Il sublime Montebore di Mongiardino Ligure
Nel Castello di Abbiategrasso, il 20 giugno del 1469, nasce Gian Galeazzo Maria Sforza, da Galeazzo Maria Sforza e dalla moglie Bona di Savoia.
È chiamato Gian Galeazzo per continuità dinastica con i Visconti: Gian Galeazzo, primo Duca di Milano e Maria per un voto fatto alla Vergine da parte proprio di Gian Galeazzo Visconti.
Viene battezzato il 25 luglio nel Duomo di Milano e portato a vivere coi genitori nel Castello Sforzesco.
Due anni dopo la sua nascita, nel 1471, Galeazzo Maria e Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, stipulano un accordo secondo il quale Gian Galeazzo Maria sposerà la nipote del re di Napoli, Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso di Calabria e di Ippolita Maria Sforza, sorella di Galeazzo Maria.
Il piccolo Gian Galeazzo ha solo 9 anni quando, il 26 dicembre 1476, sul sagrato della Basilica di Santo Stefano, a Milano, suo padre viene assassinato.
Il Consiglio di Reggenza, costituitosi dopo l’assassinio (composto dalla madre di Gian Galeazzo e da Cicco Simonetta, nominato ministro e governatore di Milano), decide di conferirgli il titolo di reggente del Ducato di Milano con una incoronazione in Duomo, il 24 aprile 1478.
Però Ludovico il Moro, cognato della duchessa Bona, non vede di buon occhio questa investitura, che contrasta le sue mire assolutistiche e fa decapitare il Simonetta.
Due anni dopo, nel 1480, anche la madre di Gian Galeazzo cade in rovina, sempre a causa di Ludovico che, inappagato delle sue conquiste, la costringe all’esilio coatto nel castello di Abbiategrasso.
Gian Galeazzo invece viene relegato nel castello di Pavia dove è stato creato per lui un vero empireo del piacere, allo scopo di rendere molle il suo spirito, tenerlo lontano dalla politica e sminuirne sempre più il prestigio.
Il Moro, che credeva il nipote affetto da impotenza sessuale, decide di non opporsi al suo sposalizio con Isabella d’Aragona, rispettando così la promessa stipulata con Alfonso re di Napoli.
Le nozze ufficiali vengono celebrate nel Duomo di Milano il 5 febbraio 1489 e i festeggiamenti passano alla storia anche per la spettacolare rappresentazione di un’opera musicale, con la scenografia della Festa del Paradiso, realizzata dall’estro di un talentuoso artista di nome Leonardo di ser Piero, ingaggiato da Ludovico il Moro per dare agli infelici sposi l’illusione di regalità che invece lui ha già loro usurpato.
Il portentoso spettacolo è animato da fanciulli in vesti di angeli e da pianeti mitologici che ruotano attorno a Giove sullo sfondo di un grande cielo punteggiato da miriadi di candele che, come stelle, sfavillano riflesse da un’aurea superficie curva e creano un bagliore sfolgorante che quasi acceca gli astanti.
Ma ancor più spettacolare è la festa nuziale messa in scena dal conte Bergonzio Botta nel suo castello di Tortona.
A questa sfarzosa rappresentazione allegorica sono presenti oltre 800 invitati che partecipano ad uno dei più sontuosi e memorabili banchetti dell’epoca: “…il conte Bergonzio Botta ricevette gli sposi (…). Il loro ingresso fu accompagnato dall’entrata di Giasone con gli Argonauti (… al suono di una marcia guerresca (…). Gli eroi recavano in mano il vello d’oro che, disteso sopra la tavola, servì da tovaglia. (…). La (…) portata di arrosti prevedeva un cervo, annunciato da Diana e dalle ninfe cacciatrici (…) Atlante e Teseo assieme alla loro scorta rappresentarono (…) una caccia che culminò con l’uccisone di un cinghiale selvatico offerto al giovane duca con un balletto trionfale. Per chiudere gli assaggi di carni, da un lato della sala avanzò una serie di bellissime ninfe, vestite di morbide tele dai colori assortiti con quelli dei pavoni che trainavano il carro allegorico occupato da Iride. Mentre le giovani posavano sulla tavola trionfi di saporitissimi pavoncelli, dall’altro lato della sala, Ebe portava il nettare, accompagnata (…) da Vertunno e da Pomona che servirono panna, formaggi (…)”. [Racconto estratto del resoconto di Castil-Blaze del Banchetto Conviviale, organizzato dal conte Bergonzio Botta nel 1489 in occasione delle nozze di Gian Galeazzo Sforza e Isabella D’Aragona. Vedasi: GastoneVuillier, La Danza, Milano, Tipografia del Corriere della Sera,1899].
Il formaggio che viene portato sulla nobile tavola si chiama Montebore e, con i suoi tre strati sovrapposti, assomiglia ad una torta nuziale.
Forse è per questo che viene scelto da Leonardo di ser Piero (lo stesso ingegno che ha ideato la Festa del Paradiso rappresentata nei festeggiamenti nuziali a Milano) e che interviene qui come straordinario gastronomo, in questa straordinaria rappresentazione, o forse perché è un prodotto raro e antico, la cui storia si fa risalire all’arte casearia dei monaci dell’abbazia benedettina di Santa Maria di Vendersi, sul Giarolo (il monte che forma le Valli Grue, Borbera e Curone), che lo producono già nel IX secolo.
Leonardo di ser Piero da Vinci, colpito dalle grazie di Isabella la ritrarrà in un dipinto che diventerà famoso come Monna Lisa del Giocondo ma la cui vera identità è proprio quella della sventurata duchessa di Milano, figlia di Ippolita Maria Sforza. [Nel 2009, Maike Vogt-Luerssen, studiosa di storia dell’arte, dopo 17 anni di studi, documenta che la Gioconda, inizialmente identificata come Monna Lisa del Giocondo, moglie di un mercante fiorentino e successivamente come Lisa Gherardini (favorita di Giuliano de’ Medici) e infine come Bianca Sforza (figlia di Ludovico il Moro), sarebbe invece proprio Isabella d’Aragona, duchessa di Milano, figlia d’Ippolita Maria Sforza.].
Fino a qualche tempo fa il Montebore veniva prodotto nella Zona di Mongiardino Ligure (AL), un Comune sperso tra i boschi della Valle Spinti.
Il caseificio che l’ha riportato in auge dopo anni di abbandono è di Agata Marchesotti e Roberto Grattone che allevano anche le pecore da cui si ricava il latte con cui è prodotto.
Oggi, Agata e Roberto, con la Società Cooperativa La Tula, hanno spostato la produzione a Grondona, un piccolo paese della Valle Spinti, di circa 500 abitanti.
Il Montebore viene realizzato miscelando 70% di latte crudo vaccino al 30% di latte ovino.
La cagliata, rotta con un cucchiaio di legno viene messa in apposite formelle, rivoltata e salata.
Estratte dallo stampo, tre forme del diametro decrescente vengono poste a stagionare, una sopra l’altra da una settimana a due mesi e oltre.
La crosta, inizialmente liscia e umida, con la stagionatura si asciuga e assume un aspetto rugoso con un colore che varia dal bianco al giallo paglierino.
La pasta è liscia, leggermente occhiata con un colore bianco in varie sfumature.
Ogni forma di Montebore riporta la data di produzione, così il consumatore sceglie quanto tempo vuole aspettare prima di accingersi a sottoporre la propria bocca, la propria gola e finanche il proprio cervello ad una emozione tra le più sublimi.
Più lo lasci stagionare e più diventa buono, più gli dai tempo per evolversi e maggiori sono le possibilità di trovarci dentro l’anima rosa (un po’ come trovare la perla in un’ostrica) che contraddistingue le forme che hanno raggiunto la perfetta armonia.
Non appena la lama del coltello si insinua nella sua forma, rilascia una specie di belato che riecheggia quello delle pecore dal cui latte crudo intero, mescolato a quello delle mucche brune, nasce questa meraviglia.
E prima ancora che ti arrivi al naso la complessità degli aromi di vinaccia, fieno, cenere, erbe aromatiche, tartufo, fungo porcino, zafferano, della sua pasta nobile, ad inebriarti è il timo, la mentuccia, il radicchio, l’erica, il cardo, l’acetosella e tutte le altre erbe spontanee dei pascoli della Valle Spinti in cui vivono in piena libertà gli animali da mungere.
Non sto a descrivere la sublime emozione che si prova quando si è in procinto di “affrontare” (g)astronomicamente una fetta di questa eccellenza, da una parte perché non riuscirei ad essere sufficientemente esaustivo e, dall’altra, perché mi piacerebbe che la curiosità riuscisse a spingere qualcuno di coloro che ancora non la conoscono, ad assaggiarne al più presto.
Il Montebore è una chicca riconosciuta anche come presidio Slow Food.
Valerio Bergamini
Società Cooperativa La Tula
Località Berseiga, Grondona (Valle Spinti)