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Le terrazze di “ponca” sul Natisone da Antonella e Fabrizio

vigneto azienda Cantarutti

Ero andato a trovare Antonella Cantarutti, una vera ambasciatrice globetrotter dal sorriso contagioso di cui avevo già parlato in tre articoli precedenti, nella sua tenuta che domina San Giovanni al Natisone da un’altura lungo la strada che sale all’abbazia di Rosazzo per festeggiare la sua recente nomina alla vicepresidenza dell’Associazione Nazionale Le Donne Del Vino prima della loro partenza per andare a Roma per conferire con il Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo nella sede dell’Unione Italiana Vini. Avete

Antonella Cantarutti con le Donne del Vino
Antonella Cantarutti con le Donne del Vino

presente le nozze di Cana, quando la Madonna chiese a un riottoso Gesù di dare una mano agli sposi rimasti senza vino con una tale capacità persuasiva che gli fece trasformare l’acqua in vino? Ecco, io me l’immaginavo così, l’Antonella, e anche se non so ancora com’è andata non ho bisogno di chiederglielo, perché se non è riuscita lei a sussurrare le classiche due paroline nell’orecchio al sottosegretario Franco Manzato come si fa con i quadrupedi per invogliarli a muoversi… beh, non ci riuscirà mai nessun altro. Con i cavalli ci sa fare, ne ha una passione infinita fin da piccola, chissà che non abbia convinto anche lui a occuparsi meglio del mondo del vino.
Antonella è una donna solare, grande comunicatrice, sa ascoltare come poche e ha una gentilezza, un tatto, che noi maschietti non abbiamo. Tra una Donna come lei che sa sventagliare un intero arcobaleno di colori e un bevitore come me che al massimo distingue qualche diversa tonalità di grigi tra il bianco e il nero… ce n’è davvero tanta di distanza. altro vignetoDobbiamo ascoltare di più le nostre Donne del Vino, finché rimangono un movimento di pensiero e di rinnovamento, senza cristallizzarsi in una sclerotica istituzione. Le donne hanno un sesto senso, non c’è niente da fare, sanno limare gli spigoli, addolcire i toni, aprire porte nuove. Avevo fatto al figlio Rodolfo i miei complimenti per il colore del nuovo rosato, prospettandone il successo soprattutto fra chi giudica un vino più dal colore che dal resto, ma l’avevo anche subito scherzosamente provocato, dicendogli che più di una tonalità da rosato sembrava avere quella del sangue di coniglio, anzi della tunica di cipolla rossa di Cavasso Nuovo. A dire la verità, a una donna lo suggerirei più gentilmente come un colore tra la cipria e il corallo rosso chiaro, ma Rodolfo sembrava non aver apprezzato l’ironia e Antonella aveva capito che doveva mettermi immediatamente nelle mani del marito, Fabrizio Ceccotti. Anzi, sulla sua rampante 4 x 4 verde che, dopo le pendenze, i dossi e i crateri che ha affrontato a muso duro, potrei definirla un cingolato invece che un’automobile.

Casa Shangri-La
Casa Shangri-La

Uomo di poche parole e sguardi inquirenti, di una cultura agricola fatta non solo di esperienza, ma di ragionamenti e di prove, di quelli che le mamme ne fanno pochi, anzi forse hanno rotto la macchinetta, il buon Fabrizio mi ha scarrozzato per tutte le vigne alte al confine con Rosazzo, cioè con il Collio, anche quelle terrazzate con ingresso da via abate Corrado sulla scarpata verso il Rio di San Giovanni dove si è ricavato lateralmente una specie di sentiero (già una parola grossa, visto che sembra uno scivolo di alberi tagliati dai boscaioli) spargendoci camionate di ciottoli di fiume per poterci scendere a lavorare. Qualche cacciatore, oppure il vento, si è preso la brutta abitudine di strappare i cartellini all’inizio dei filari, ma Fabrizio non li rimetterà, tanto sa a memoria che vitigni e che cloni ci ha messo. Poi di corsa giù, oltre l’agriturismo Casa Shangri-La fra i vigneti verso il fiume Natisone dove è nato tutto alla fine degli anni ’60 del secolo scorso grazie al padre di Antonella, Alfieri, che si era stufato di fare l’imprenditore nel settore delle vernici e c’era andato a vivere.
FilariCi ho riposato una notte e ci tornerò anche con la famiglia, in quell’autentica pace, perché è un posto benedetto, dove ci sono ancora i caprioli, i boschi, l’aria pulita, insomma il Natisone, tanto caro a me e all’amico Claudio Fabbro, con cui abbiamo ingaggiato una battaglia sul nome del Tocai Friulano. È vero che, per il momento, l’abbiamo persa, grazie all’ignavia di quei politicanti tanto ”collioni” che avevamo nel secolo scorso e nonostante l’appoggio incondizionato di veri amici come l’indimenticabile Tibor Gál, che era allora il presidente degli enologi magiari. Ricordo ancora la conferenza del 20 gennaio 2008 organizzata all’Hilton di Roma dalla famiglia Fantinel in collaborazione con l’Associazione Italiana Sommeliers, Bibenda e l’Assoenologi d’Ungheria.
Aveva aperto i lavori Francesco Maria Ricci, alla presenza dell’ambasciatore d’Ungheria Istvan Kovacs, del segretario di Stato ungherese Tibor Szanyi e del console ungherese Lajos Pinter. Il moderatore dell’incontro era Daniele Maestri, erano intervenuti l’onorevole Manlio Collavini come rappresentante della Camera dei Deputati, il dottor Giuseppe Ambrosio, Capo Dipartimento Qualità Prodotti Agroalimentari e Servizi del Ministero delle Politiche Agricole, il presidente della Federdoc del Friuli Adriano Gigante e il commissario europeo Marian Fischer Boel. Sono fiero di aver sciabolato anch’io contro l’assurdità di togliere il nome Tocai dal vitigno Tocai Friulano, insieme con Claudio e vorrei dire che possiamo perdere 99 battaglie, ma che potremo anche vincere la centesima, l’ultima, e con essa tutta la guerra. Non è finita qui. Anche se ci daranno degli illusi, dei sognatori, le regole ingiuste vanno cambiate e l’ultima cicuta se l’era bevuta Socrate. Noi amiamo il vino.
altri filariA proposito di regole, mentre eravamo giù al Natisone, proprio dietro la fabbrica di vernici che un tempo era di Alfieri, percorrendo una stradina fra due vigne che faceva anche da gradone del livello tra i due terreni, pensavo a quanto spreco di buona terra per mantenerla in quel modo così largo, esattamente come avevo notato lo spreco di un filare di ceppi lasciato apposta per dar da mangiare qualcosa ai caprioli del boschetto sulla riva. Come se ci fosse stato un flash telepatico, Fabrizio mi diceva che sì, la stradina rubava molta superficie, ma serviva ad accedere più facilmente anche alla vigna di un altro, perciò la pratica del buon vicinato per lui aveva più valore delle norme catastali e allo stesso modo bisognava aver rispetto della natura, degli animali selvatici, lasciando appunto un filare in più soltanto per loro. Lo stesso rispetto l’ho poi trovato nella sezione esterna della sua cantina dedicata alla manodopera, ai potatori, con camerette dotate di letti a castello, locali per i bagni e per le docce e altri per la cucina, insomma per mettere a proprio agio chi tratta le viti senza lasciarlo, come si suole dire, ad arrangiarsi da solo alla meno peggio. Come nel caso del comune amico Fulvio Bressan, le persone sono sempre coerenti. Chi rispetta l’ambiente e la natura non bastona il cane né picchia i figli, tratta la moglie con i guanti bianchi e non abbandona gli amici, perciò non può fare altro che il vino migliore che può.

Bottaia azienda Cantarutti

I 54 ettari di vigneti su 75 di proprietà si estendono su suoli di ”ponca” (parola friulana che definisce un’alternanza di strati di marna e di arenaria) in collina e alluvionali sulla riva del Natisone. Le Alpi Giulie alle spalle e il mare Adriatico di fronte fanno di quest’area la miglior posizione geografica per la viticoltura, al riparo dalle fredde correnti del nord e con la costante, benefica ventilazione delle brezze marine. Vi si coltivano i vitigni autoctoni più rappresentativi della Regione, quindi friulano (faccio fatica a non poterlo più chiamare tocai friulano), ribolla gialla, pignolo, refosco dal peduncolo rosso, schioppettino e quelli più internazionali come sauvignon, chardonnay, pinot grigio, pinot bianco, pinot nero e merlot. Fabrizio ha fatto un vino eccezionale, il Carato da cabernet franc in purezza, di cui ho bevuto con gusto il 1999 e il 2004, ma ha verificato che è un peccato coltivarli sulla sua terra, dove la pianta vive, sì, ma non come pensava. Non lo farà più, o meglio non lo farà più con uve sue se varrà la pena di farlo ancora, e andrà a scegliere le uve più adatte dei posti più vocati. Ecco, un senso autocritico del genere è difficile da trovare in un uomo, direi rarissimo. Questo però vi dà le misure esatte della persona che ha una sensibilità, il cosiddetto pollice verde, superiore, esemplare. Quando ho visto la rosa su terrazzo e gli ho fatto notare che non le ho viste a capo dei filari, ho imparato un’altra lezione di correttezza estrema da parte sua.
Vasche d'acciaioLe rose ai filari delle viti. C’è chi crede che sono le donne a volerle per abbellire le vigne. Ma se le guardi bene, sono le rose più brutte che si possono vedere, a capo dei filari non vengono curate, ma lasciate a se stesse perché soffrono il campo e non sono trattate come i fiori da giardino, in quanto c’è chi afferma che devono servire al vignaiolo come spie dell’insorgenza delle malattie della vite, in quanto la rosa soffre delle stesse malattie, ma prima, quindi il vignaiolo avrebbe il tempo di intervenire con i trattamenti preventivi. Palle! In Friuli ci sono rose che prendono la malattia quando ormai le viti ce l’hanno già da due o tre settimane e quindi non servono a un bel niente. Della serie: tutta scena. E altre teorie da demitizzare sono quella delle barriques che cederebbero comunque al vino quel sentore di legno che a me proprio non piace. Non è soltanto una questione di varietà botanica del rovere, di località del bosco da cui proviene, di stagionatura (da 24 a 48 mesi, anche oltre) e del grado di tostatura leggera, media o forte, né dipende solo dalla grana del legno che si affina con l’età e la lentezza di crescita delle piante. In realtà ciò che conta è lo scambio di ossigeno con l’esterno, quindi interviene anche lo spessore delle doghe (ce n’è in commercio da 18, 22, 25, 27, 30 mm) e gioca un ruolo fondamentale anche il lavaggio con l’acqua prima dell’uso, ripetibile più volte se occorre, tanto che Fabrizio usa perfino le mezze barriques (che in teoria dovrebbero puzzare addirittura di legno) eppure i suoi vini non hanno nemmeno un’unghia di odori estranei a quelli dell’uva e dei ceppi. Il vino non è succo di falegnameria.
Dopo tanti anni, grazie a Fabrizio, ho imparato a non temere più le botticelle piccole e piccolissime, ma bisogna saperle pulire e usare per ottenere il giusto assorbimento di ossigeno e il minimo rilascio dei tannini coprenti dei legni. Nessun vino di Fabrizio puzza di legno, ma neanche lontanamente. Va detto che prima di scendere in cantina ha guardato a lungo le mie scarpe, per giudicarne la pulizia; è molto attento all’igiene in cantina e anche se costa (in manodopera e in detergenti adeguati) la pretende al massimo livello. I batteri e gli enzimi lavorano in un ambiente pulito e con le pareti dipinte di nero per individuare subito se qualcosa non va anche sui muri. Così i vini non acquistano quelle puzzette strane che una pulizia sommaria invece lascerebbe sviluppare e gli aromi puliti non sono soltanto merito dell’uva, della terra, del sole, dell’enologo, ma anche del direttore di cantina e della sua mentalità, anche pignoleria.

Fabrizio Ceccotti e Mario Crosta fra i vini rossi
Fabrizio Ceccotti e Mario Crosta fra i vini rossi

Non è mania, questa, ma saggezza da trasmettere agli altri (e soprattutto al figlio Rodolfo che continuerà l’azienda dopo di lui) perché possano sempre dare il meglio di quello che sono capaci di fare. Ricordo che suggeriva al figlio di mescolare meglio dei vini in un recipiente, anche se Rodolfo li aveva già mescolati, per omogeneizzare al massimo livello la dispersione delle molecole nel fluido. Sembra cosa da poco, vero? Eppure è da questi particolari che si nota l’amore per il vino e il rispetto per chi lo beve e che lo paga forse un po’ di più perché costa di più farlo bene. È l’etica del buon lavoro, non l’etica del facile guadagno. Dopo mio nonno Mario e mio zio Renzo, l’ho ritrovata pari pari in Fabrizio.
Poche parole, niente scene, niente teatrini. Bevendo tutte quelle bottiglie, inoltre, non abbiamo usato alcun decanter e l’ho visto una volta sola roteare il calice. Inutile dire che la concretezza e la saggezza del vignaiolo superano e demoliscono le cosiddette luci della ribalta che invece a tanti chiacchieroni fanno comodo per atteggiarsi a esperti di vino e pontificare a vanvera. Fabrizio è in grado di fare veri gioielli dell’arte enologica, ma non dorme sugli allori. Se la moglie Antonella è un terremoto, lui è uno tsunami. Lo provano anche il Carato 1999 e il Carato 2004, cioè due vini di cabernet franc in purezza, che alla fine delle degustazione Fabrizio ha cavato fuori come un coniglio bianco dal cilindro di un mago. Un vino di 20 anni e uno di 15, il primo già esaurito e il secondo lo sarà ben presto, che sembravano fatti uno sei anni fa e l’altro cinque anni fa, di una freschezza e di un nerbo verde da far tremare il calice. Sono perle di questo genere che lasciano di stucco anche il più critico degli enostrippati e nonostante questo… ecco che Fabrizio se n’è uscito con una considerazione scioccante: “espianterò tutti i ceppi di cabernet che ho e se qualcuno vorrà ancora questo vino magari lo farò ancora, ma comprandone le uve da altri vignaioli dove potrei trovarne di più adatte, perché sui miei suoli non vengono esattamente come le vorrei”. Una sincerità e un’onestà disarmanti, frutto dell’estrema sensibilità del coltivatore per la sua terra, anzi le sue terre, perché non sono tutte uguali e tutte adatte a tutto.

Friuli Colli Orientali Friulano (Tocai) 2016. Dalle splendide uve del più amato vitigno autoctono friulano vendemmiate agli inizi di settembre e vinificate in purezza con pressatura molto soffice, inoculo di lieviti selezionati per una fermentazione a temperatura controllata tra i 16 e i 18 °C di non oltre 15 giorni, un paio di travasi tali da permettere di raggiungere lentamente una limpidezza naturale in serbatoi d’acciaio alla temperatura di circa 12 °C. Sono 16.000 bottiglie di vino giallo paglierino chiaro con brillanti riflessi dorati dalla grande intensità degli aromi floreali che si aprono a sfumature agrumate dolci e che si chiudono con un finale di mandorla fine e dolce. Finalmente solo il 12,5% di alcool, lasciatemelo dire!

Friuli Colli Orientali Friulano delle Terre di Rosazzo “Scacco al Re” 2008. La mia personale soddisfazione per un ottimo vino dal grado alcolico finalmente tornato alla freschezza e alla leggerezza me lo ha fatto amare per 40 anni anche a garganella non poteva che fornire a Fabrizio un assist da goal di testa: ”ma chi l’ha detto che troppo alcool puzza?” e infatti questo vino è un’opera d’arte e non solo della bravura del cantiniere, ma proprio per il tipo di lavorazione che costituisce un trampolino per l’enologia moderna. Questo vino (come anche il Merlot e il Sauvignon della stessa linea) è nato dalla collaborazione con l’americana Rivoira spa del gruppo Praxair e con il dottor Giacomo Mela ed è frutto di un metodo di vinificazione in esclusiva che parte da un tunnel di raffreddamento mediante l’immissione controllata di azoto liquido, dove la temperatura viene regolata intorno allo zero, in modo che l’uva non venga congelata ma che possa essere diraspata senza problemi, conservando meglio tutte le doti aromatiche. Maturazione in barriques di rovere francese per 2 anni e il vino delle 3.000 bottiglie prodotte è diventato morbido, al miele, con aromi ammalianti di frutta matura (pesca bianca, ananas, erbe aromatiche, miele) con un tenore alcolico del 15%.

Friuli Colli Orientali Pinot Grigio “Ronco San Michele” 2007. È arrivato in tavola anche questo per dimostrare che anche in un altro vino bianco è la mano esperta del cantiniere a evitare che il tenore alcolico troppo alto possa togliere piacevolezza al vino. La vigna San Michele è in alta collina al confine con Rosazzo e queste uve sono state vinificate in purezza con pressatura molto soffice, inoculo di lieviti selezionati per una fermentazione a temperatura controllata tra i 18 e i 20 °C per circa 16 giorni, quindi si è trasferito per 2/3 il mosto in barriques di rovere francese, dov’è rimasto per 14 mesi. Durante questo periodo si sono fatti alcuni travasi per asportare le fecce nobili e i sedimenti della fermentazione malolattica, quindi si fa l’assemblaggio in vasche per raggiungere la limpidezza naturale. Il vino ha un colore giallo dorato carico molto fitto, con aromi di frutta matura (pesca gialla, cumquat o mandarino giapponese, vaniglia, canditi) e un tenore alcolico del 14,5% nelle 4.000 bottiglie prodotte.

Dialogo di Cantalfieri Blanc de Noir Brut 2014. Novità assoluta, è un brut dal 70% di pinot nero e 30% di pinot bianco, da grappoli raccolti manualmente in piccole cassette e che, arrivati in cantina, sono stati raffreddati in un’apposita cella frigorifera fino a una temperatura di 7-8 °C e dopo alcune ore sono stati quindi pressati sofficemente interi. Mosto fermentato a temperatura controllata di 18 °C e illimpidito staticamente. Tenore alcolico del 12,5% nelle 5.000 bottiglie prodotte. Lo ha descritto meglio Roberto qui.

Friuli Colli Orientali Pinot Nero 2012. Proviene in purezza da uve raccolte a mano in alta collina a metà ottobre ed è stato vinificato inoculando enzimi e lieviti altamente selezionati, utilizzando presse a polmone per la pigiatura molto soffice e vasi vinari tronco conici a controllo di temperatura per la fermentazione con macerazione sulle bucce a temperatura controllata sui 24  °C per un periodo di circa 8 giorni. Dopo la svinatura e la separazione dalle fecce è passato in piccole botti da 350 litri di rovere per 16 mesi, dove ha completato la malolattica, quindi l’assemblaggio. Poiché si tratta del vino bordolese più difficile da vinificare in Italia, viene prodotto solamente nelle migliori annate eccezionali annate. Il colore è rosso rubino intenso e brillante, il bouquet è ampio e ricorda i piccoli frutti di bosco delicati e maturi. In bocca è armonioso ed equilibrato, lungo, dai tannini focosi, con un finale morbido. Tenore alcolico del 12,5 % per una produzione di 5.000 bottiglie.

Friuli Colli Orientali Merlot delle Terre di Rosazzo “Scacco al Re” 2007. Ottenuto esclusivamente da uve di merlot di cloni acquistati solo in Franc ia (e pronunciamolo quindi merlό sennò si offende…) allevati a guyot in alta collina su suoli di marne calcaree. La vendemmia è avvenuta in piena maturazione a fine settembre 2007, ma la raccolta è stata difficile e faticosa per le variazioni climatiche alterne e quindi sono stati selezionati manualmente in cassette solo i grappoli più sani e maturi. Anche questo vino (come anche il Friulano e il Sauvignon della stessa linea) è il frutto della vinificazione partita da un tunnel di raffreddamento mediante l’immissione controllata di azoto liquido, dove la temperatura viene regolata intorno allo zero, in modo che l’uva non venga congelata ma che possa essere diraspata senza problemi, conservando meglio tutte le doti aromatiche e trasportata direttamente alla vasca di fermentazione mediante un condotto in atmosfera di azoto. Il mosto pigiato è stato lasciato macerare per 36-48 ore circa sotto i 10 °C, riportato a una temperatura di 20 °C e inoculato con lieviti selezionati per una fermentazione a temperatura tra 26 e 30 °C. Dopo svuotamenti e rimontaggi per 15-20 giorni è stato svinato e messo in tonneaux, barriques e mezze barriques di primo e secondo passaggio in rovere per 2 anni, quindi assemblato e versato il 3.600 bottiglie più alcune magnum con un tenore alcolico del 13,5%. Rosso violaceo e bouquet molto fine dalle note speziate e un bel fruttato di mora selvatica, tabacco dolce, cannella e confetto da sposa, in bocca è succoso e potente. Suggerisco di servirlo un po’ più fresco, anche tra a 14 e 16 °C, non oltre i 18 °C.

Friuli Colli Orientali Merlot “Ronco San Michele” 2007. Un altro bel cru di merlot (anzi merlό…) d’alta collina del vigneto San Michele, vendemmiato però più tardi, a metà ottobre e vinificato in modo tradizionale, inoculando enzimi e lieviti altamente selezionati, utilizzando presse a polmone per la pigiatura molto soffice e vasi vinari tronco conici termocondizionati per la fermentazione con macerazione sulle bucce a temperatura controllata sui 26 °C per un periodo di circa 14 giorni. Dopo la svinatura e la separazione dalle fecce è passato in mezze barriques di rovere francese nuove dov’è rimasto per 3 anni, completando la malolattica e decantando lentamente. Anch’esso di tenore alcolico del 13,5%, mi sembra però più longevo del precedente, con un temperamento focoso, mediterraneo. Di colore rosso rubino intenso, sprigiona aromi di piccoli frutti di bosco maturi che si fondono bene con fragranze di fieno e liquerizia. In bocca è ricco, il fruttato maturo diventa confettura e si sprigiona gradatamente nella sua complessità, con un finale morbido ed equilibrato. Andrebbe stappato qualche ora prima (proporrei 1 ora per ogni anno dalla vendemmia) e servito a 18 °C. Date le dimensioni del vigneto, forse 2.000 bottiglie (scusate se mi sono perso la nota).

Carato 1999Friuli Colli Orientali Rosso Carato 1999 e 2004 da uve cabernet franc in purezza coltivate in 0,28 ettari d’alta collina e vendemmiate intorno alla metà di ottobre. Vinificato in modo tradizionale, inoculando enzimi e lieviti altamente selezionati, utilizzando presse a polmone per la pigiatura molto soffice e vasi vinari tronco conici termocondizionati per la fermentazione con macerazione sulle bucce a temperatura controllata di circa 26 per 16 giorni. Dopo la svinatura, il vino del 1999 è stato versato in botti Garbellotto da 20 e da 50 hl e in 3 barriques francesi nuove, mentre quello del 2004 solo nelle botti grandi, per un minimo di 18 mesi. Assemblato in vasche prima dell’imbottigliamento, anche qui in poche centinaia di bottiglie, stupisce davvero per la grande freschezza dimostrata anche dopo 20 anni, quindi è un vino estremamente longevo che deriva da un’acidità meravigliosamente bilanciata. Il colore è rosso rubino brillante dai riflessi violetti. Gli aromi si sono liberati lentamente da un fondo erbaceo intrigante e solo con l’aumento dell’ossigenazione si sono esaltati quelli di more selvatiche e piccoli frutti di bosco, confermati anche al palato. È un vino pieno, morbido, vellutato ed equilibrato con un finale lungo e piacevole. Le bottiglie del 1999 sono esaurite.

Friuli Colli Orientali Rosso “Poema” 2004. Questo assemblaggio di vini 70% merlot, 20% cabernet sauvignon e 10% cabernet franc ha mandato in tilt Antonella, all’attacco. Non è facile descrivere il fascino dell’aroma d’apertura senza scendere troppo nei particolari, ma il richiamo dell’intimo femminile è così forte che per un vino l’ho confessato solo una volta nel 2003 ad Angelo Gaja (e lui sorrideva…). C’è voluto più di un minuto di assoluto silenzio per superare lo stato di trance. Le uve sono state vendemmiate a mano in diverse fasi dall’inizio alla fine di ottobre. Vinificato in modo tradizionale, inoculando enzimi e lieviti altamente selezionati, utilizzando presse a polmone per la pigiatura molto soffice e vasi vinari tronco conici termocondizionati per la fermentazione con macerazione sulle bucce a temperatura controllata tra 26 e 28 °C per un periodo massimo di 15 giorni. Dopo le svinature, i singoli vini sono stati versati in barriques e mezze barriques per la maggior parte nuove e anche di secondo passaggio) dove sono rimasti per circa 3 anni, durante i quali sono stati sempre travasati separatamente. Ha un colore rosso rubino intenso con riflessi violetti. Fragranze di buona pelle, liquerizia e piccoli frutti di bosco intensi, con un dosaggio esemplare dei legni che ne fanno un vino ricco, ampio molto lungo e di una sensualità incredibile.

Mario Crosta

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Mario Crosta

Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del settore gomma-plastica in Italia e in alcuni cantieri di costruzione d’impianti nel settore energetico in Polonia, dove ha promosso la cultura del vino attraverso alcune riviste specialistiche polacche come Rynki Alkoholowe e alcuni portali specializzati come collegiumvini.pl, vinisfera.pl, winnica.golesz.pl, podkarpackiewinnice.pl e altri. Ha collaborato ad alcune riviste web enogastronomiche come enotime.it, winereport.com, acquabuona.it, nonché per alcuni blog. Un fico d'India dal caratteraccio spinoso e dal cuore dolce, ma enostrippato come pochi.

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