi dei travasi per ogni botte, dato che ognuna aveva comportamenti diversi. Ho dovuto ricostruire tutto in mezzo a quel disordine e poi l’ho trasferito sul PC.
Chi ti ha dato consigli o seguito in questo percorso?
Prima di tutto i cantinieri che lavoravano con mio padre. Poi, non posso non citare la figura di Aldo Venco insieme al Dott. Bassi. Erano gli enologi che lavoravano per la Fondazione Fojanini all’interno di un progetto di assistenza enologica alle piccole aziende valtellinesi durato sino al 2007.
Da un estremo all’altro. Dal rifiuto al completo innamoramento. Ma non solo: quello che ci si trova davanti in questo momento è un uomo di 29 anni, dallo sguardo che si illumina mentre ti racconta di qualsiasi aspetto riguardi il suo lavoro, che oramai lo assorbe in modo totale, quasi maniacale. Tanto sereno e sorridente quanto dotato di una maturità a tratti spiazzante vista la sua giovane età.
Ha mantenuto saldi i tratti fondamentali della filosofia paterna: rispetto per i tempi del nebbiolo, sia durante la vinificazione che durante il lungo affinamento in botte e in bottiglia. Cambiamenti, seppure ponderati e studiati con calma, però, ce ne sono comunque stati. Oggi ti imbatti, appena entrato in cantina, nella vista di un tavolo dove sta cominciando ad allestire un piccolo laboratorio artigianale interno per monitorare costantemente i suoi vini senza dover aspettare i tempi delle analisi esterni.
In cantina vedo tante nuove botti targate Garbellotto.
Sì, per altro ne sto testando alcune che ho fatto fare appositamente per me con un mix di rovere, castagno e acacia, recuperando una vecchia tradizione che in Valtellina era ben radicata.
In vigna, invece, come ti sei comportato appena entrato in azienda?
Mio padre aveva una manodopera anziana che in pratica faceva quello che voleva. Era come avere dei conferitori di uva interni. Ho aumentato l’infittimento in vigna, ho accorciato i capi a frutto cercando di coniugare la grandezza delle viti vecchie con una loro gestione orientata ancor di più alla qualità.
Un lavoro lungo…
D’altronde non è facile far lavorare le vigne vecchie con capi a frutto più corti. Non basta tagliare una branca per avere lo sperone alla misura giusta. Ci vuole un operaio specializzato che le curi costantemente durante l’anno.
Operai specializzati: qui, come altrove, immagino non sia facile trovare delle maestranze all’altezza.
No. Dal 2004 a oggi ho abbassato l’età media della mia squadra in vigna e in vendemmia di circa 30 anni. Oggi ho 6 persone tutto l’anno, tutte nate tra il ’78 e l”80. Ma non è semplice. C’è sia un problema di perdita di maestranze che di formazione su canoni più razionali e qualitativi.
La formazione, quindi, è un problema costante.
È un tema fondamentale, specie in vigna, se vuoi fare vini che provengono soprattutto dalle tue vigne.
Vini che provengono dalle tue vigne. È un tema centrale in Valtellina considerando che su circa 800 ettari vitati, solo il 30% è di proprietà diretta delle cantine. Il restante 70% è in mano a privati che poi conferiscono le uve ad altri. Una parcellizzazione della proprietà che in molti casi è terminata con l’abbandono delle vigne, quando nessuno, al cambio di generazione, ha poi deciso di proseguire il lavoro del padre.
L’azienda di Emanuele ha 11 ettari di proprietà e non ha mai voluto comprare uve dai conferitori, almeno fino a quest’anno, ma solo dopo aver seguito un vigneto di privati che gli serviva per poter produrre un vino che mai era riuscito a produrre sotto il cappello della sottodenominazione Inferno (Fiamme Antiche). Nessuna intenzione, però, di voler allargare la produzione ad altre sottozone: “Il problema è voler avere necessariamente tutte le sottodenominazioni o una sterminata serie di referenze per motivi commerciali. A me non interessa”. D’altronde Ar.Pe.Pe. non ha mai prodotto Sforzato, neanche quando da queste parti sembrava non se ne potesse fare a meno, indicato da molti come icona del territorio.
Quest’estate gli è stato proposto anche un ruolo istituzionale, che ha accettato: si fa fatica a immaginarselo come vicepresidente del rinnovato Consorzio di Tutela Vini della Valtellina (insieme ad Aldo Rainoldi. Presidente è invece Mamete Prevostini) mentre ti parla con un cappellino tirato giù sino alle orecchie, un pile, una tuta e scarponi da montagna. Non si fatica, invece, a pensarlo mentre si infervora nella difesa del suo territorio.
Perché ti sei gettato in quest’avventura?
Me l’hanno proposto e ho deciso di provare.
Cosa ti piacerebbe vedere di nuovo in valle?
Prima di tutto c’è un lavoro di zonazione finito ancora da pubblicare.
Comunque avete una divisione in sottodenominazioni che fotografa abbastanza bene la viticultura valtellinese.
Non proprio. Le sottodenominazioni sono certamente da mantenere, ma non bastano. Ci sono molte differenze all’interno di ognuna di esse, esposizioni e altimetrie diverse e ben distinte che danno origine a vini altrettanto diversi. Basta guardare la Sassella, dove tra un terrazzamento e l’altro cambia tutto, epoca di maturazione inclusa.
La questione relativa ai terrazzamenti e ai muretti in pietra che li sostengono temo sia un altro problema non indifferente.
Guarda, hanno sempre fatto bandi per stanziare soldi per il loro rifacimento. Ma così non funziona. Qui siamo in costante rischio idrogeologico. Basterebbe stanziare una cifra tutti gli anni. I singoli privati fanno delle segnalazioni delle situazioni più critiche. Un geologo poi controlla e stila un ordine di priorità di interventi. Invece questo non succede e si continua a ragionare sempre a danno già avvenuto. Io quest’anno ho speso ventimila euro per risistemare molti dei miei muretti, prima che venissero giù.
Serve quindi un piano territoriale?
Ne serve uno serio, che non si è mai fatto, all’interno del quale la vigna rappresenti un caposaldo indiscutibile e fondamentale. La vigna qui non può e non deve scomparire. Altrimenti poi incorriamo nella speculazione edilizia.
Speculazione edilizia qui? In Valtellina?
Ti potrei fare molti esempi di vigneti abbandonati, al posto dei quali sono state date poi le autorizzazioni a costruire case. E se poi viene giù la montagna?
Non gli manca la verve dialettica, il fervore tipico del passionale, qualsiasi argomento affronti, personale, della sua azienda o della valle. La vigna è il suo chiodo fisso, anche se passa sicuramente più tempo per necessità in cantina. Gli piace la precisione e la scelta razionale: ha cambiato rispetto al passato il vecchio e storico fornitore di tappi: “abbiamo avuto tantissimi problemi, anche su bottiglie importanti come il Rocce Rosse ’95 che poi provocavano problemi di pulizia olfattiva”. In seguito ha deciso di usare un imbottigliatore esterno che arriva da lui in cantina con un macchinario affidabile e che segue costantemente. “Ho smesso di usare la mia imbottigliatrice. Facciamo pochi volumi e quindi rimane ferma per troppo tempo. Questo può portare problemi di muffe indesiderate, benché la si pulisca sempre”.
Oggi, AR.PE.PE. non è più percepita solo come quell’azienda un po’ naïf e retrò che produce vini scarichi di colore, vibranti quanto ad acidità e longevità, ancorati fedelmente alla tradizione e al territorio. Qui come altrove il vento sembra soffiare in modo diverso. Gente che non si fermava a trovarli ora lo fa, dal buio del seminterrato si è passati al salone principale delle feste, quasi improvvisamente: “In parte è cambiato il mercato, ma poi è stato fondamentale il passaparola, al quale abbiamo sempre creduto, oggi moltiplicatosi anche attraverso internet, blog e forum“.
Difficile che ti lasci andar via senza averti messo un bicchiere in mano e portato ad assaggiare qualsiasi cosa fermenti o affini in botte. Ha sempre quello sguardo sorridente a metà strada tra la curiosità e la frenesia, come fosse anche per lui la prima volta. Prende improvvisamente una scala e ti fa salire in cima a un fermentino per osservare un cappello di vinacce in fermentazione: “Guarda che bucce, che spettacolo!”.
Alessandro Franceschini