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I racconti di Alda: La stanza delle torture

paura dentista

La sala d’aspetto è piccola ma accogliente, ci sono diverse sedie abbastanza comode, un cesto porta-riviste, un televisore sistemato in un angolo della parete, in alto, quasi sospeso come un pappagallo senza trespolo. Il paragone con un pappagallo mi sembra appropriato. L’animale ripete quello che vede e che sente a modo suo, storpiando fraintendendo emulando. Appunto.
Basta, fermiamoci qui, probabilmente è soltanto una sciocchezza, un nonsenso, come quando si gira intorno alle cose senza arrivare a niente, ma in un posto come questo è difficile che la mente possa formulare pensieri e idee intelligenti. Il cervello va in confusione, dominato da ansie e paure comprensibili. Così credo. Non sono paurosa e lamentosa di natura, ho superato prove pesantissime durante il lungo percorso della mia vita, ma qui, qui scatta qualcosa difficile da controllare al di là delle apparenze. Sono calma molto calma. Apparenza immagine inganno.
In attesa, insieme con me c’è una coppia. Padre e figlia, o forse marito e moglie, non so, potrebbe essere, non ho mai saputo dare un’età precisa alle persone che incontro per caso, neanche a me stessa perché esteriorità e interiorità si sovrappongono e diventa quasi impossibile. Magari dentro ci si sente giovani e poi…
Lo specchio, ecco quello è il nemico, no, peggio le foto quasi sempre impietose… Sto divagando.
Mettiamola così, un uomo di una certa età e una donna più giovane, quello che sono l’uno per l’altra è marginale e non mi riguarda, se non per distrarmi da quello che mi aspetta tra poco. L’uomo guarda la tv, la donna sfoglia una rivista. Distolgo lo sguardo da entrambi e osservo la segretaria che, al di là di un arco e dietro una specie di bancone da bar, è concentrata sul computer.
Alla mia destra c’è la porta d’ingresso mentre di fronte a me c’è un’altra porta, poi un’altra che da qui non si vede, entrambe chiuse, con un piccolo spazio tra l’una e l’altra. Al di là della seconda porta si trova la stanza delle torture. In quale altro modo chiamarla? Trapani, bisturi, forbici, ferri e la poltrona-letto che si allunga e ti trattiene, si alza, si abbassa in modo inquietante. Tutto è inquietante là dentro, soprattutto l’uomo che, in camice bianco, guanti e mascherina ti accoglie con un sorriso sadico.
In questo momento, aggrappato ai braccioli della poltrona-letto, con la bocca spalancata e lo sguardo atterrito, c’è già un paziente. È arrivato prima di me e della coppia.
“Cos’è stato?” urla all’improvviso l’uomo alzandosi di scatto, la via di fuga così vicina.
“Non ho sentito niente” dice la donna senza sollevare lo sguardo dalla rivista che ha in mano.
La segretaria sembra non essersi accorta di niente, ormai abituata a cose del genere.
“Sembrava un lamento” dico io al limite delle mie capacità di controllo.
Non volevo entrare qui, ricordo di essere rimasta almeno dieci minuti con un dito sul campanello, senza premere il pulsante. Scappo non scappo, suono non suono, entro non entro, il cuore in gola, le gambe rigide, incollate al marciapiede. Dove scappare? Tutto questo è troppo infantile. Ormai sei qui, anche se scappi prima o poi dovrai tornare. Forza, suona. Il mio dito, meccanicamente o forse spinto da una ragione più forte della mia paura, ha infine premuto il pulsante. Ed eccomi qui, in questa sala d’attesa con due sconosciuti forse ancora più spaventati di me, quanto meno l’uomo.
Un lamento. L’ho percepito anch’io e a pensarci bene se quel suono ha superato uno spazio tra due porte chiuse, più che un lamento sarà stato un grido.
Osservo l’uomo che si è alzato. Cammina avanti e indietro nella saletta, si avvicina alla porta d’ingresso, poi torna sui suoi passi richiamato dalla compagna. Figlia moglie amante? Mi sembra difficile che un’amante possa accompagnare l’amato in un posto come questo, decisamente spoetizzante. Una moglie sì. In un matrimonio si crea un’intimità, una confidenza che va ben oltre una seduta da un medico che incute terrore. Di occasioni difficili la vita ne presenta tante e se ci si ama, in due si affrontano meglio. Con un’amante no, è diverso, soprattutto se si tratta di una coppia clandestina, al di fuori delle regole. Come spiegarlo ai medici, alle segretarie, a chi ti scopre per caso? E la dignità gli scrupoli le tue ferite e quelle che infliggi a chi ha più diritto di te? Niente, l’amante sta a casa e aspetta o magari se ne va con le amiche, al cinema, a giocare a burraco, ad una mostra, in giro e che lui se la cavi da solo o con la compagna della sua vita. Quella “per sempre”. Si sa, per le cose sgradevoli ci sono le mogli. L’amante no. Per lei ostriche e Champagne, fragole e vino bianco, rose e musica. Non sempre però.
Continuo a divagare cercando di distrarmi dal mio problema, dal mio passato, dalla mia vita, dal presente ed ecco che un uomo di età indefinibile, pallido e stralunato esce dalla porta e si avvia al bancone della segretaria. Lei si stacca dal computer, lo guarda sorridendo comprensiva e pronta con la ricevuta fiscale da riempire.
L’uomo nella sala d’aspetto si è seduto di nuovo. Ora stringe la mano della donna.
“Tocca a me” sussurra in una specie di singhiozzo simile al verso di un tacchino pronto per il sacrificio natalizio.
Appare il dottore. “Può accomodarsi signora” dice rivolgendosi a me.
Mi alzo. Lancio un’occhiata malevola alla coppia. “È a me che tocca” dico tra i denti e mi dirigo verso la stanza delle torture. Non ho scampo. Alzo la testa e raddrizzo le spalle, ma questo, forse, fa soltanto parte della mia immaginazione perché in realtà mi sento gobba e tremante con la dignità sotto le scarpe. I denti, penso. Ti fanno tribolare quando escono, quando da ragazzina ti costringono a portare l’apparecchio per raddrizzarli e poi nel corso della vita continuano a crearti problemi. A chi più e a chi meno, ma comunque e sempre.
Ed eccomi qua, già arresa, con la bocca spalancata, una luce abbagliante negli occhi, le mani strette attorno ai braccioli della poltrona che si abbassa si alza si abbassa… e lui, il torturatore, sempre più vicino. La sua voce “apra, chiuda, ferma, labbra morbide”, la mano che impugna la siringa. Bersaglio centrato. Aiuto. Chi sono io chi sono? Mi sembra di aver perso la mia identità. Controllata certo, dalla mia bocca non uscirà un lamento. Paziente ideale. In tutta la mia vita, niente mi ha fatto più paura di questo, del resto così si dice: “Senza la paura non c’è nemmeno il coraggio”.

Alda Gasparini

Musicista e scrittrice, da sempre amante di tutto ciò che è bello e trasmette emozioni, si è diplomata in pianoforte e per un certo periodo della sua vita ha eseguito concerti. Poi si è dedicata al giornalismo, scrivendo recensioni e critiche musicali; successivamente ha iniziato a scrivere romanzi e racconti, pubblicati su numerose riviste di settore, ha collaborato con autori importanti come Scerbanenco e Morante. Ancora oggi scrive racconti, brevi e avvincenti, toccando molti aspetti della natura umana.

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