Brad Mehldau: quando jazz diventa un termine molto riduttivo
Non lo nascondo, Mehldau è forse il pianista che in questo momento riesce a coinvolgermi maggiormente, tanto che in due anni l’ho già visto e ascoltato 4 volte, tre da solo e una in trio. A volte c’è chi, inevitabilmente, tende a paragonarlo o a contrapporlo ad altri musicisti, primo fra tutti forse Keith Jarrett. Debbo dire che sicuramente delle cose in comune le hanno, ne ho avuto ancora più incisiva dimostrazione in numerosi momenti dell’ultimo concerto visto, domenica scorsa alla Cavea del Parco della Musica di Roma.
In comune hanno, ad esempio, forti influenze classiche, la capacità di spaziare con destrezza tra diversi generi musicali, reinterpretandoli e strappandoli dalla loro natura originaria con grande maestria; una straordinaria indipendenza delle due mani e uno spiccato senso ritmico, la facoltà di farti entrare in un mondo emozionale complesso e variegato, la potenza e dinamicità della mano sinistra, certi fraseggi ed arpeggi ossessivi ecc.
Così non c’è da stupirsi se Brad si diletta con brani come Teardrop dei Massive Attack o come Paranoid Android dei Radiohead, o ancora 50 ways to leave your lover di Paul Simon; difficile poterlo considera un jazzista sebbene in questa materia sia eccellente, soprattutto in trio, come del resto è sempre stato Jarrett.
Una cosa è certa, non si può non rimanere coinvolti dal suo tocco e dall’incredibile pathos che in molte occasioni riesce a trasmetterti; però una critica mi sento di fargliela, troppe incisioni, davvero, che finiscono col fornire un panorama discografico con alti e bassi, non all’altezza delle sue reali qualità.