I racconti di Alda: Un’infanzia tutta rosa
Se penso alla mia infanzia la vedo tutta in rosa. Quando mia madre era incinta desiderava con tutte le forze una bambina, per lei avrebbe anche accettato di rimanere a letto per tutto il tempo della gravidanza, inoltre era certa che un desiderio così intenso non potesse essere deluso. Non aveva voluto conferme sul sesso neanche dalle ecografie. Lei non aveva dubbi. E poi… Poi ero nato io. Maschio.
Mia madre era molto bella, sottile, elegante, con capelli ramati e grandi occhi verdi, dolcissimi. Quando sorrideva sembrava che in lei sorridesse tutto, bocca, occhi, naso, fronte, ogni muscolo del suo viso. Pareva le sorridessero perfino i capelli. Io ne ero incantato e accettavo come fosse un gioco qualsiasi cosa mi arrivasse da lei o che lei si aspettasse da me.
La mia infanzia tutta rosa. La mia culla, il mio primo lettino, le lenzuola, le coperte, le tutine. Il rosa era un colore che mi aveva accompagnato fino all’adolescenza. E poi c’erano le bambole che mi regalava a ogni compleanno e che io mi divertivo a spogliare e a rivestire. Nuotavo nella dolcezza, ma non mi ritrovavo addosso appiccicosi filamenti di miele. Non annegavo. Questa era mia madre, questo ero io. Mi chiamo Andrea, un nome che finisce con la A, buono per maschi e femmine, scelto da lei. Nessuno aveva obiettato, nemmeno mio padre.
Mio padre. Lui non criticava le scelte di mia madre, non si opponeva mai, non la contrastava. Quando la guardava io leggevo nei suoi occhi adorazione e preoccupazione. Non capivo, ma condividevo perché anch’io, pur non intuendone il motivo, provavo gli stessi sentimenti. Mia madre era fragile, svagata, spesso si chiudeva nella sua stanza. Al buio.
“Soffre di emicranie” cercava di spiegarmi mio padre e intanto mi regalava robot, macchinine, aeroplanini, supereroi, m’insegnava a giocare a scacchi, mi seguiva negli studi, si appassionava con me alla storia, mi portava allo stadio, mi iscriveva in palestra e, durante l’ultimo anno delle elementari, mi comprò un computer. Con lui ascoltavo musica classica e rappers, visitavo musei, imparavo a nuotare, giocavo a pallone. Crescevo così, tra due mondi e modi opposti e stavo bene.
Provavo per mia madre un forte e oscuro senso di protezione e per mio padre una grande stima. In un modo diverso amavo entrambi. Capivo che in mia madre c’era qualcosa di strano, di inafferrabile. Era spesso distratta, come persa in un sogno tutto suo e io l’accettavo e l’amavo così com’era, anche perché, a volte, mi sembrava di averla tradita e delusa nascendo maschio. Non mi aveva rifiutato e forse per questo l’assecondavo nelle sue stranezze. Quel mondo rosa di cui mi circondava era per me un grosso punto interrogativo, ma non facevo domande, non mi ribellavo.
Soltanto quando per il mio tredicesimo compleanno mi regalò un’altra bellissima bambola accessoriata di un guardaroba da top model, provai un senso di fastidio, ma l’abbracciai ridendo, “Mamma”, le dissi, “possiamo smettere di giocare, non sono una ragazza, sono un ragazzo, devi fartene una ragione”.
Il suo sguardo, quella ruga in mezzo alla fronte, quelle lacrime che non scorrevano lungo le guance, ma rimanevano lì, nel lago verde dei suoi occhi. Una stretta al cuore, un dolore sconosciuto. Temetti di averla ferita e le feci una carezza quasi a volermi scusare. Lei ricambiò la carezza allontanandosi subito dopo per rifugiarsi nella sua stanza. Crescendo mi ero domandato spesso che cosa ci fosse in lei che non andava, che cosa la tormentasse. Attimi, sensazioni, brevi ansie che sparivano non appena lei sorrideva. Prima ero ancora piccolo per pormi tante domande e in seguito lo feci sempre meno, troppo impegnato tra la scuola, gli amici e mio padre che, pur non contrastando apertamente la mamma, opponeva ai suoi metodi la sua energia, i suoi sistemi tutti al maschile. Giochi da ragazzo contro le bambole, felpe sportive contro capi unisex. E io? I miei geni erano sicuramente forti, sani e determinati, altrimenti tra due sistemi tanto contradditori sarei potuto crescere quanto meno confuso.
Non è andata così. Io crescevo e mi formavo secondo me stesso, come se la mia mente e il mio corpo si sviluppassero e agissero per conto proprio. La mia infanzia tutta rosa, mio padre. Io. Non capivo mia madre, ma l’amavo e amavo anche mio padre. Per me capire lui e le sue paure era più semplice.
Ci muovevamo tutti e due intorno a lei quasi in punta di piedi. E poi ci fu il giorno in cui tutto ciò che non avevo capito, ma soltanto intuito e temuto, fu di colpo chiaro. Uno squarcio. Un velo strappato. Ero lì, appena tornato a casa, gli scalini a due e due, il cuore in gola e il pensiero all’ambulanza ferma davanti al portone. Non mi stupii nel trovare la porta di casa aperta e i due uomini in camice bianco che sostenevano mia madre. Il suo sguardo perso, la sua bellezza intatta, la sua mente smarrita. E mio padre.
“L’accompagno” mi disse “la mamma ha bisogno di aiuto, noi non possiamo darglielo. Non può più stare qui”.
Li seguii con lo sguardo, poi mi affacciai alla finestra per vederli andare via. Nessuno si girò per salutarmi. Mi chiusi nella mia camera con un senso di vuoto. Mia madre e la mia infanzia tutta rosa. Nascendo maschio avevo forse contribuito anch’io alla sua quieta follia? E che cos’era stato tutto quel suo desiderio di una femmina? Ormai non serviva più chiederlo. Probabilmente non l’avrei mai scoperto.
Sollevai il coperchio della cassapanca dove giacevano le bambole. Avevo voglia di piangere. Riabbassai il coperchio. Non piansi.
Alda Gasparini