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Vastedda della Valle del Belice DOP


 

Sicilia

 

Formaggi

VASTEDDA DELLA VALLE DEL BELICE (DOP)

Vastedda della Valle del Belice DOPArea di produzione
è compresa nell’ambito dei territori amministrativi dei seguenti comuni:
in provincia  di  Agrigento: Caltabellotta, Menfi, Montevago, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita di Belice e Sciacca;
in provincia di Trapani: Calatafimi, Campobello di Mazara, Castelvetrano, Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa e Vita;
in provincia di Palermo: Contessa Entellina e Bisacquino limitatamente alla frazione denominata “San Biagio”.
Caratteristiche del prodotto
è un formaggio di pecora a pasta filata che va consumato fresco ed all’atto dell’immissione presenta:
forma – tipica di una focaccia con facce lievemente convesse; dimensione – il diametro del piatto deve essere compreso tra 15 e 17 cm e l’altezza dello scalzo tra 3 e 4 cm;
peso – è compreso tra 500 e 700 gr. in relazione alle dimensioni;
superficie – è priva di crosta, di colore bianco avorio, liscia compatta senza vaiolature e piegature; è ammessa la presenza di una patina di colore paglierino chiaro della forma;
pasta – di colore bianco omogeneo, liscia, non granulosa, con eventuali accenni di striature dovute alla filatura artigianale; l’occhiatura deve essere assente o molto scarsa, così come la trasudazione;
aroma – caratteristico del latte fresco di pecora;
sapore – tipico del formaggio fresco di pecora con note lievemente acidule e mai piccanti;
percentuale di grasso – non inferiore al 35% sulla sostanza  secca ed al 18% sul fresco;
percentuale di cloruro di sodio (sale) – non superiore al 5% sulla sostanza secca ed al 2,7% sul fresco.
Metodo di produzione
il formaggio Vastedda della Valle del Belice DOP è ottenuto con latte ovino intero, crudo, ad acidità naturale di fermentazione, di pecore di razza Valle del Belice, provenienti da allevamenti ubicati nella zona di produzione. Il sistema di alimentazione degli ovini è costituito dal pascolo naturale e/o coltivato, da foraggi freschi, da fieni e paglia ottenuti nella zona di produzione, dalle ristoppie di grano e dai sottoprodotti vegetativi (l’erba cresciuta lungo i filari dei vigneti, frasche di ulivo della potatura invernale, cladodi di ficodindia, foglie di vite dopo la vendemmia).
E’ consentita l’integrazione con granella di cereali, con leguminose e concentrati semplici o complessi NO OGM nella misura massima del 50% della sostanza secca totale della razione.
Nell’alimentazione è vietato l’utilizzo di prodotti derivati di origine animale e di piante o parti di piante (semi) di trigonella, tapioca e manioca.
Il latte deve provenire da una o due  mungiture,  quella  serale  e quella del mattino successivo; la lavorazione  deve  essere  eseguita entro 48 ore dall’effettuazione della prima mungitura. E’  consentita pertanto la refrigerazione del latte nel pieno  rispetto  dei  valori minimi previsti dalle vigenti disposizioni legislative in materia. Il latte opportunamente filtrato con  appositi  setacci  e/o  filtri  in tela, è riscaldato tradizionalmente in  caldaie  di  rame  stagnato, fino alla temperatura massima di 40° C con fuoco diretto di  legna o gas; quindi alla temperatura di 36- 40° C viene  aggiunto  caglio  in pasta di agnello.
Il caglio utilizzato per la coagulazione  essenzialmente  presamica del latte si ricava dall’abomaso di agnelli  lattanti  degli  animali indicati nel presente disciplinare di produzione. Gli  agnelli  vanno allevati in recinti  ove  non  vengono  a  contatto  con  alimenti  e ricevono solamente il latte materno;  all’età  di  25-35  giorni  si procede alla mattazione prelevando l’abomaso, che si deve  presentare di  colore  bianco  opaco;  si  libererà  dal  resto  dei   visceri, procedendo quindi alla sua legatura con un filo  di  rafia  o  nylon; dopo averlo lavato con acqua tiepida si adagia su un graticciato  per permetterne lo  sgrondo  e  posto  in  un  locale  aerato.  Trascorse tre-quattro  ore  e  comunque   quando   l’abomaso   si   presenterà esternamente asciutto, si  provvederà a  cospargerlo  con  sale  da cucina,  avendo  l’avvertenza,  per  2   settimane,   di   rimuoverlo giornalmente affinché il sale possa interessare tutta la superficie.
Nel mese successivo,  i  caglioli  così trattati  si  presenteranno pressoché essiccati, assumendo consistenza più o  meno  pastosa. I caglioli, costituiti dalle pelli dell’abomaso e dalla pasta  in  essi contenuti, vengono prima ridotti in fettuccine o triturati  e  quindi impastati con sale da cucina molto fine, nella proporzione (in peso) di cinque parti di pasta ed una di  sale,  frantumando  i  grumi.
La pasta ottenuta si passerà attraverso  un  setaccio,  ottenendo  una sostanza cremosa. La sua conservazione  si  effettuerà in  vasi  di terracotta o barattoli di vetro di colore scuro da  porre  in  locali freschi e al riparo dalla luce. Il caglio in pasta,  prima  dell’uso, viene sciolto in  acqua  tiepida  e  quindi  filtrato.
La  quantità impiegata, si aggira fra i 60-100 grammi per 100 litri di latte,  con un tempo di coagulazione che varia da 40 a 50 minuti e  comunque  fin tanto che la rotula immersa nella tina in legno rimane  in  posizione verticale.
Formata la cagliata,  questa  deve  essere  rotta  in  grumi  molto piccoli, con l’ausilio di  un  mestolo,  detto  rotula,  recante  una protuberanza all’apice, necessaria per  una  rottura  omogenea  della cagliata, fino ad ottenere grumi delle dimensioni  di  un  chicco  di riso; la sineresi spontanea è favorita  dall’acqua  calda  aggiunta durante la rottura della cagliata. I grumi di cagliata depositati sul fondo del recipiente, vengono lasciati riposare  per  cinque  minuti, affinché avvenga la coesione fra essi, quindi la massa caseosa viene prelevata dalla tina e depositata in fuscelle di giunco senza operare nessuna pressatura della pasta. La  cagliata  viene  quindi  lasciata all’interno delle fuscelle in giunco a temperatura  ambiente  per  la maturazione (fermentazione naturale della pasta). Il tempo necessario per  la  maturazione  cambia  con  il   variare   della   temperatura dell’ambiente (più fresco è il locale maggior tempo è richiesto). Dopo 24 ore, ma nella stagione fredda anche dopo 48 ore, valutato  il grado di  acidificazione  della  pasta  con  pH-metro  portatile  (pH compreso fra 4,7 e 5,5) e/o mediante prove di filatura  della  pasta, la cagliata è tagliata a fette, posta in  un  recipiente  in  legno, detto “piddiaturi”  e  ricoperta  di  scotta  o  acqua  calda   alla temperatura di 80-90° C.
Il  tutto  si  rimuove  blandamente  con  la paletta in legno, onde favorire la fusione in  un  unico  blocco.  Si procede  quindi  alla  filatura  della  cagliata  dopo  un  tempo  di immersione della pasta di 3-7 minuti. Successivamente  si  inizia  la fase di lavorazione della  pasta  fuori  dalla  scotta  o  dall’acqua calda,  formando  dei  cordoni  che  vengono  ripiegati  in  due   ed amalgamati a modo di  trecce.  Quando  la  pasta  avrà  assunto  una superficie bianco-lucida si distaccano dalla massa delle  porzioni  a forma di sfera che vengono lavorate manualmente e richiuse nel  punto di distacco. La saldatura  avviene  stringendo  speditamente  tra  il pollice e  l’indice  le  labbra  della  sfera,  che  inizialmente  si presentavano sfaldate. Si pongono poi con la  chiusura  in  basso  in piatti  fondi  in  ceramica,  ove,  dopo  essere   stati   rivoltati, assumeranno la forma caratteristica della Vastedda.
La pasta  è molto  spurgata  e,  quindi,  rassoda   rapidamente. Successivamente, quando le forme raffreddano e  prendono  consistenza (dopo 6-12 ore dalla filatura) si procede alla salatura; questa viene condotta ponendo le forme di formaggio in salamoia satura di sale  da cucina a temperatura ambiente, per un tempo compreso tra 30 minuti  e 2 ore. Segue poi l’asciugatura  in  locali  freschi  e  moderatamente ventilati e dopo 12-48 ore, possono essere consumate.
Le operazioni di produzione  del  latte,  di  caseificazione  e  di confezionamento devono avvenire nella zona delimitata, al  fine  di  garantire la qualità, la tracciabilità ed  il  controllo  del  prodotto  ed  in particolar  modo  per  salvaguardare  l’aspetto  microbiologico del formaggio, che essendo un prodotto “vivo”, ricco di microrganismi  in continua  evoluzione,  va  confezionato  all’interno dello stesso caseificio di produzione.

 

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