I racconti di Alda: Tra merletti e musica
Lo devo fare, dico ad alta voce, non posso rimandare ancora. Non mi piace mettere ordine nei cassetti, mi stanca e mi snerva, specialmente quando cerco qualcosa che poi non trovo. Mi capita spesso. Comincio dal primo del comò e subito mi viene voglia di richiuderlo e uscire dalla stanza. Resisto. Tiro fuori tutto. Confusione. Scatolette di anelli, collane, guanti, braccialetti, qualche stagnola vuota che emana ancora un piacevole odore di cioccolata. Chissà perché ne ho conservato la carta, quale storia nasconde, quale segreto. Non mi viene in mente niente, in ogni modo qualunque siano storia e segreto, io la cioccolata l’ho mangiata. Vorrei averne un quadratino ora, in questo preciso momento, ma non ne ho. Riprendo a rovistare. Ecco una foto sfuggita da una busta, chissà come sarà finita in tutto questo caos. Torino: La cugina Olga ed io, la stazione, un abbraccio e un sorriso un po’storto, tutto come imprigionato in una nebbia. “Brutta immagine di belle cose /al buon fotografo tremò la mano”. Così direbbe Guido Gozzano poetando. Un momento, c’è anche una lettera e la grafia è la mia.
Torino, maggio 1991. Eccomi. Ti scrivo dal treno diretta a Torino dalla cugina Olga. Non volermene se non ti ho parlato di questo mio progetto e sono partita senza nemmeno salutarti, avresti cercato di trattenermi ed io, probabilmente, avrei ceduto. Ho bisogno di staccare, di riflettere sulla mia vita e le mie scelte e mi è sembrato che andare a Torino da Olga fosse una buona idea, un modo giusto per cercare di mettere ordine nei miei pensieri. Tu sai da quanto tempo lei mi chiede di andare a trovarla e io ho sempre rimandato. Fa molto freddo e non sembra sia già arrivata la primavera. Abbiamo appena superato Novara, il paesaggio è piuttosto monotono, non si vedono altro che risaie. Acqua distribuita geometricamente, sullo sfondo i monti bianchi di neve e un cielo grigio, autunnale. Fortunatamente il viaggio è breve. Ecco, vedo già la stazione.
La stazione di Torino è graziosa, pulitissima e molto bene organizzata. Persone gentili e indicazioni precise. So che dietro questa facciata si nascondono gli stessi drammi e le stesse miserie che si consumano in quasi tutte le stazioni del mondo, ma almeno l’impatto non è traumatico. Olga abita piuttosto lontano dal centro. La periferia è simile a tante altre periferie di città diverse, soltanto là dove scorre la Dora con i suoi ponti e i suoi riflessi autunnali lo spettacolo cambia interrompendo la monotonia di strade e case tutte uguali. Qui è ancora autunno, questo inizio di maggio sembra il proseguimento di un aprile freddo e piovoso.
La casa di Olga è piccola: un ingressetto, tre locali, un cucinino e un minuscolo bagno. La musica mi raggiunge ancora prima di uscire dall’ascensore, musica lirica. La voce di Carreras è una carezza che suggerisce subito un’atmosfera speciale che cattura il cuore. Mi chiudo la porta alle spalle con Olga che mi tiene per mano. Non ci sono spazi vuoti. Quadri e piatti di ogni genere alle pareti, libri, tappeti dappertutto, alcuni così sottili da farmi temere che prima o poi inciamperò. La superficie di ogni mobile è un contenitore senza fondo. “Le buone cose di pessimo gusto” scriveva Guido Gozzano. Tante poltrone, un’imponente stufa a gas che riscalda l’intera casa e poi ricami ovunque: sulle tende, sugli asciugamani, sulle lenzuola, preziosi centrini sotto i vasi e sotto le alzate di ceramica. Pensavo non esistessero più, che si potessero trovare ormai soltanto nei bauli della nonna, nei corredi da sposa di allora. Negli armadi e nei cassetti odore di lavanda che si sprigiona da piccoli sacchetti infiocchettati. Un tempo ormai scomparso, sostituito ora da un mondo di plastica, di tessuti che si lavano e non si stirano, tovaglioli e fazzoletti di carta. Un mondo di “usa e getta”, di non ho tempo, non ho voglia.
È così mio caro e tu lo sai, anch’io non sfuggo alla legge del “corri, fai in fretta, devi arrivare a tutto, la spesa, la cucina, gli impegni e la disperata ricerca di uno spazio tutto mio per poter leggere un libro, scrivere una lettera ascoltando musica, svolgere il mio lavoro. Tutte quelle belle favole per bambini che illustro e che a volte io stessa invento. Piacevano anche a te. Adesso hai perso interesse a quello che faccio, sei distratto, sei lontano, quasi un estraneo e forse è soprattutto per questo che sono partita. Per lasciarti libero di ritrovarti e ritrovarmi nella nostra vita insieme, o per lasciarmi e andartene. Con la porta chiusa, in questa casa così intima e quasi fuori dal tempo e dal mondo, mi sento così anch’io e sono contenta di trovarmi qui, in qualche modo al sicuro. Olga mi racconta di come i suoi bisnonni, trapiantati a Torino quando ancora si girava in carrozza e in via Roma nessuno osava buttare nemmeno un minuscolo frammento di carta, abbiano sofferto nell’assistere impotenti alla trasformazione che già allora avveniva nei costumi della città e della società in genere. Anno dopo anno. Non è difficile capire come e perché nella maggior parte delle persone anziane vi siano rimpianto e nostalgia per un mondo scomparso e sostituito da un altro nel quale non si riconoscono e si smarriscono. Ma perché modernità e progresso devono necessariamente accompagnarsi a maleducazione, degrado, mancanza di rispetto per sé e per gli altri? Distruggere, bruciare tutto e via, ma perché? Siringhe, sporcizia, prepotenza, arroganza, esibizionismo in negativo, è questa l’alternativa? Non credo di pensare come un anziano, ma tutto quello che è disarmonico stride come una bella musica maltrattata da una pessima esecuzione. Possibile che siamo tutti malati di nostalgia? Mi ribello: Sono ancora troppo giovane per camminare guardando indietro. Non lo faccio io e non lo fai nemmeno tu. Se penso al passato mi rendo conto che ridere e divertirsi anche per piccole cose, era associato soprattutto alla giovinezza. Adesso si ride in un modo diverso e si piange meno perché ci si controlla di più e il tempo è sempre più veloce e avaro. Penso troppo, mi rimproveri tu e io non mi sento capita. Donna profonda, uomo superficiale, dico io ironizzando. Spero tanto che questa lontananza, sia pure breve, faccia bene a entrambi.
Mio caro, questo è il mio secondo giorno a Torino e già sento la tua mancanza. Piove con violenza e il freddo ha raggiunto livelli invernali. Nevica sui monti e così addio alla nostra progettata passeggiata lungo il Po fino al Valentino. Rimarremo in casa mattina e pomeriggio, tra merletti e musica. Olga mi vizia, si affanna intorno ai fornelli, compra dolcetti speciali, altri ne fa lei stessa, apparecchia la tavola con cura, previene ogni mio desiderio e mi guarda come se fossi un dono di Dio, solo perché ho momentaneamente interrotto la sua solitudine. Ecco, ora è il turno degli album di famiglia dove a tratti mi ritrovo anch’io, specialmente nelle foto del suo matrimonio. E ci sei anche tu.
È proprio allora che ci siamo conosciuti, Olga è tua cugina. Tenerezza e malinconia. No, così non va bene. Olga ha attaccato con la filodiffusione che tra poco alternerà con la registrazione del prestigioso concerto di Caracalla con i tre tenori: Domingo, Carreras, Pavarotti. Ed ecco proprio lui, Carreras, con la romanza dall’Andrea Chénier “Oh giovinetta bella, d’un poeta non disprezzate il detto”. Ogni stanza risuona della sua voce e di quelle parole alle quali lui ha saputo dare un’intensità irripetibile.
Un tè, i pasticcini, Carreras e lo sguardo all’orologio. Domani andrò via. Oh giovinetta bella, oh Carreras, oh cugina Olga con i tuoi asciugamani ricamati a mano, le tue tendine, i tuoi pizzi, i centrini, le tue caramelle alla menta, gli album di famiglia, i quadri. Tutto questo lo porterò con me, nel mio cuore. Domani sera sarò di nuovo a Roma senza sapere che cosa troverò. Sarai lì ad aspettarmi? Ancora una notte qui, poi saprò.
2021. Ripongo nella busta la foto e la lettera mai spedita e mai letta da chi avrebbe dovuto riceverla, rimetto tutto nel cassetto e pazienza se sarà più disordinato di prima. Sono trascorsi trent’anni. Olga non c’è più, non c’è più neanche la sua casa e non ci sono più nemmeno i suoi merletti i suoi libri e tutta la sua musica. Spero che non siano andati persi o buttati, ma che siano finiti nelle mani di qualcuno che ne abbia cura.
La sera del mio ritorno lui era lì ad aspettarmi, impaziente come me, come me ormai convinto, nonostante il brevissimo distacco, di non poter vivere senza la sicurezza della mia presenza. Aveva avuto paura. Ero andata via. E se non fossi tornata? Se se se…
Ora non c’è più nemmeno lui. Io ci sono ancora. Non conto più gli anni che ho, ma poiché sono viva, lo prendo come un miracolo o come un dono di Dio, che è poi la stessa cosa. Sono viva sì. Il mondo è mutato in tutti i sensi. Ora abbiamo il covid, questo mostro che ci fa ancora paura e che ci ha cambiati profondamente. Noi e la nostra vita. Non ci si abbraccia più, non ci si bacia, non ci si può nemmeno stringere la mano e una video chiamata, un incontro distanziato non ci fanno sentire meglio. Non a me. Non amo i surrogati e nemmeno il mondo virtuale. Ci dicono che il covid sarà sconfitto perché ora c’è il vaccino. La nostra speranza. Il ritorno alla normalità. Quale normalità. Non è molto rassicurante. Una stessa parola può avere significati diversi, è vero. Ma non bacio, carezza, abbraccio. Io, di questi, ne conosco uno solo.
Alda Gasparini