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Editoriali

Crisi del vino? Forse no, ma la sua identità è sicuramente in pericolo


 

Bottiglie vuoteBene, anche quest’anno il Vinitaly è stato un successo. Anzi, ha superato le previsioni più rosee, nell’affluenza (144.000 visitatori), negli scambi commerciali (10% in più di contatti e contratti con buyer rispetto all’anno passato), nelle partecipazioni straniere (23%), nel numero di espositori (circa 4.200). Da parte mia, che sono stato presente nelle prime tre giornate, posso dire senza ombra di dubbio che giovedì 6 aprile, primo giorno di fiera, si è presentato nonostante il maltempo, intenso come non mai, soprattutto nelle aree più frequentate (Toscana, Piemonte, Veneto…). Molti operatori di settore, stand quasi ovunque con i tavoli impegnati, si respirava un’aria di ripresa, molti produttori hanno fatto buoni contratti e hanno trovato nuovi importatori per nuove frontiere: Cina, Russia, Corea, Vietnam, India, America Latina, Canada. In Europa si riprende la Germania, aumenta l’interesse nei Paesi scandinavi, in Gran Bretagna, mentre gli Stati Uniti si confermano terreno fertile per il vino italiano.

E l’Italia? Beh, qui le cose vanno un po’ in sordina, opinioni contrastanti, chi parla di leggera ripresa, chi di calo ulteriore. Si punta a una maggiore qualità e al contenimento dei prezzi dei nostri vini, al ritorno ai prodotti del territorio (non dimentichiamoci che al Vinitaly sono presenti e di forte richiamo, i prodotti alimentari tradizionali, l’olio di qualità), tutte cose positive che fanno ben sperare in un futuro più vicino al consumatore. Ma al Vinitaly si respira anche aria di affari, gran parte del mondo del vino di oggi è composta da rappresentanti del mondo dell’industria, della moda, dello spettacolo; al Vinitaly (e non per colpa del Vinitaly, sia ben chiaro) si assiste ad un sempre più radicale cambiamento dei protagonisti della produzione di vino, sono loro che dettano le regole del mercato, non certo le famiglie di vignaioli che da generazioni si impegnano e tramandano ai loro discendenti la loro esperienza, le loro tradizioni. Negarlo sarebbe inutile, è facilmente verificabile.

Nonostante in Italia non ci sia necessità di altri vigneti, ci sono uomini senza scrupoli che creano intere zone vitate laddove del vino non c’è mai stata né ombra né storia, sbancando terreni, trasformando pianure in colline, disboscando se necessario, perché gli affari sono affari. Poi mettono in mano ad enologi di grido la futura produzione che, non si sa come, avviene nel giro di uno o due anni, quando si sa perfettamente che una pianta, inserita in un contesto del tutto nuovo, per poter entrare a regime produttivo ha bisogno di almeno 3-4 anni. Ma c’è un mercato nuovo che ci aspetta, non c’è tempo da perdere! D’altronde come potremmo riuscire a soddisfare le richieste (potenziali) di 1 miliardo e 200 mila cinesi e di oltre 1 miliardo di indiani? Perché non si può rischiare di perdere un’occasione ghiotta come questa e lasciarsi battere magari dagli australiani o dai francesi. Quindi bisogna investire, ovviamente chi può permetterselo, in Italia finché c’è possibilità, poi in Paesi nuovi o dove ci sia sufficiente spazio per piantare centinaia, migliaia di ettari di vigna, magari in Cile o nella sconfinata Australia!

Riflettiamo un attimo: la produzione di vino in Italia è diminuita, perché nell’ultimo ventennio si è progressivamente passati da una filosofia che mirava a spremere fino all’osso le piante, affinché producessero grandi quantità d’uva, ad una riduzione sempre maggiore delle rese che consentisse un aumento della qualità. Questo fatto, di fronte ad una richiesta che aumentava in modo esponenziale, ha spinto avventatamente ad allargare molte zone vinicole storiche, i cui confini erano stabiliti da precisi disciplinari, annettendo nuovi vigneti le cui caratteristiche non sempre erano di livello adeguato e comparabile a quelli tradizionalmente presenti (analogamente accade con i cibi tradizionali, che nella maggior parte dei casi non sono in grado di soddisfare la grande richiesta, provate a domandarvi come sia possibile che il lardo di Colonnata, attualmente prodotto solo da 4 aziende certificate, sia spesso rintracciabile nei più disparati negozi alimentari del Paese).

Nell’ultimo decennio si è assistito alla nascita di nuove Doc in zone che non avevano una tradizione e una vocazione consolidata, tant’è che gli uvaggi, pur interessando regioni diverse, sono sempre più appannaggio di vitigni internazionali (merlot, cabernet, syrah, chardonnay, sauvignon ecc.); è facile intuirne la motiviazione: strizzare l’occhio alle richieste del mercato estero. Ma se in questo caso, si può discutere sulla scarsa lungimiranza di simili scelte, verificabile facilmente quando quel tipo di vini non interesserà più nessuno, assai più grave è andare a intaccare, per pure ragioni di mercato, zone di assoluto pregio (pensiamo al Chianti Classico, al Brunello di Montalcino, al Barolo e al Barbaresco), rischiando di abbassare inevitabilmente il livello qualitativo medio della produzione (fattore che favorisce l’intervento “curativo” e “migliorativo” mediante l’aggiunta di uve non consentite, l’uso di macchinari e di metodi enologici che riescono a compensare o a nascondere tali limiti).

E’ invece fondamentale rendersi conto della necessità di mantenere una propria identità, di assicurarsi sulla base di accurati e capillari controlli, che la qualità del vino italiano sia garantita al massimo, che il marchio “doc” abbia un senso reale e tangibile, che l’intera filiera vitivinicola abbia delle regole ferree e inattaccabili da chicchessia. Identità e tipicità che, in alcuni casi eclatanti, si è talmente smarrita da non consentire neanche alle commissioni di assaggio che ogni anno esaminano i vini e stabiliscono se hanno le caratteristiche per fregiarsi della fascetta doc o docg, di saperla individuare (vedi l’assurdo caso del Chianti Classico 2002 di Paolo De Marchi, della storica azienda Isole e Olena). Non sarà forse proprio per la perdita di fiducia nel rispetto delle regole che in questi ultimissimi anni sono nate nuove associazioni come “Vini veri” e “Vini naturali“, fra l’altro presenti con una loro manifestazione proprio a Verona, rispettivamente a Villa Mattarana e a Villa Favorita, negli stessi giorni del Vinitaly?

Allora ben venga il Vinitaly, gioiamo della risalita e del successo del vino Made in Italy, ma non dimentichiamoci mai che questo nettare che ha incantato persino gli Dei, non è un oggetto inanimato, riproducibile in serie, bensì rappresenta l’anima e la cultura di un popolo, come tale va rispettato ed esaltato nelle sue caratteristiche di unicità e tipicità, va compreso e non modellato a piacimento, va amato e condiviso, non fatto oggetto di culto e fenomeno elitario. Lasciamo che il vino sia fatto dal vignaiolo.

Roberto Giuliani

Figlio di un musicista e una scrittrice, è rimasto da sempre legato a questi due mestieri pur avendoli traditi per trent’anni come programmatore informatico. Ma la sua vera natura non si è mai spenta del tutto, tanto che sin da ragazzo si è appassionato alla fotografia e venticinque anni fa è rimasto folgorato dal mondo del vino, si è diplomato sommelier e con Maurizio Taglioni ha fondato Lavinium, una delle prime riviste enogastronomiche del web, alla quale si dedica tutt’ora anima e corpo in qualità di direttore editoriale. Collabora anche con altre riviste web e ha contribuito in più occasioni alla stesura di libri e allo svolgimento di eventi enoici. Dal 2011 fa parte del gruppo Garantito Igp.

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