Cuochi si nasce? Non penso. Io non sono nato cuoco. Io sono nato astronauta, poi sono diventato cuoco per passione! La cucina è intelligenza e cultura, è conoscenza e rispetto verso la materia prima. Tutte queste cose arrivano con gli anni di esperienza, con la voglia di mettersi in gioco e con l’umiltà di voler crescere: non si nasce cuochi, ma buongustai eventualmente.
Queste sono le prime parole che ascolto da Fabio Tammaro, anno 1985, nato a Castellammare di Stabia (NA), l’ultima città prima della penisola Sorrentina, cresciuto a Torre Annunziata, chef e proprietario del ristorante “Officina dei sapori“. La sua collaborazione nel 2010 nella gestione in cucina gli ha consentito nell’ottobre 2011 di rilevare il locale facendolo suo a soli 26 anni, con alle spalle collaborazioni con Simone Fracassi, Luigi Cremona e Valeria Carbone. Il ristorante è un angolo di mare a pochi passi da Ponte Pietra, tra le antiche mura di una residenza storica, un tempo fiancheggiata dall’Adige, dove si trovava il vecchio ristorante “Da Adriano”, punto d’incontro della Verona bene negli anni 80-90. L’entrata è caratterizzata dalle pietre di Avesa spaccate a mano. Tre salette: due al piano superiore ed una al piano inferiore, pavimento di marmo “Rosso-Verona” (estratto dai monti Lessini), alle pareti pietre dell’Adige a vista, mattoncini di terracotta, e le travi di legno caratterizzano il locale donandogli un eleganza senza sbavature. La mise en place semplice e raffinata con posate d’argento e cristalli, con un unico quadro, fatto da un amico, rappresenta un pescatore solo con un pesce e un’aragosta.
Come hai scoperto che ti piace cucinare? Per caso, come tutte le cose belle. Noi a Napoli non “mangiamo per vivere”, ma “viviamo per mangiare”, ed io ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia numerosa, dove c’erano mia nonna e mia mamma che cucinavano insieme tutti i giorni e mi rendevano partecipe. Quelle sensazioni, quei profumi, sono indescrivibili e nonostante io cerchi a volte di riprodurli mi rendo conto che è impossibile. Il passato ha sempre un profumo e un sapore diverso rispetto al presente. Poi mi iscrissi alla scuola alberghiera a Vico Equense, volevo fare il Maître, pensa te! Il primo giorno di pratica litigai con un professore per il colore dei miei calzini e me ne andai in cucina, giacca e papillon, a lavare i piatti: da allora non sono mai più uscito da lì! Vorrei sapere chi ha detto che uno chef deve essere per forza fatto di sacrifici e pene? Nessuno. Esistono i posti “fissi” e gli adagiati anche nella ristorazione, tutto dipende dalle ambizioni personali che ognuno segue. La cucina è come una famiglia e ogni piatto potrebbe essere paragonato ad un figlio, quindi più lo segui e più cresce bene e pieno d’amore. Solitamente, chi lavora in cucina trascorre quasi tutta la giornata in essa, cercando di studiarla, di capirla, di proporla in maniera sempre efficiente e personale.
Perché Verona? Partiamo dal principio, dalla Toscana, terra che mi ha dato tanto nei miei 5 anni di permanenza, sia professionalmente che personalmente, all’Abruzzo dove mi sono calato in una realtà sconosciuta ma molto interessante, fatta di piatti poveri ma rispettosi verso il territorio. Di seguito trasferta a Copenhagen, dove sono rimasto per 8 mesi a fare lo chef del noto ristorante “Il Grappolo Blu”, segnalato dalla Michelin Europea. Era la mia quarta esperienza in terra danese, ma è stata la più lunga e la più importante perché mi ha visto affermare come chef e come uomo. La mia voglia di Italia comunque era tanta e decisi di ritornare. Intanto, in una breve pausa estiva avevo conosciuto mia moglie, ragazza casertana che lavorava a Verona e mi si accese una lampadina! Sai quando hai la sensazione che sia stato un messaggio mandato dal cielo? Bene… io l’ho colto al volo.
Quali sono i lati positivi del tuo lavoro? Tanti, tantissimi! Il potersi esprimere ogni giorno in maniera diversa, il poter comunicare con i tuoi ospiti prima attraverso i piatti e dopo attraverso la spiegazione degli stessi, vivere una vita diversa ogni giorno, dove tutto si rinnova e dove basta un attimo per costruire o per distruggere.
Quali sono stati i maestri che hanno segnato il tuo modo di cucinare? Tanti, tutti. Io penso che le persone intelligenti riescano ad apprendere da chiunque qualcosa ed io ho sempre cercato di farlo. Ovviamente, ci sono un paio di “giganti” che mi hanno aperto il cervello in 2 come una mela e mi ci hanno infilato di tutto! Uno di questi è sicuramente lo chef Antonio Tecchia con cui ho collaborato tanto e a cui devo moltissimo. Mi ha “svezzato”, mi ha fatto fare il culo, ma il culo quello pesante! Poi ci sono tanti altri giganti come Vincenzo Cioffi, Ermenegildo Russo, Flavio Clementi, Nicola Luise. Ho imparato molto anche da gente comune, per esempio dal ragazzo egiziano che faceva il lavapiatti in Olanda… l’umiltà in questo lavoro è la prima cosa!
La tua cucina? La cucina è tutta a base di pesce; la nostra filosofia è il rispetto massimo della materia prima: la semplicità. Quando si parte da una qualità altissima della materia prima non si deve stravolgere ma va tutelata. Il nostro menù è caratterizzato da piatti semplicissimi, che richiamano un po’ una tradizione leggermente rivisitata, e da piatti sperimentali, nati da un intuito o da una sensazione da riprodurre. Per questo “OFFICINA”, perché ci divertiamo a montare e smontare i piatti, restando sempre fedeli al sapore ed ai gusti. Si sta tornando alla semplicità (per fortuna) dopo i boom modaioli della nouvelle cuisine, della cucina molecolare e delle altre mille sottospecie di cucine.
Pastiera. Un “must” da te, me ne parli? Quasi sempre proponiamo la ricetta originale della pastiera, quella nata 2000 anni fa subito dopo la dominazione araba a Napoli. Il termine “pastiera” deriva dall’unione di “pasta” e “ieri” (pasta di ieri). Un tempo la pasta era un alimento per i più facoltosi e il napoletano, come al solito, ci mette il suo, la pastiera è nata come “recupero” della pasta avanzata del giorno precedente: giorno per giorno si preparava con i diversi condimenti avanzati, in modo da consumare meno possibile, quindi si cuoceva tutta la pasta che c’era in casa. Ingredienti semplici: pasta, ricotta, zucchero, canditi, uova, fiori d’arancio. Poi si passò alla pastiera che ancora oggi si consuma per due motivi: 1) bisognava rendere la pastiera un “dolce religioso” (un pò come il pandoro e il panettone), in modo da impennare le vendite durante il periodo pasquale, da qui la decisione di sostituire la pasta con il grano, simbolo della rinascita (di Cristo) della rifioritura (della speranza) e dell’arrivo della primavera; 2) era necessario “appesantire” il dolce in modo che i pasticceri potessero venderlo al kg, poiché il grano, essendo un elemento che non lega, ha bisogno di più ricotta e più zucchero ed ha un peso specifico maggiore. La ricetta cambiò del tutto, si aggiunse anche l’uso dello strutto e quella versione, tutt’oggi, è la più commerciale, ma la vera pastiera era di pasta leggera e semplice come la facciamo noi nei quartieri nel cuore di Napoli, e qualche nonna magari la fa ancora così. A me piace seguire molto le linee del passato, ma non del passato recente, delle origini. Così si scopre che tutto è cambiato e si è evoluto, ma non necessariamente in meglio: lo stesso vale per la cassata napoletana (o cassata infornata) e per il babà.
Il tuo sogno? Lo sto vivendo, tutti i giorni. Ho un ristorante di pesce da mandare avanti, una moglie splendida ed un figlio in arrivo. Migliorare sempre queste tre cose, continuamente! Questo è il mio sogno!
Progetti? Tanti.
Io amo il mare, i pesci, l’odore del sale e le sirene quando cantano: la melodia mi ha nuovamente rubato l’anima e il palato. Verona, la mia seconda città! Città stupenda sia dal punto di vista storico, sia da quello culturale. Qui anche la Cucina è cultura, e la visita di oggi ha confermato la mia tesi. Chiedo scusa se mi sono dilungata, ma quando si parla di Arte… non so fermarmi!
Officina dei Sapori via G.B. Moschini, 26 – Verona Tel. 045-913877 Fax 045-8306056 www.officinasapori.com info@officinasapori.com
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