Il Fiano alla sfida del tempo
Attraverso una storica verticale di ben undici annate offerta da Attualmente Raffaele Trosi dispone di vigneti di proprietà a fiano e coda di volpe mentre si affida al conferimento di uve da parte di contadini attentamente selezionati e fidelizzati per la produzione di greco e aglianico. Le etichette sono in fase di ristrutturazione, non solo grafica. Secondo le indicazioni che mi ha potuto anticipare ci saranno un Fiano, un Greco, un Coda di Volpe e un Aglianico base, più singoli cru i cui nomi dovranno richiamare i toponimi dei luoghi d’origine. La degustazione, organizzata, in maniera attenta e curata da Raffaele del Franco, è stata condotta dal giornalista del “Mattino” di Napoli Luciano Pignataro, esperto di vini campani e amico intimo del prof. Trosi. Presenti, tra gli altri, Giovanni Ascione e Maurizio Paparello (Bibenda), Ugo Baldassarre (TigullioVino), Carla Capalbo, Pasquale Carlo, Antonio Del Franco (Ais Avellino), Paolo De Cristofaro (Gambero Rosso), Maristella Di Martino, Annibale Discepolo, Giampaolo Gravina (Espresso) , Maurizio Paolillo (Porthos), Fabio Pracchia (Euposia). Contrariamente alla canonica verticale condotta seguendo un ordine necessariamente decrescente a partire dall’annata più giovane è stato preferito seguire un ordine casuale. Due batterie senza un criterio cronologico. Scelta voluta dallo stesso Raffaele Troisi per sdrammatizzare un evento nato quasi per gioco durante le serate trascorse con gli amici a stappare, per curiosità, alcune di quelle bottiglie custodite in cantina e rimanendo, ogni volta sempre di più, sconvolti dalla loro capacità non solo di tenuta ma dalla notevolissima qualità del loro eccezionale contenuto. E’ bene dirlo subito non ci sono molte aziende (a dire il vero forse solo altre due o tre in tutta l’Irpinia) in grado di poter offrire una simile opportunità. La famiglia Troisi, come sopra ricordato, già a metà degli anni ottanta, imbottigliava ed etichettava in proprio. I vigneti esistevano ancora da prima quando le uve venivano conferite a terzi. Vini che non erano stati progettati per durare a lungo. Il vero segreto è stato, però, ciò nonostante quello di credere in una certa idea di vino. Dopo questi assaggi abbiamo tutti la convinzione e la conferma che il Fiano può invecchiare bene nel tempo. Basta, innanzitutto, vinificarlo in una certa maniera privilegiando acidità e freschezza. Si tratta, oggi come allora, di una scelta particolarmente coraggiosa che porta ovviamente sul mercato dei vini meno facili ed accessibili nell’immediato e che possono incontrare non poche difficoltà nel farsi strada tra i consumatori ed in un ambiente, quello della ristorazione, che vuole, anzi pretende, vini d’annata pronti e piacevoli da consumarsi da subito. Solo dopo aver ottenuto un prodotto con queste determinate caratteristiche si può procedere, poi, a mettere da parte qualche bottiglia ed avere la pazienza di aspettare. Altra osservazione che mi preme sottolineare è la diversità, come deve o almeno dovrebbe sempre essere, riscontrata tra le annate pur nella continuità di uno stile rispettoso dell’identità varietale e territoriale dell’uva. Filo conduttore, ripeto, la grande acidità, la ricerca estrema della freschezza, unico salvacondotto in grado di garantire ed assicurare un luminoso futuro. La verticale Fiano di Avellino 2003 (da maggio fino ad ottobre sole, siccità, temperature sopra la media): colore carico. Naso Maturo. Piuttosto chiuso, fin dalle fasi iniziali, si apre lentamente su note calde, iodate e dolci di cioccolata bianca. Caso raro nei bianchi, si fanno strada al naso, col passare dei minuti, ricordi di frutta rossa anche in confettura. Fiano di Avellino 1990 (importanti escursioni termiche tra il giorno e la notte, vendemmia di struttura ed equilibrio): uno dei più apprezzati di questa prima batteria. Colore paglierino non particolarmente carico, vivo, vibrante. Mela cotogna, poi crostata di frutta, crema pasticcera, zafferano. Fine ed elegante. Fresco al palato grazie all’acidità che lo sostiene. Fiano di Avellino 2005 (annata difficile, piovosa, quantità ridotta di uva ma ottima qualità): decisamente giovane nei riflessi verdolini. Si tratta di un campione di vasca ancora viziato dagli aromi post fermentativi di frutta quasi esotica. Fiano di Avellino 2000 (l’estate ha visto un continuo alternarsi di sole e pioggia): minerale. Intrigante. Accenni di idrocarburi. Animale e speziato. Mi piace. Mi ricorda i riesling della Mosella. Decido di tenermi il bicchiere e di non svuotarlo per seguirne l’evoluzione. Fiano di Avellino 1992 (all’insegna della variabilità): continua in scia con il campione precedente denotando un profilo decisamente minerale. Carattere unico. Pungente. Scorbutico che non sembra abbia voglia di mollare nulla nel bicchiere. Ci tornerò su questa bottiglia alla fine della degustazione e quasi mi innamorerò di questo vino che secondo me durerà ancora a lungo. Fiano di Avellino 1993 (settembre con rilevanti escursioni termiche tra il giorno e la notte): si ritorna sul registro del ’90 almeno inizialmente. Lascia, poi, posto a sentori gessosi che ricordano uno champagne invecchiato. Molto interessante anche se non mi sembra trovare lo slancio e gli equilibri dei campioni migliori. Rimane scomposto a lungo nel bicchiere prima di trovare nel finale una maggiore serenità espressiva. Fiano di Avellino 1996 (vendemmia abbastanza pulita ed asciutta, una grandinata a fine giugno ha ridotto la quantità): non particolarmente ampio al naso. Chiuso ed introverso. Il primo e il più lento a concedersi della seconda batteria. Un sentore di caramella d’orzo ed un profilo più maturo ci riporta al 2003. Questo ’96 porta l’etichetta del cru Arechi prodotto fino a qualche anno fa. Fiano di Avellino 2004 (annata classica): il fiano come la stragrande maggioranza dei consumatori, ma anche dei degustatori, ha imparato a conoscerlo. Giovane, il più “facile”. Primario: frutta bianca e fiori gialli con un’aromaticità intensa ma che spesso può diventare, quando comincia ad essere ripetitiva, banale e scontata. Non in questo caso dove lascia intravedere sullo sfondo i primi accenni di mineralità idrocarburica. Un bianco da aspettare. Se lo faremo, saprà probabilmente regalarci tra dieci, quindici, vent’anni, le stesse emozioni di alcuni dei campioni degustati in questa e nella precedente batteria. Fiano di Avellino 1988 (annata classica, piena e longeva): la prima bottiglia presentava qualche problema ed il colore tradiva un’età notevole. Si è dovuti ricorrere ad una seconda per mettere tutti d’accordo sulla straordinaria qualità di questo vino. La più emozionante, sicuramente, dell’intera degustazione. Fine, elegante. Il naso è ancora fresco così come reattivo al palato. Standing ovation! Fiano di Avellino 1995 (settembre caldo e umido che ha causato qualche problema di botrytis): il naso mi è sembrato all’inizio piuttosto stanco (ho pensato ad un’annata particolarmente matura) ma al palato di contro ha mostrato fin da subito un’acidità viperina, citrina. In bocca recupera, dunque, lo slancio grazie alla notevolissima acidità. Nel frattempo il naso è divenuto più chiaro e decifrabile riportandomi con la mente al ’93. Stile gessoso, da champagne fermo. Per chi ama il genere una vera e propria goduria. Fiano di Avellino 1994 (annata irregolare, una gelata all’inizio di aprile ha ridotto drasticamente la quantità): anche se mostra un profilo già piuttosto evoluto e, sicuramente, tra i vini più interessanti della batteria. Qualcuno fa notare come in questo campione più che negli altri si avverta quel sentore di farina di castagne che sembra marcare inconfondibilmente il fiano che nasce tra le colline di Montefredane. Ha ancora vita davanti a sé. Chiosa |