Il Montuni delle nebbie
Esiste un luogo in cui la sconfinata e piatta pianura perde il suo fascino beffardo e voltafaccia per proporsi verso l’alto, stringendosi al cielo.
Esiste, altresì, un luogo dove la montagna, divenuta collina abbraccia e amoreggia con la lineare pianura, terra delle nebbie. Queste si scambiano affettuosi sguardi sapendo che non saranno mai l’una dell’altra perché madre natura ha scelto così e così sarà.
Zone che da sempre hanno destato interesse per i loro innati equilibri: non è pianura, non è collina; si intrecciano e si incontrano qui specie botaniche appartenenti a due mondi che hanno richiamato fauna montana alla ricerca di calore nei rigidi inverni o quella di pianura alla ricerca del fresco nelle torride estati.
Poi è giunto l’uomo che di queste zone si è impadronito.
In questi luoghi, bordi brulicanti di vita e molto ambiti, nel tempo sono sorti villaggi, castelli e città per la loro posizione facilmente difendibile, discretamente comoda, magari presso un corso d’acqua per attingere risorse idriche fondamentali per lo sviluppo e il commercio. Nei secoli, i rigogliosi boschi che scendevano dai colli fino alla pianura mescolandosi con le macchie di boscaglie, arbusteti e gli acquitrini sono stati sostituiti da colture sempre più specializzate e l’uomo ha invaso, spesso senza controllo, quegli spazi, quei luoghi che hanno vissuto di abbracci e languide occhiate.
Siamo in Emilia e andando verso est si incontra la Romagna, più precisamente siamo a Bologna, a ovest abbiamo Modena e ad est la provincia di Ravenna.
Una concreta testimone di questo crocevia di confini tra Emilia e Romagna, tra piano e colle è sicuramente la tavola che nella storia ha accompagnato l’uomo con tradizioni e innovazioni.
In queste terre fatte di confini, invisibili ma tangibili, convivono anche situazioni paradossali e inconsuete.
La città delle Due Torri è senza dubbio un crogiuolo di tutto ciò e proprio per questo che trovo affascinante studiarne la storia e rubarne i segreti, comprenderne i percorsi, sicuramente tortuosi, che hanno portato la città a mutare, lenta, giungendo fino ai nostri giorni.
Il vino, a Bologna, non ha seguito di certo le fortune dei piatti che, grazie alla sua posizione strategica per i commerci, sono diventati molto conosciuti anche a livello internazionale. Tra tortellini, lasagne e tagliatelle, il nettare di Bacco qui è rimasto assai arretrato e tutto il contesto agricolo felsineo fino a 50 anni fa ne è stata la prova.
Potremmo anche dissertare scrivendo pagine e pagine, consumando litri di inchiostro, ma le testimonianze e gli scritti lasciati da attenti antenati ci fanno comprendere come già verso la fine del XIX secolo stavano mutando delle circostanze che ristagnavano già da secoli, quelle di un mondo agricolo simile a se stesso per troppo tempo.
Il vigneto bolognese era da sempre relegato ad un ruolo marginale, nel vero senso della parola, i filari erano posti ai lati di campi coltivati con prodotti più redditizi, sostenuti da alberi che a loro volta erano utili al foraggio per il bestiame.
La devastazione della fillossera proprio in quegli anni di fine ‘800 non infuse di sicuro quel coraggio che sarebbe stato necessario per dare una svolta agli ambienti vitivinicoli, molti vigneti furono abbandonati e quel mondo a cui eravamo abituati giunse per sempre alla fine.
Nel tentativo di ricostruzione del vigneto bolognese si fece chiara l’idea che la vite di collina aveva caratteristiche che non aveva quella di pianura e viceversa; si sperimentarono sempre con diffidenza da parte degli agricoltori-mezzadri, potature verdi, diradamenti e maggiori attenzioni nei processi di vinificazione. Vennero definiti anche quali dovessero essere i vitigni adatti alla ricostruzione, per una rapida rinascita e per una nuova via da seguire.
Uno dei vitigni reputati adatti alla ricomposizione dei vigneti, che potesse avere caratteristiche ideali fu il Montuni.
Un’uva, un vino, che ha accompagnato tante generazioni prima della mia, un vino quotidiano, compagno di ogni piatto che il Signore abbia mai voluto concedere alle tavole di famiglie numerose.
Viene prodotto dalle omonime uve nelle zone pianeggianti e pedecollinari che vanno dal modenese al bolognese sconfinando nel ravennate.
Non abbiamo certezze storiche, documenti scritti ma questo vitigno è presente nelle pianure felsinee da diversi secoli e io che ci abito, probabilmente ne sono sempre stato circondato, ha colorato le mie scorrerie in bicicletta da bambino tra filari, fossi e sentieri tra i campi.
Il Monti, relatore dell’Accademia Nazionale di Agricoltura nel 1875 ne scrive chiamandolo Montocello poi catalogato nel Bollettino Ampelografico nel 1879.
Discorrendo con un grande conoscitore di vino bolognese, decano dei sommelier delle città, ben consapevole del leggendario equivoco, vengo a conoscenza che il nome del vino Montù potrebbe derivare dalla forma dialettale bolognese che storpia la frase molt’ù, molta uva, riferito alla vigoria della varietà. Non ci sono testimonianze scritte in merito e accetto quello che il maestro mi racconta.
Altre voci di esperti vignaioli mi dicono che potrebbe avere legami genetici con vitigni come l’abruzzese Montonico Bianco o il calabrese Mantonico, ma i miti, perdendosi nel tempo e nei racconti, vanno accettati.
Negli ultimi decenni il Montuni subendo la sorte di alcuni vitigni storici e autoctoni ha purtroppo lasciato il posto ad altre varietà pur essendo una cultivar resistente alle malattie, di ottima produttività e anche di una discreta eleganza.
La DOC Reno è la denominazione di riferimento e sovente viene raccontato come un vino senza una reale consistenza e di scarsa personalità, seppur fresco e minerale. Certamente in questi ultimi 40 anni la vitivinicoltura e la cultura del vino in queste zone è certamente mutata, nelle mie terre ha avuto un considerevole movimento verso la qualità sia nella produzione che nella conoscenza.
Tanto per ricordare, in passato il vino in queste zone era generalmente un assemblaggio di più uve, talvolta fino a 10 e succedeva anche che le maturazioni non fossero ottimali per ogni vitigno oppure qualche filare di uva a bacca rossa finiva facilmente in una lavorazione di bianchi. E viceversa.
Il Montuni capitava quindi in blend probabilmente insieme ad Albana, Alionza, Trebbiano, Maligia e altre uve bianche. A parte l’approssimazione nelle raccolte e nelle pigiature, nel controllo delle fermentazioni e negli imbottigliamenti, questi uvaggi avevano il vantaggio di rendere i vini altamente equilibrati, ai quali non mancava nulla. O quasi.
È necessario ora trovare attenti produttori, quasi visionari, perché si possa sentire parlare di Montuni al di fuori di schemi preordinati e le sorprese vi stupiranno, sapienti vignaioli mi bisbigliano, con far sicuro, che questo vino diventerà il nuovo bianco emiliano-romagnolo, che ha le caratteristiche per diventare un grande vino.
La maturazione piuttosto tardiva ci consente di fare vini con una struttura invidiabile e la possente acidità ci permette di tenere in cantina il vino più a lungo, bella combinazione no? La sapidità potrebbe, in talune zone, risultare veramente imperiosa e qualche vigneron lo sta sperimentando proponendo delle spettacolari versioni spumantizzate e sembra risultino piuttosto bene.
Il vino Montuni ha generalmente un colore giallo paglierino chiaro, al naso offre un interessante bouquet che potrebbe essere poco intenso ma ci racconta sentori delicati di fiori gialli e frutta come pesca o pera e sensazioni erbacee di fieno appena tagliato. Al sorso, mai prorompente, spicca la sua acidità e una consistente mineralità che in alcune interpretazioni si bilancia con un ricercato residuo zuccherino appena accennato per renderlo più gradevole e adatto ad ogni palato e piatto.
Ha enormi potenzialità, l’acino di medie dimensioni con notevole pruina si potrebbe prestare ad attacchi di botrite per realizzare muffati di grande pregio mentre gli acini più piccoli hanno già una ottima concentrazione zuccherina.
Sarei curioso di assaggiare versioni più sfacciate e meno rispettose di questo vino che avrebbe la facoltà di raggiungere ottimi arrangiamenti con macerazioni poco più lunghe grazie alla spessa buccia dell’acino.
Ha la caratteristica di rendere fini ed eleganti gli assemblaggi in cui è presente, sarebbe interessante scoprirne la struttura, le sue rotondità e godere anche del suo perfetto equilibrio abbinato ai tanti piatti al quale si adatta senza vergogna. Vorrei assaggiare un metodo classico per coglierne le potenzialità e abbinarlo ai piatti di pesce della cucina di riviera della Romagna.
Il Montuni ha bisogno di sostenitori, di appassionati che credano in lui, di vignaioli desiderosi di ottenere un prodotto dimenticato, oggi quasi raro, ma che regalerà senza dubbio ottime sorprese, per riscoprire le emozioni dei nostri nonni e per farci sentire parte della tradizione. Oggi più che mai per proporre una novità per i meno attempati e riscoprire un grande vino.
Alessio Atti