Jessica Pellegrini e il suo Brunello di Montalcino
In un articolo del 5 gennaio di quest’infuocato 2017 avevo scritto «Si metta il cuore in pace chi ama il Brunello di Montalcino. Deve passarne di… vino sotto i ponti prima che io possa azzardarmi a scriverne! Non sono ancora stato folgorato sulla via di Damasco da questa creatura stupenda, ma che deve duellare ancora a lungo con i miei amori preferiti fra i grandi nebbioli per contendersi il mio calice preferito, anche se in luogo sono certi che succederà presto per via di un’imprevista, ma benvenuta, full immersion alla corte del mito ilcinese». Dovevo prima rovinarmi qualche paio di scarpe nelle vigne, anzitutto, ma soprattutto scocciare l’anima a quei pazienti agronomi ed enologi del posto che sono gli unici a conoscere a fondo la realtà del territorio, come ho scritto in quest’altro articolo e nel successivo agli inizi della primavera.
Troppi presunti esperti di brunello di Montalcino si fermano alle apparenze, alle leggende spacciate per oro colato o alle medaglie che vengono cucite addosso a singoli geni di chissà quale fascinosa enologia, come se il vino lo facessero le tastiere dei pennivendoli e non le fatiche e intelligenze dei vignaioli e dei cantinieri da cui lor signori vanno pure a scroccare le bottiglie. La regola numero 1 per me rimane il rispetto del lavoro, perciò i vini me li sono sempre comprati, prima di scriverne. Ora è venuto il momento per suggerirvi un po’ di attenzione su un eccellente Brunello di Montalcino.
A cena con gli amici si è soliti portare una “boccia” per ciascuno. Quella volta che la mia bottiglia di Ghemme Collis Breclemae 2007 Antichi Vigneti di Cantalupo aveva fatto la sua bella figura fra alcuni Brunello di Montalcino 2012, uno di questi in particolare mi aveva incuriosito, senza nulla togliere agli altri, tutti di gran valore, portati in tavola da vitivinicoltori in gamba. C’era il vino di uno dei “colossi” dalla chilometrica storia ultrasecolare di famiglia alle spalle e i vini di altre “colonne” che nel tempo si sono affermate con pieno merito nel panorama montalcinese. Mi aveva colpito, però, quel vino, perché era fatto da poco tempo da un’aziendina giovanissima a conduzione famigliare sorta sui suoli di uno dei versanti forse meno noti di Montalcino, quello di Montosoli che si estende verso nord-ovest, cioè in direzione di quella foresta demaniale che subentra alle vigne fino a raggiungere la riva dell’Ombrone. E sono andato direttamente lì a comprarmelo, anche se è in vendita all’Enoteca della Fortezza, in pieno borgo, per farmi un’idea più precisa, ma sul campo.
La Fattoria del Pino si trova esattamente qualche centinaio di metri sotto il Santuario della Madonna del Soccorso, percorrendo sì e no un chilometro di scorciatoia scoscesa giù dall’antica Porta Burelli (coordinate GPS 43.064734 Nord 11.476447 Est; meglio arrivarci però dalla Provinciale del Brunello imboccando la stradina vicinale di Montecalbello). Sono circa 6 ettari di vigna coltivata a sangiovese attorno a un casolare toscano in pietra costruito nel 1600, ampliato in tre epoche successive e appena ristrutturato a cantina proprio davanti alla piccola stalla e al recinto per i cavalli. Un gioiellino sapientemente cercato e prescelto dal padre dell’attuale proprietaria, Jessica Pellegrini, il quale, avendo speso una vita nell’edilizia e nei trasporti e conoscendo perciò vita, morte e miracoli di ogni angolo del territorio di Montalcino, nel 2000 ha investito tutto in una conca che non vede certo il mare, ma ne riceve le brezze e, d’estate, perfino quelle benedette folate di maestrale che rinfrescano i grappoli quando su altri versanti gli acini rischiano l’ustione.
Si parla tanto di amore materno, ma lasciatemi spendere due parole su quello paterno. Il signor Nereo poteva anche “mangiarsi” tutti quei soldi sudati e faticati in tanti anni di lavoro per vivere una terza età da nababbo e invece che ha fatto? Si è buttato in tarda età a capofitto in un’impresa che avrebbe spaventato chiunque non fosse un esperto vignaiolo pur di assicurare ai propri figli e nipoti un futuro sano, in campagna, in mezzo alla natura. Provate a pensare perciò a un uomo che compra una vigna per questo nobile scopo, ma non si accontenta di ciò che vi ci trova e perciò fa lavorare intensamente gli ingranaggi del cervello sulla base della propria esperienza in terreni, suoli, scheletri, sabbie, sassi, ghiaie, sbancamenti e drenaggi in modo da renderla più adatta al sangiovese come vuole lui, senza spaventarsi neanche un po’ dell’immane lavoro che lo aspetta in questo capovolgimento.
Le colline di Montalcino sono di origine vulcanica e hanno avuto un’intensa attività tettonica, perciò i suoli sono molto variabili e mescolati tra di loro. Qui è difficile trovare un ettaro intero in cui non siano presenti almeno tre o quattro tipi di suolo diversi e lo si vede osservando i colori delle vigne da lontano, che non sono quasi mai uniformi in tutte le loro parcelle. Il galestro, una pietra lamellare, prevale nell’alta collina, quella parte del territorio che fino al pliocene era un’isola in un mare tropicale poco profondo. Nella parte tra i cento e i trecento metri d’altezza, invece, c’è una prevalenza di sabbia, che è appunto quella delle spiagge di quel mare, mentre più in basso si trovano le argille, che un tempo ne costituivano il fondo.
In alcune parti del territorio tutto è stato rimescolato, però, da intensi movimenti tettonici e ora non è raro percorrere tortuose stradine su crinali di strati contorti e quasi attorcigliati, come fra i poggi, le forre e le frane intorno al borgo, dove questi terreni di composizione così variegata e il clima estremamente asciutto, salubre e molto ventilato contribuiscono in modo importante alla qualità del Brunello di Montalcino. Qui, però, affioravano suoli da fondo marino e solo l’intelligenza creativa di quest’uomo ha fatto quanto di meglio poteva variegare e plasmare (a sacrifici, sudore e fatica) con tufo, galestro, argille calcaree arenacee, poi ha reimpiantato le vigne e realizzato tutto quant’altro si doveva fare per avviare una cantina che si rispetti. Se lo chiamate terremoto non sbagliate di molto, ma la figlia non è certo da meno, un vero ciclone.
La sartoria, i filati, i tessuti, il taglio e cucito non potevano certo riuscire a contenere l’ingegno, l’esuberanza e la passione per la natura in piena libertà di Jessica, che si mette a studiare da autodidatta in campo vitivinicolo, diventando un’incontenibile enciclopedia (il padre se la fila via sornione quando lei si mette a descrivere le sue scelte in tutte le fasi dai ceppi ai calici). Altrove è il patriarca che detta legge. Invece qui ho finalmente visto realizzarsi in famiglia ciò che disse Mao Tse-tung ai giovani che andarono a trovarlo il 17 novembre 1957: “Il mondo è vostro quanto nostro, ma, in fin dei conti, è a voi che appartiene. Voi giovani siete dinamici, in piena espansione, come il sole alle otto o alle nove del mattino. In voi risiede la speranza. Il mondo appartiene a voi. A voi appartiene l’avvenire”.
È arrivata lei, la Jessica dei cavalli che corrono liberi. Fine del commercio delle uve. Si comincia a fare il vino sul serio, e il figlio, che oggi ha 16 anni e studia enologia, la seguirà senz’altro, con grande soddisfazione del nonno. Risultato: circa 20.000 bottiglie di vini biologici, organici, ottenuti con basse rese d’uva per ettaro, rispetto delle fasi lunari dalla vendemmia all’imbottigliamento, tutto a mano, solo lieviti indigeni, fermentazioni alcoliche spontanee con macerazioni medio-lunghe, temperature libere, frequenti rimontaggi nella fase tumultuosa per una maggiore estrazione di sostanze dalle bucce. Primo passaggio in acciaio e poi 36 mesi in botti Garbellotto di rovere di Slavonia da 50 hl (ne ha anche da 25 hl). Sono ancora quasi nuove, devono quindi passare diversi anni per decidere se fare o no l’asciatura, cioè l’asporto a mano da 4 a 8 millimetri di legno all’interno delle botti che si pianifica ogni 10-15 anni per rigenerarle. Questo è un legno che non cede al vino aromi estranei di vaniglia, dunque, ma in cui maturano invece quelli freschi e addirittura agrumati, fra tannini ben domati e perciò vellutati, note leggermente speziate di pepe nero, toni balsamici di alloro e un bel finale minerale. Alcol 14,56%, estratto secco 32,40 g/l, acidità volatile 0,65 g/l, acidità totale 5,1 g/l, anidride solforosa libera 22 mg/l, anidride solforosa totale 109 mg/l.
L’annata 2012 del Brunello di Montalcino della Fattoria del Pino (6.300 bottiglie), non prendetevela se lo sottolineo, con quel suo affascinante profumo di zagare predispone più al sorriso e all’allegria di una bella compagnia in tavola che non alla meditazione silenziosa e un po’ parruccona di quei vini invece imprigionati da blasoni barricati di cui bisognerebbe cominciare a fare a meno, fra gli applausi dei nostri portafogli che almeno smetteranno una buona volta di piangere. Anche perché ho assaggiato il loro IGT Toscana Vin Valé (dedicato al fratello Valentino), anch’esso Sangiovese purosangue dai vigneti più giovani, che affascina per la sua delicatezza e le sue fragranze fruttate chi vorrebbe un ottimo vino, ma in piena semplicità per quanto è cristallino, tanto da richiamare la purezza delle vette innevate delle più belle montagne.
Oggi, grazie a Jessica e a suo padre, mi sembra che il mondo possa andare là dove deve andare e che non c’è più bisogno di filosofi che spieghino dove va, ma di gente che lo sappia muovere in quel senso, a costo di capovolgerlo.
Az. Agr. Il Pino di Jessica Pellegrini
Via Osticcio, 26 – 53024 Montalcino (SI)
cellulare 347-5719051
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e-mail info@fattoriadelpino.com