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La Cenerentola della tavola: la pizza

CenerentolaAnche se nello slang moderno la definizione di “Cenerentola” ha assunto un’accezione negativa, ho voluto fare questo accostamento tra il piatto e la fiaba perché la storia della pizza è molto simile a quella di Cenerentola. Infatti così come la ragazza bistrattata e ridotta in schiavitù è divenuta una principessa, la pizza, da piatto quasi intoccabile e simbolo del sudiciume di strada, è divenuta addirittura una regina. Vediamo come.
La letteratura è piena di storie ed aneddoti sulle origini della pizza, ma i fatti accertati non sono molti, così come appare troppo romantica e fiabesca, per essere vera, la storia della nascita della pizza margherita. Sembra infatti che nel 1889 la regina d’Italia, Margherita di Savoia, trovandosi a Napoli per una visita ufficiale, volle provare la pizza; il più famoso pizzaiolo dell’epoca era Raffaele Esposito che lavorava in una piccola bottega dei Quartieri Spagnoli, e fu proprio lui ad essere chiamato per preparare la pietanza alla sovrana. Preparò tre pizze, una con la sola aggiunta di olio, una con i bianchetti e una con pomodoro, mozzarella e basilico. La preferenza cadde per quest’ultima, ed in onore della regina venne chiamata proprio “pizza Margherita”. Gran bella storia, ed almeno in parte anche vera, come dimostra il documento di ringraziamento della Casa Reale al signor Esposito, ancora oggi esibito con fierezza nella pizzeria Brandi di Napoli, che testualmente dichiara che “le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime”.

E’ una bella storia, senza dubbio, ma ci fornisce un’immagine distorta sul significato che aveva la pizza nella Napoli dell’Ottocento, e se la Regina abbia assaggiato o meno le pizze preparate dal pizzaiolo non ci è dato saperlo, visto che anche il documento appena citato non fornisce alcuna prova in tal senso. Come infatti ci racconta il solito John Dickie (Con Gusto, Storia degli italiani a tavola, ed. Laterza, 2007), in quell’epoca la pizza non godeva di grande popolarità. Carlo Collodi ne il viaggio per l’Italia di Giannettino, opera che ebbe minore fortuna del famoso le avventure di Pinocchio, descriveva la pizza come una pietanza che aveva la stessa aria di sudiciume del venditore. E anche la famosa scrittrice Matilde Serao, ne il ventre di Napoli, non si risparmiò nell’esprimere il suo disgusto verso quelle «schiacciate rotonde, di una pasta densa che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomodoro quasi crudo […] affidate ad un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada […] e si gelano al freddo, s’ingialliscono al sole, mangiate dalle mosche».
I motivi per cui la pizza era così disprezzata non vanno però cercati negli ingredienti utilizzati, né nelle mosche e tantomeno nel freddo che le gelavano o nel sole che le ingialliva. Il problema non era la pizza in sé, ma il territorio da cui l’usanza alimentare ebbe origine. Il problema era Napoli.

Pizza margheritaNapoli nell’Ottocento aveva una pessima reputazione legata all’epidemia del colera, una malattia che come poche altre suscitava una forte repulsione; a partire dagli anni Trenta, periodo in cui il virus arrivò in Europa dall’India, il capoluogo campano fu afflitto da almeno otto epidemie in cinquanta anni. L’ipotesi più accreditata di questa diffusione del virus del colera era che i germi si annidassero nel fetido sottosuolo della città più densamente popolata d’Europa, dove le persone vivevano dentro tuguri e stalle in condizioni igieniche disastrose. I poveri, che erano la stragrande maggioranza della popolazione, mangiavano sempre per strada, in quanto era impossibile nelle loro abitazioni pensare di cucinare, anche nella maniera più rudimentale possibile; ed il cibo più economico era appunto la pizza. Ed è per questo che si nutrono dei forti dubbi sul fatto che la Regina abbia avuto il coraggio di assaggiare il cibo più povero della città più povera d’Italia, ma il fatto che abbia concesso l’approvazione reale a quel piatto fu sicuramente un atto politico di grande significato. Anche quei timidi tentativi di esportare la pizza al di fuori di Napoli fallirono miseramente, come quello di un intraprendente imprenditore napoletano che nella seconda metà dell’Ottocento decise di aprire una pizzeria a Roma. L’esperienza durò pochissimo, e la pizzeria chiuse presto i battenti.
Fu soltanto nel 1918 che la parola “pizzeria” comparve per la prima volta in un dizionario italiano, e si dovette aspettare gli anni sessanta e settanta perché il resto d’Italia scoprisse che la pizza era un alimento ben più che accettabile.

MattarelloAbbiamo visto come la storia della pizza, e la sua diffusione in tutto il territorio nazionale, pur trattandosi di un piatto antico conosciuto sia dalla civiltà greca che romana, è tutto sommato una storia recente. Soltanto cinquanta o sessanta anni fa era un alimento sconosciuto ai più, e comunque considerato di bassissimo livello, sia dal punto di vista gustativo che nutrizionale. Oggi ovviamente non è più così e cosa è diventata la pizza, in Italia e nel mondo, credo che sia del tutto superfluo descriverlo. In ogni angolo del pianeta si trovano ristoranti che offrono questo piatto, condito nei modi più disparati.
Per quanto riguarda la pizza tonda, c’è un’eterna e curiosa diatriba sul fatto che sia più buona la pizza napoletana o quella romana, essendo Roma e Napoli, senza ombra di dubbio, le città dove mediamente è più facile trovare una buona pizzeria. La differenza tra i due tipi di pizza è abbastanza netta: entrambe sono basse (sfatiamo quindi il luogo comune, tipicamente romano, secondo cui la pizza napoletana è alta), ma la pizza napoletana è soffice, ha il bordo alto, non prevede l’aggiunta di grassi nell’impasto, e viene stesa rigorosamente a mano; mentre quella romana, nel cui impasto è previsto l’aggiunta di olio, è più consistente e croccante, e per la stesura spesso si deve ricorrere all’ausilio del mattarello.

A Roma negli ultimi anni si sta diffondendo sempre più, grazie alla riscoperta di un’antica ricetta romana, la “pinsa”, una schiacciata molto simile alla pizza, dalla forma ovale e dall’impasto preparato con l’aggiunta di altri sfarinati (tipo mais o riso). Anche la lievitazione, quasi sempre naturale, avviene lentamente (dalle 36 alle 72 ore). È una schiacciata abbastanza alta, croccante alla base e soffice in superficie, condita come una pizza vera e propria; una vera delizia per il palato.
Per quanto riguarda invece la pizza a taglio, quella cioè venduta a peso (a Roma) o a tranci (nel resto d’Italia), in tutto il territorio italiano rappresenta il cibo di strada per eccellenza, essendo un alimento gustoso, pratico da mangiare e relativamente economico. E anche dal punto di vista nutrizionale la pizza sta riscuotendo i favori della comunità scientifica, essendo tutto sommato un alimento completo: carboidrati, grassi, proteine, fibre; poi la fantasia dei pizzaioli sembra essere illimitata, e nel preparare le pizze utilizzano tutti gli ingredienti reperibili sul mercato, dalle verdure ai formaggi, dagli insaccati al pesce.
Io credo che la pizza, più di qualsiasi altro alimento made in Italy, sia il piatto che meglio rappresenta la cultura enogastronomica italiana all’estero e di cui dobbiamo essere fieri. Un alimento dalle umili origini che si è imposto in ogni angolo del mondo. Tanto di inchino di fronte ad una regina.

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