I profumi e le emozioni del vino nelle parole di Luigi Moio

Cabina, cuffie alle orecchie e l’indimenticabile Mike Bongiorno che mi pone l’ultima fatidica domanda del Vino Quiz al quale sto partecipando: “caro Stefano, per la bella cifra di un milione di euro, mi sai dire se nel vino che hai nel bicchiere davanti a te sono maggiormente percepibili gli odori degli esteri o degli alcoli superiori, e sai identificare almeno 3 tipologie di molecole odorose presenti?”
Tensione alle stelle, olfatto che all’improvviso sembra avermi abbandonato, un cagnolino che poco distante mi guarda e sembra volermi dire, quasi con una sorta di disprezzo, che è impossibile non sappia riconoscere sensazioni olfattive così evidenti.
Il mio piccolo dramma, che sembra materializzarsi da lì a poco, trova la sua liberazione dal suono della sveglia mattutina che mi avvisa che devo alzarmi per andare al lavoro.
Che sollievo quando ti rendi conto che quello che stavi vivendo era solo un sogno, che stava diventando però un piccolo incubo per il fatto che non eri in grado d’indovinare le domande finali mettendo così sotto i tacchi il tuo ego di discreto degustatore, o almeno presunto tale.
Questo inizio di racconto in stile fantasy, vuole essere un modo scherzoso per anticipare una materia e degli argomenti che sono invece seri, reali ed entusiasmanti: il mondo dei profumi e degli odori che si possono ritrovare nel vino e che sono da sempre croce e delizia per gli appassionati del nettare di Bacco.
E se parliamo di aromi del vino, uno degli studiosi più autorevoli e preparati, autore fra le altre cose del libro “Il Respiro del Vino”, questo è sicuramente Luigi Moio.
Ordinario di Enologia presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli studi di Napoli Federico II , Luigi Moio nello stesso ateneo è responsabile della sezione di Scienza della vigna e del vino. Autore di libri di divulgazione e di oltre 250 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali, si occupa da circa 30 anni degli aspetti sensoriali, biochimici e tecnologici dell’aroma del vino. Nel 1998 entra nel OIV, come esperto scientifico, nella delegazione italiana del Ministero per le Politiche agricole. Dal 2009 al 2015, presiede il gruppo di esperti di tecnologia, e dal 2015 al 2018 presiede la commissione di enologia. Dal 5 aprile 2019, è vicepresidente del Comitato scientifico e vicepresidente dell’OIV.
Il professor Moio è accademico dei Georgofili e dell’Accademia italiana della vite e del vino ma è anche un produttore: nel 2001, in Irpinia, insieme alla moglie Laura, fonda l’azienda Quintodecimo con cui produce le DOCG Taurasi, Fiano di Avellino e Greco di Tufo.
Nel 2016 viene pubblicato il suo libro, “Il respiro del vino”, 20 capitoli ricchi di nozioni tecniche e scientifiche, ma anche di tanti racconti e aneddoti, capaci di dare molte risposte a quelli che sono i quesiti e i dubbi che attanagliamo sia gli appassionati sia, qualche volta, gli addetti ai lavori.
La bella lettura che ho fatto del suo libro, ha alimentato il desiderio di andarlo a conoscere, per fare una bella chiacchierata e parlare di lui, del suo lavoro e affrontare a 360° tante delle tematiche che ruotano attorno al mondo del vino.
DIALOGANDO CON LUIGI MOIO
Stazione di Digione, ore 7.20 del 5 ottobre 1991. Il treno Roma-Parigi era arrivato in perfetto orario. La meta era il laboratorio degli aromi dell’Institut National de la Recherche Agronomique di Digione. L’obbiettivo, uno studio per la tesi di dottorato che prevedeva un approfondimento sull’aroma del latte delle principali razze mediterranee quali vacca, pecora, capra, bufala.
Non conoscevi il francese e molti dubbi e preoccupazioni ti assalivano.
Si può però dire che da qui è iniziato tutto, quella scintilla che poi ha fatto brillare la tua passione per il vino e lo studio degli aromi e ti ha permesso un futuro ricco di soddisfazioni?
La passione per il vino mi è stata trasmessa da mio padre, essendo io nato in una famiglia che da cinque generazioni lo produce.
Mio padre Michele è stato colui che ha rivalorizzato il Falerno, il celebre vino caro agli antichi romani. Io sono nato a Mondragone, bagnato da subito nel vino visto la tradizione atavica della mia famiglia di immergere ogni nuovo arrivato in una piccola bacinella con un po’ di vino, ed io, mio fratello e mia sorella abbiamo avuto tutti questo “battesimo” originale.
Sono nato in un contesto nel quale il vino la faceva da padrone, ma la mia grande passione e naturale inclinazione, era lo studio, un qualcosa che mi ha accompagnato per tutta la vita senza che rappresentasse una sorta di sacrificio, perché era un vero piacere immergermi nei libri alla ricerca della conoscenza, cosa vissuta agli inizi quasi come un gioco.
Le mie materie preferite erano la matematica, la fisica, e infatti questo era il percorso di studi che volevo intraprendere, ma papà, che non aveva una formazione enologica perché un tempo era un sapere che si tramandava sul campo di padre in figlio, voleva che almeno uno frequentasse gli studi di Enologia e quindi ho dovuto seguire io questa strada.
Essendo però altre le mie materie preferite, durante gli studi universitari c’è stato un periodo nel quale mi sono allontanato dal vino perché non trovavo degli argomenti di studio interessanti, tranne quelli che riguardavano i profumi e gli odori perché questi avevano la magia di far distinguere il vino da qualsiasi altra bevanda alcolica grazie alla maggiore complessità e varietà sensoriale, e questo mi affascinava molto.
Ecco allora che è iniziato in me a crescere il desiderio di capire chi fossero i responsabili di questi profumi, di come si formassero, che evoluzione avessero. Appena dopo il concorso di ricercatore, riuscii a conoscere il direttore del laboratorio degli aromi di Digione e gli inviai una lettera chiedendogli se potessi continuare il mio dottorato di ricerca lì e avere al tempo stesso una borsa post-dottorato.
L’arrivo in quel laboratorio è stato importante per la mia carriera di ricercatore, perché potevo fare tutti gli studi ed esperimenti che volevo in piena libertà, assieme ad altri studiosi altamente specializzati con cui confrontarmi.
Inizialmente i miei studi hanno riguardato il latte, e il laboratorio era diventato la mia casa dalla quale non uscivo quasi mai, ma dopo più di un mese di piacevole reclusione lavorativa, un mio amico matematico, Pascal, mi convinse a fare un giro nella Côte d’Or a visitare cantine della Borgogna e vedere com’erano strutturati i vigneti.
Da quella visita rimasi incantato: vigneti stupendi, una cura maniacale e una grande competenza su come riuscire a coltivare ottime uve con le quali produrre poi grandi vini. Era questo il modo di intendere il vino che piaceva anche a me.
In Italia la situazione era molto diversa, altra sensibilità e non esisteva un approfondimento sensoriale sui vini da parte degli esperti del settore, eccezione fatta per il grande Veronelli, ed è stato per questo che mi ero un po’ allontanato dalle tematiche vitivinicole italiane.
In Borgogna invece rimasi incantato dal modo di vivere il vino, cosa che era comune anche nelle altre importanti zone vitivinicole francesi.
La Francia è vero, ha acceso la scintilla, e iniziando a studiare il profumo del vino ho scoperto un mondo affascinante e ricco di sorprese.
Ne “Il Respiro del Vino” sono confluite tutte le argomentazioni sul profumo del vino da te trattate negli ultimi vent’anni di ricerche, incontri, seminari, lezioni, integrate da tanti spunti ritrovati nei tuoi diari personali.
Cosa ti ha spinto alla stesura di questo libro e pensi di aver trattato tutti gli argomenti che ruotano attorno al vino e i suoi meravigliosi profumi o ci sarebbe ancora spazio per altre analisi e disquisizioni e magari la stesura di un “Il Respiro del Vino parte seconda “?
Il problema è che molte volte la comunità scientifica è chiusa in se stessa.
Quando pubblichiamo dei lavori vengono letti da un circolo chiuso di lettori che sono alla fine i nostri colleghi ricercatori che operano in Italia e nel mondo. Se si è fortunati quindi, un lavoro scientifico viene letto da una cinquantina di persone visto che non sono in tanti quelli che si occupano di questi aspetti, ed è un vero peccato, ma con quel tipo di linguaggio, estremamente tecnico, diventa difficile la divulgazione ad una platea più ampia.
Ed è da questi presupposti che è nato così il desiderio di far conoscere all’esterno, a un pubblico più ampio, tutti i risultati delle ricerche che si sono accumulati nel corso degli ultimi trent’anni.
Il libro che ho scritto vuole essere esempio di un lavoro del divulgatore che è al tempo stesso è anche il ricercatore, che cerca di spiegare i suoi studi in modo molto elementare. Nello specifico, volevo spiegare parti importanti del mondo del vino, in un modo che fosse comprensibile a chi è un tecnico ma anche a chi è solo un appassionato di vino.
Il vino, specialmente negli ultimi decenni, è diventato un fenomeno dalla forte impronta estetica, che affascina. Chi ha in mano in bicchiere di vino non può far a meno di roteare il bicchiere e come primo atto portarlo istantaneamente al naso, e ciò dimostra che l’aspetto olfattivo, i profumi del vino, sono la parte più affascinante e più intrigante della degustazione.
Ma va spiegato anche da un punto di vista scientifico, ed è quello che ho voluto fare in questo libro, mantenendo la rigidità delle tesi scientifiche con un linguaggio il più possibile semplice, in modo da non deludere gli accademici e i ricercatori e al tempo stesso non annoiare l’appassionato che ricerca gioia, emozione, passione e qualche risposta ai suoi dubbi.
Un libro deve essere letto altrimenti perde la sua funzione basilare e non avrebbe senso.
Il successo di questo libro, che ha superato le 30000 copie di vendita, mi rende felice perché in tanti hanno deciso di leggerlo, e quindi ne è valsa la pena.
Il Respiro del Vino è uscito in Francia ed è in traduzione in cinese, spagnolo e il mio sogno è averlo presto tradotto anche in inglese. Il vino è oramai diventato un fenomeno planetario, anche per la sua funzione in abbinamento al cibo oltre che all’aspetto di convivialità, e quindi la sete di conoscenza è molto ampia.
Per quanto riguarda una eventuale parte seconda, non tutto è stato sviscerato in quanto ci sarebbero da completare in maniera più approfondita tutti gli aspetti legati alla degustazione, e infatti è in stesura un secondo libro che rappresenterà il completamento della prima parte dell’opera.
Degustare il vino è un’esperienza multisensoriale, frutto dell’integrazione di segnali sonori, visivi, olfattivi, gustativi e tattili. Protagonisti tutti i nostri sensi che, in maniera più o meno importante, sono coinvolti durante la degustazione.
Lo sviluppo e i cambiamenti di cui nei secoli il genere umano è stato protagonista hanno portato a veder rafforzati certi sensi, come ad esempio la vista, e di contro assistere alla parziale perdita di sensibilità per un senso, l’olfatto, che nel passato aveva un ruolo di vitale importanza, e che gli animali, infatti, utilizzano ancora al massimo delle loro potenzialità.
Da questa premessa, e dal fatto che un bravo degustare dovrebbe avere nella capacità olfattiva uno dei suoi massimi alleati, che consigli potresti dare a chi cerca di rieducare, migliorare e potenziare la sensibilità del proprio epitelio olfattivo, sognando capacità similari a quelle di un bravo cane da tartufi?
Fondamentale è l’addestramento. Non si nasce degustatori, ma è necessaria una grande passione, una grande determinazione e tanta umiltà, inoltre serve rendersi disponibili a svolgere tanto, oserei dire piacevole, lavoro che consiste nel porre attenzione a tutti gli odori che ci circondano, perché il problema dell’analisi olfattiva, per come funziona il nostro naso, è che noi siamo in grado sì di percepire migliaia di molecole, ma ciò contrasta con la povertà del nostro vocabolario olfattivo.
Un odore una volta percepito bisogna descriverlo e questo non è possibile farlo se in memoria non abbiamo registrato, in passato, quel determinato tipo di odore e purtroppo la nostra capacità di immagazzinare le sensazioni olfattive è molto bassa.
Infatti, è possibile memorizzare al massimo 200-300 odori e per costruirsi questa sorta di hard-disk olfattivo nella mente bisogna esercitarsi tanto.
Io consiglio di non affidarsi alle bottigliette con gli odori che col tempo si degradano, ma bisogna annusare tutto ciò che ci circonda, quello che incrociamo nel corso della nostra giornata. Ogni momento può essere buono per aumentare il proprio bagaglio di conoscenza, camminando in campagna, andando per i mercati, annusando con attenzione la frutta che mangiamo.
Non è un lavoro ma un impegno che richiede tanta e tanta passione.
Come nello sport, può capitare che nasca il Maradona di turno, che non si allenava quasi mai e riusciva comunque ad essere il campione assoluto sul campo che tutti abbiamo ammirato, però tutti gli altri, con l’allenamento possono cercare di avvicinarsi raggiungendo comunque un ottimo livello. La tecnica si migliora con l’addestramento ed è fondamentale mantenere i sensi allenati.
Io consiglio di farsi degli elenchi di odori, di annusare e trascrivere le proprie sensazioni in modo preciso, cosa molto importante per riuscire poi a comunicare anche ad altri le caratteristiche di quello che stiamo degustando.
Alla base di tutto, per ottenere dei risultati, è necessario avere una profonda umiltà e non avere la presunzione di considerarsi un super degustatore senza margini di miglioramento. Bisogna sempre mettersi in discussione e, soprattutto se gli anni avanzano, allenarsi di più perché la sensibilità sensoriale si attenua nel tempo.
Se parliamo di profumi e aromi, quali sono i vini che ti hanno maggiormente emozionato nel corso della tua lunga vita di studioso e degustatore?
Ci sono dei vini che, quando li ho assaggiati per la prima volta mi hanno aperto un mondo di sensazioni che pensavo non potevano esistere. Penso ad esempio ai Sauternes. Quando ho assaggiato lo Chateau d’Yquem, un capolavoro da uve botritizzate, ho scoperto una complessità olfattiva che prima non conoscevo, ed è stata un’esperienza bellissima.
Lo stesso lo posso dire per i bianchi alsaziani, i Riesling, i Gewurztraminer e sicuramente ci metto anche lo Chardonnay.
Poi l’altro vino che mi ha emozionato, forse in assoluto il primo di tutti, è sicuramente il Pinot Noir, il mio vitigno del cuore che ho avuto modo di apprezzare nei quattro anni in cui ho vissuto in Borgogna.
Sia per il Pinot Noir che per lo Chardonnay ho avuto modo di approfondire lo studio e la conoscenza dei loro profumi, sensazioni che poi non sono riuscito più a ritrovare nelle stesse tipologie prodotte nelle altre parti del mondo.
Nel tuo libro parli di chimica, molecole, cellule, scienza, e tutto questo potrebbe spaventare di primo acchito un lettore a digiuno di materie così complesse che si limita a degustarsi con piacere il suo calice di vino senza farsi però troppe domande.
Ma la cosa bella e che rende affascinante un prodotto magico come il vino è che se si parla di gusto, profumi, qualità, longevità e soprattutto emozioni, la strada porta verso un’unica direzione: una viticoltura sana e rispettosa dell’ambiente che garantisca qualità e salubrità delle uve che si riescono a portare in cantina. Cose semplici insomma.
Scienza e natura secondo il mio modo di pensare dovrebbero andare a braccetto, senza compromessi, con un unico obiettivo comune: fare dei vini buoni e salubri che non vadano a intaccare i delicati equilibri naturali, già troppo sotto pressione. Uve di qualità necessitano poi solo di essere coccolate in cantina e il ruolo dell’enologo, a mio avviso, dovrebbe limitarsi a questo.
Ma a tuo modo di vedere, qual è il reale stato delle cose, per quel che riguarda uso di chimica ed eccessivo interventismo sia in vigna sia in cantina?
Natura e scienza è chiaro che devono andare a braccetto.
Il più grande libro scientifico che esista è davanti ai nostri occhi, ed è il creato, la natura. Gli uomini di scienza osservano la natura e cercano di spiegare perché accadono delle cose, come hanno luogo i processi che stanno alla base di ciò che ci circonda e di ciò che accade.
La scienza è necessaria per far progredire le conoscenze dell’umanità. Ritornando al vino, oggi i problemi sono quelli del rispetto dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile, della sicurezza alimentare, argomenti che non devono rimanere nel campo della filosofia, ma ognuno deve impegnarsi quotidianamente per evitare che il pianeta Terra possa scoppiare.
Siamo a un punto di non ritorno e bisogna andare in quella direzione. Per fare questo è necessario però rinunciare a tutta una serie di cose che possono essere nocive e portare avanti progetti basandoli comunque su una logica di conoscenze scientifiche.
L’uomo è, secondo la mia opinione, in preda a un delirio di onnipotenza perché pensa di poter fare tutto, indistintamente, dappertutto.
Nel caso del vino è evidente che non è così. Negli ultimi anni parlo spesso della necessità di praticare un’enologia leggera, una viticoltura leggera e meno impattante. Questo è possibile realizzarlo solo in quelle situazioni in cui si verifica la perfetta sintonia fra la pianta, il suolo e il contesto pedoclimatico. Se la pianta si trova nel posto sbagliato, non favorevole al suo ciclo biologico, l’uomo deve per forza intervenire per correggere e compensare squilibri di adattamento. È come se io qui in Irpinia volessi piantare un albero di limoni a 400 metri di altitudine, con freddo ed escursioni termiche micidiali, la neve di inverno. Certo, se intervengo mettendo dei teli per coprire gli alberi, metto delle stufe per il freddo, accendo le lampade per sopperire la mancanza di sole, riuscirò sicuramente a portare a maturazione il limone che però non avrà mai l’odore, mai il sapore di quelli della Costiera Sorrentina.
Collegandomi a questo ragionamento, i grandi vini non è possibili farli in qualsiasi posto del mondo perché esistono solo rari siti in cui c’è una perfetta sintonia fra la pianta e il luogo in cui il vitigno vegeta bene e nel rispetto degli equilibri della natura, permettendo poi di produrre delle uve di altissima qualità in una perfetta armonia compositiva.
In questo caso l’enologo in cantina non è che deve fare un passo indietro, ne deve fare diversi, deve assistere ad un processo biochimico naturale che porterà le uve a diventare vino facendo molta attenzione che seguano il loro percorso corretto senza deviazioni pericolose.
Una delle domande che oggi un produttore si sente rivolgere con maggior frequenza, mentre versa il suo vino nel bicchiere per farlo degustare, è se ha impiegato lieviti selezionati o lieviti autoctoni. Su questo argomento si potrebbero aprire lunghi dibatti perché è una delle tematiche che mette a confronto due schieramenti agguerriti e fermi sulle proprie rispettive posizioni, molte volte inconciliabili, senza possibilità di un equo compromesso.
Tu hai trattato l’argomento in maniera approfondita in un capitolo del tuo libro. Ci puoi dire qual è la tua posizione sull’argomento e se in questi anni è cambiato qualcosa nel tuo approccio a questa tematica?
Purtroppo molte delle cose che si dicono in merito a questo aspetto non sono scientificamente corrette.
Intanto diciamo che i lieviti autoctoni, nel senso letterale del termine, non esistono. I lieviti si chiamano così perché sono leggerissimi e trasportati dall’aria. Se consideriamo due fermentazioni spontanee successive una all’altra, probabilmente non sarà mai lo stesso ceppo a fermentare.
Uno può decidere tranquillamente di far fermentare spontaneamente un mosto, ma il problema è che non si sa ciò che accadrà, quali ceppi di lieviti prenderanno il sopravvento e di conseguenza quale andamento prederà il processo fermentativo. Nella produzione dei vini rossi è più facile controllare una fermentazione spontanea le cose si complicano, invece, nella produzione di vini bianchi soprattutto da uve non aromatiche, ossia le cosiddette uve neutre che nel libro Il Respiro del Vino ho definito “orchestrali”.
Comunque il lievito selezionato non è affatto il demonio. Lo utilizziamo per la birra, il pane, la pizza. Il vero grande business sui lieviti selezionati riguarda proprio la panificazione. La birra senza i lieviti selezionati sarebbe molto complicato produrla.
Non capisco allora perché sul vino si dicono cose infondate e si demonizzino i “poveri” lieviti in modo stupido e sciocco che ovviamente poi sono del tutto naturali ma solo selezionati in funzione di quello che fanno di corretto per il vino e di sicuro dal punto di vista sanitario.
Dal mio punto di vista, ognuno può fare il vino che vuole, ma il risultato finale deve garantire buoni standard qualitativi, non devono esserci ossidazioni, difetti, altrimenti tutto il bel parlare di terroir viene spazzato via e diventano parole al vento.
Il giorno in cui vedrò degli scritti scientifici rigorosi ed affidabili che avvalorano alcune scelte, potremo anche cominciare un approfondimento a tal riguardo, ma fino ad oggi non ci sono le premesse. Le faccio un altro esempio su un argomento di cui si è parlato tanto negli ultimi anni. Se voglio produrre un vino a basso contenuto di solforosa so che un certo tipo di lievito selezionato non mi produrrà idrogeno solforato, non mi produrrà dei gruppi carbonilici che mi legano l’SO2, non mi produrrà deviazioni per cui è una strategia utile per abbassare il livello di solfiti nel vino.
Hai visto una barrique all’opera per la prima volta a Chorey-lès-Beaune, nella Cotè de Beaune, e precisamente nel Domain Tollot-Beaune, il 30 ottobre del 1992, dove Jacques Tollot produceva meravigliosi Pinot Noir e fosti colpito dall’interminabile fila di botti, che in Borgogna chiamano pièces, presenti in cantina. La tua curiosità era di capire quale influenza avrebbe avuto il profumo del legno sul vino, e i riscontri furono sorprendenti in termini qualità del prodotto finale.
In Italia si seguono molto le mode. C’è stato un tempo in cui dire barricato significava certificare di essere alla presenza di un grande vino, mentre passata questa moda, la barrique è diventata quasi un oggetto demoniaco che era meglio nemmeno pronunciare per evitare di essere condannati per blasfemia nei confronti del nettare Dionisiaco.
Molte volte la verità sta nel mezzo ed ha una risposta molto più semplice che ci rimanda sempre alla vigna e alla qualità delle uve.
Cosa ne pensi a riguardo dell’uso della barrique e qual è la situazione oggi in Italia?
Il vino è una cosa bellissima ed affascinante ma è anche una cosa molto seria, almeno per me, quindi non bisogna inseguire le mode. La barrique è uno strumento tecnico importante per produrre alcune tipologie di vini, soprattutto i grandi rossi da invecchiamento. Non tutti i vini possono completarsi in questo recipiente, quindi bisogna avere le idee molto chiare sul vino che si vuole fare. Se il modello è un vino rosso strutturato e da lungo invecchiamento la barrique è utile, anzi è fondamentale, in quanto è un formidabile catalizzatore di reazioni, accelera la stabilizzazione naturale del il vino e da un aiuto enorme al raggiungimento di un ottimale equilibrio gustativo. Bisogna avere delle conoscenze complete, dal punto di vista tecnico, per utilizzare questo strumento in modo corretto.
Da grande esteta della purezza e complessità aromatica che i vini possono donare, hai affrontato nel tuo libro la problematica di un certo tipo di vini che, andando alla ricerca della naturalità estrema, incorrono in problematiche varie: ossidazioni, poca pulizia olfattiva e disequilibrio gustativo. Tu sottolinei che se il tuo lavoro mira a esaltare concetti come terroir e crù, bisogna evitare sia i difetti sia qualsiasi odore che determini un mascheramento dei profumi propri del vino, dissimulando l’identità olfattiva varietale e territoriale.
Detto questo, non volendo mettere in discussione approcci più naturali che mirano a una maggiore artigianalità, coscienza ambientale e recupero di valori etici, che sono comunque lodevoli, ti chiedo: è comunque sempre possibile, aldilà della filosofia e della metodologia seguita, fare un vino che non crei dei fenomeni di alterazione nei profumi e sia fedele all’identità del vitigno?
Mi ripeto. Bisogna avere le idee chiare e altrimenti è molto difficile. Per riuscire a fare dei vini che limitino l’uso della solforosa bisogna avere una elevata conoscenza dei vari processi in vigna e in cantina. Non si può lasciarsi prendere dall’improvvisazione. Il vino è estremamente complesso ed è un’opera umana che richiede conoscenze appropriate. Riguardo ai difetti gustativi ed olfattivi le faccio un esempio con l’olio di oliva prodotto con due varietà diverse. Se lavoro nel rispetto delle differenti tipologie e c’è la possibilità di distinguere organoletticamente queste due cultivar allora è tutto perfetto, perché sono percettibili le varie sfumature aromatiche e gustative. Ma se sono entrambi rancidi come posso distinguerli? In qualsiasi alimento e bevanda, se ci sono delle alterazioni le differenze sensoriali proprie si attenuano fino ad annullarsi. Se un produttore vuole fare vino lasciando pure delle deviazioni sensoriali evidenti, per me è completamente libero di farlo, il problema è che non potrà mai dire che le caratteristiche sensoriali di quel vino sono legate a quelle della vigna e a quelle del luogo di produzione, semplicemente perché non è vero.
Nel tuo libro ci conduci in un viaggio affascinante dalla vigna alla cantina, passando per la bottiglia, fino ad arrivare, attraverso il bicchiere, a far godere sensorialmente tutti i nostri sensi.
Un lungo viaggio nel quale profumi, sensazioni tattili e gustative sono in continua evoluzione, dove il vino cambia continuamente quelle che sono le sue caratteristiche mostrando facce sempre diverse e in continua evoluzione. Un percorso emozionante.
Questo pero mi ha fatto riflettere su un argomento che, anche se adesso ha un po’ perso il suo appeal resta comunque parte importante del mondo del vino e del suo business: i giudizi delle guide.
Se il vino è in continua evoluzione, come possiamo dare un voto che ne testimoni agli occhi dei consumatori le sue peculiarità e il suo valore giudicandolo solo in una ristretta fase della sua evoluzione? Anche il più capace dei degustatori dovrebbe conoscere almeno come si è lavorato in vigna e prevedere quindi l’evoluzione nel tempo, la potenzialità in termini di precursori aromatici, per prevedere se siamo difronte a un vino che ci delizierà con profumi intensi ma fugaci o che invece ci darà grosse soddisfazioni nel futuro cambiando quindi completamente il suo giudizio iniziale.
Cosa ne pensi a tal riguardo?
Sono d’accordo con le tue analisi e la premessa fatta in questa domanda.
Nella degustazione, se non sono contemplate tutte queste cose, deve prevalere solo un giudizio tecnico di qualità e a maggior ragione i vini difettosi devono non essere valutati bene, altrimenti si comunica una informazione distorta. Bisognerebbe visitare le aziende e le vigne, fare il confronto fra le annate. In Italia questo diventa complicatissimo, ogni azienda fa tanti vini, e tutto si riduce a una sorta di comunicazione commerciale per cui è difficile trovare un accordo di opinioni fra le varie guide. Un tempo esse hanno influenzato il mercato ma oggi il consumatore si muove in modo autonomo ed è in contatto sempre più spesso direttamente con le aziende che, a loro volta, con i velocissimi sistemi di comunicazione di oggi possono raggiungere direttamente gli appassionati.
A proposito di evoluzione del vino e dell’obiettivo di consumarlo all’apice della sua maturazione sensoriale, prima che inizi l’invecchiamento fisiologico, ossia il naturale processo di decadimento, approfitto del tuo sapere per farti una domanda che mi angustia da molto tempo: se ho in cantina dei vini da lungo invecchiamento, come faccio a sapere quale sarà il momento migliore, o termine ultimo fattibile (dato per scontato le migliori condizioni di conservazione) per godere appieno della sua massima espressione e complessità degustativa?
Non si rischia alle volte di aspettare troppo e restare poi profondamente delusi perché il vino ha iniziato la sua veloce fase discendente causa raggiunti limiti di età?
È possibile fare questo solo acquistando più bottiglie di uno stesso vino. Non esiste altro sistema. I grandi appassionati non acquistano solo una bottiglia, ma almeno una cassa da sei bottiglie. Per un vino da lungo invecchiamento è necessario stappare una bottiglia ogni anno o due, e così si riesce a seguire l’evoluzione e capire come il vino si comporta all’avanzare dell’età. Se è ancora giovane, posso decidere se e quando bere le altre bottiglie. Questo è quello che ho visto spesso fare in Francia dai miei amici, tanti anni fa, su come gestire al meglio una cantina personale. Se acquisto una bottiglia soltanto, mi devo far consigliare dall’enotecario, dal sommelier o, secondo me, soluzione migliore se siamo in presenza di vini di grande qualità, chiamare direttamente il produttore, che dovrebbe conservare nella sua cantina le bottiglie delle diverse annate e quindi in grado di dare dei consigli al suo cliente visto che molto probabilmente è lui stesso che periodicamente controlla con la degustazione l’evoluzione delle sue bottiglie. Chiaramente siamo quasi nel mondo dei sogni perché pochi possono permettersi una simile gestione, ma questo è un altro aspetto della bellezza del vino, e fortunato chi riesce a farlo.
Il 2001 è una data importante per te e tutta la tua famiglia. Dopo tanti studi, tanto viaggiare, tante collaborazioni, tante lezioni universitarie, decidi di realizzare un qualcosa che fosse tutto tuo e dove tutte le tue idee potessero confluire e materializzarsi.
Nasce in Irpinia, a Mirabella Eclano, l’azienda Quintodecimo.
Che cosa ha rappresentato per te questo progetto ed è un qualcosa che avevi da sempre nei tuoi sogni o è stata la naturale sintesi di un percorso che non poteva che portarti in questa direzione?
I quattro anni trascorsi in Francia per completare il mio dottorato di ricerca subito dopo la laura in Scienze Agrarie hanno molto influenzato la realizzazione di questo progetto, mi hanno dato la spinta e la convinzione che si poteva progettare qualcosa di bello. Al ritorno in Italia oltre ai miei impegni universitari nel creare un laboratorio ed un gruppo di ricerca rivolto allo studio dell’aroma del vino ho voluto fortemente realizzare questo sogno per poter applicare una solida base teorica, che avevo accumulato negli anni di studio e insegnamento, senza scendere a compromessi con nessuno. Un progetto di assoluta libertà. Ho iniziato a tredici anni a studiare il vino, e tutti i miei studi non potevano che concretizzarsi producendo anche il mio vino, quello in cui credevo e mi piaceva fare e poi bere. Quintodecimo è questo, un’azienda che mi rende orgoglioso anche per la sua bellezza, aspetto che amo e condivido con mia moglie ed i miei figli.
Il 2020 e metà del 2021 sono stati a livello mondiale anni da dimenticare per colpa della pandemia da SARS-CoV-2, che ha messo e sta mettendo anche in questo momento a dura prova persone e sistema economico.
Se parliamo di salute, chi ha pagato il prezzo più alto sono stati gli anziani che, nel caso più estremo, hanno visto le loro vite spegnersi, complici le fragilità tipiche dell’età avanzata.
Un’intera generazione, portatrice di memoria storica e affetti famigliari, che oltre ad essere stata decimata, è stata privata molte volte, per la propria sicurezza, anche della possibilità di trovare il conforto dei propri cari.
Il 2020 è stato per te anche un anno in cui hai vissuto la perdita, avvenuta in gennaio, del padre Michele a cui sicuramente devi l’amore per il mondo del vino e, immagino, molti dei valori che ti sono stati trasmessi e sono diventati tuo patrimonio personale.
Qual è l’insegnamento più grande di tuo padre, che porterai sempre con te, che ha rappresentato un porto sicuro in cui trovare ristoro e sicurezza e che insegnamenti vorresti trasmettere, o hai già trasmesso invece ai tuoi figli Alessandro, Chiara, Michele e Rosa, la nuova generazione della famiglia Moio?
L’insegnamento più importante di papà è la trasmissione di un alto senso del dovere e il rispetto che bisogna avere per gli altri, questo è alla base di tutto. Mi ha insegnato ad avere sempre tanta passione ed entusiasmo nel fare le cose. Questa è stata la mia forza che mi ha fatto realizzare i miei sogni senza mediazioni e senza compromessi. Mio padre non trasmetteva gli insegnamenti a parole, ma con il suo comportamento. Oggi, a mia volta, cerco di trasmettere tutta la bellezza del vino ai miei figli con l’unico modo possibile: l’esempio e l’amore per le cose fatte bene.
“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”. L’origine di questa citazione è incerta, alcuni la attribuiscono alla nota scrittrice Virginia Woolf, altri la ritengono ben più antica, risalente all’epoca dei latini, poiché un loro proverbio diceva: “Dotata animi mulier virum regit”, cioè “Una donna provvista di coraggio (di spirito) sostiene e consiglia il marito”.
Al di là della provenienza di questa citazione, quanto c’è di tua moglie Laura in tutto quello che sei riuscito a fare e creare nella tua vita, e Quintodecimo è il punto finale dei vostri progetti professionali o c’è ancora qualche capitolo emozionante da scrivere nel prossimo futuro?
Quintodecimo senza Laura non sarebbe mai nata. Mia moglie è stata sempre molto paziente con me, io che sono molto meticoloso, sempre occupato nelle mie cose, intransigente, perfezionista a livelli maniacali. Laura, laureata in biologia, con un dottorato in enologia, si è appassionata tantissimo al vino. Anche lei ha vissuto in Francia, ed è stata straordinaria nel capire immediatamente ciò che avevo in testa, e nel sostenere i miei sogni e i miei studi sul vino che poi abbiamo applicato assieme nella realizzazione dell’azienda. In un rapporto ci vuole pazienza e complicità e lei è stata straordinaria. Con lei sto bene e mi dà quella tranquillità che asseconda il mio essere visionario, il mio essere creativo, ed è uno sprone che mi spinge e andare sempre più avanti, per migliorare e perfezionare questa azienda che abbiamo creato assieme con tanto amore e tanta passione. E poi un altro aspetto fondamentale è che lei si occupa di tutto ciò che è amministrazione, cosa in cui io sono completamente negato e che nemmeno mi interessa. Lei è stata brava invece ad acquisire tutte le conoscenze, nonostante i suoi studi fossero stati diversi, di una materia fondamentale per poter gestire in modo corretto l’azienda. Ci completiamo a vicenda e questo è davvero molto bello.
Stefano Cergolj