Esperanza Spalding, un animaletto da palcoscenico
Viene una naturale diffidenza nel leggere le presentazioni dei concerti, ve lo immaginate un articolo che propone un artista parlandone male? E chi ci andrebbe! Conviene fidarsi del proprio istinto e osservare il musicista anche attraverso le immagini che lo ritraggono, si possono intuire molte cose. Ad esempio che Esperanza Spalding, ventiquattrenne di Portland, nell’Oregon, ha un’espressione che trasmette energia, limpidezza, gioia di vivere, che sono già elementi a suo favore, ma si scopre anche che il suo corpo esile ma armonioso sembra nato per stare sul palcoscenico, il suo rapporto con il contrabbasso è assolutamente fisico, non è escluso che la notte lo tenga sotto le coperte. Insomma, ieri sera sono andato al Teatro Studio, la piccola sala dell’Auditorium Parco della Musica di Roma dove verrebbe da pensare che finiscano gli sfigati, quelli di “serie b”, e invece questa ragazza, accompagnata da un divertente quanto bravo Otis Brown III (non Briwn come hanno scritto sulla presentazione) alla batteria e da Leonardo Genovese alle tastiere, si è dimostrata un vero talento, ha cantato e suonato divinamente con una naturalezza disarmante, scaldando velocemente l’atmosfera della sala.
Che sia un giovane prodigio musicale se ne sono accorti in molti, a partire dai numerosi musicisti che l’hanno voluta al loro fianco, come Pat Metheny, Joe Lovano, Stanley Clarke, Patti Austin, il noto batterista Horacio “El Negro” Hernández, il sassofonista Donald Harrison e molti altri. Ma Esperanza è già matura per comportarsi da leader e lo ha dimostrato ampiamente anche in occasioni passate a Perugia e Roma. Il suo album d’esordio Junjo, ha evidenziato subito una personalità spiccata e uno stile originale, oltre a delle ottime qualità come compositrice. Ieri mi ha stupito per l’estrema facilità con cui riusciva a differenziare i fraseggi con la voce e il contrabbasso, strumento dove in alcuni tratti mi ricorda Eddie Gomez, bassista che seguivo e adoravo ai tempi del trio con Bill Evans.
La sua concezione di trio (anche se in verità doveva essere un quartetto, ma il chitarrista non è venuto) è tutt’altro che standard, il modo di comunicare fra loro, i fraseggi, l’abbandono del solito cliché che vede ogni strumentista fare il proprio assolo ad ogni brano, l’interpretazione si jazzistica ma del tutto aperta a nuove sfaccettature, rendono il suo lavoro di assoluto interesse. Segnatevi quest’artista, perché la prossima volta che verrà a Roma, l’aspetta la sala Santa Cecilia, a pieno diritto.