Se ci sono in Italia prodotti alimentari che si identificano in maniera simbiotica con il territorio di origine, uno di questi è sicuramente la mortadella di Bologna. E tale simbiosi è talmente radicata che questo prodotto spesso viene chiamato semplicemente “Bologna”, ossia col nome della città in cui venne preparata per la prima volta in tempi remoti. Se pensiamo poi che fino a qualche decennio fa, ossia fino a quando questo appellativo non assunse significati spregiativi, Bologna veniva definita la “grassa”, capiamo che tra la città ed il famoso salume (che non possiamo certo definire magro) vi è qualcosa in più di un normale rapporto territorio-prodotto. La mortadella di Bologna, che può fregiarsi del marchio IGP, è un salume composto da carni attentamente selezionate che vengono macinate attraverso tre diversi passaggi in apposite macchine tritacarne. Vengono poi preparati i cubetti di grasso ricavati principalmente dalla gola (i cosiddetti “lardelli”, un grasso di alta qualità), ed aggiunti alla carne tritata. L’impasto così ottenuto viene insaccato in diverse misure e sottoposto a cottura. Il procedimento prevede l’utilizzo di apposite stufe ad aria secca, con tempi di cottura che vanno da poche ore fino ad un’intera giornata a seconda delle dimensioni dell’insaccato. Segue una docciatura con acqua fredda e una sosta in cella di raffreddamento che consente al prodotto di “stabilizzarsi”.
La storia della mortadella di Bologna, che come ho detto sembra essere molto antica, è una storia di uomini, di leggi, di curiosità, di intrighi, di misteri. E anche di aneddoti, come ad esempio quello della diffusa convinzione (che ancora oggi mantiene delle sacche di resistenza) che la mortadella viene preparata con carne di asino. Anche se ormai tutti sappiamo che il salume in questione è composto di sola carne di maiale, almeno una volta nella vita abbiamo sentito qualcuno affermare che fosse preparata con la carne del cocciuto equino. Ma da cosa è nata questa convinzione? Per capirlo dobbiamo tornare un po’ indietro negli anni, esattamente al 1706. In quell’anno Jean-Baptiste Labat, un missionario dominicano francese, studioso di etnografia, passò a Bologna prima di tornare in Francia, dopo aver passato diversi anni a studiare nei territori francesi dei Caraibi. E fu proprio il famoso prodotto gastronomico della città ad attirare la sua attenzione, in quanto lo trovò decisamente più stuzzicante di quelli che aveva mangiato nelle Americhe. Volle allora sapere quali fossero i metodi e gli ingredienti utilizzati nella preparazione della mortadella, ma si rese presto conto che non era un’operazione semplice. I cittadini di Bologna erano così gelosi del proprio prodotto alimentare che, pur di difenderne la tipicità, raccontarono a Padre Labat una miriade di fandonie. Chi gli diceva che fosse preparata con carne di manzo, chi con quella di cinghiale. Ma la ricetta più originale fu proprio quella di alcuni bolognesi che gli raccontarono che la mortadella venisse fatta, appunto, con la carne di asinelli appena nati. Si trattava ovviamente di una burla, ma di quelle che ha fatto così tanta strada da essere arrivata quasi intatta fino ai giorni nostri.
L’aneddoto appena raccontato, oltre a spiegare le origini di una leggenda metropolitana, ci narra l’immagine di una Bologna del diciottesimo secolo i cui cittadini, per proteggere il loro prezioso salume, facevano ricorso agli strumenti antichi dell’inganno e della segretezza. All’epoca non c’erano le DOP e le IGP a tutela delle produzioni tipiche, anche se in realtà cominciavano ad intravedersi i primi prototipi normativi emanati per tali funzioni. Nel 1661 infatti, proprio per preservare la reputazione dei produttori di mortadella, fu pubblicato un bando cardinalizio che può essere considerato il primo provvedimento prescrittivo a tutela di una specialità gastronomica italiana. Tale provvedimento fu emanato proprio contro quelli che “poco amorevoli del Ben Pubblico si possano far lecito di fabbricar Mortadella, e Salami in questa Città e suo Contado, con poner in esse qualche parte di Carne di Manzo”, e tale reato andava “in grave pregiudicio del Pubblico, e particolarmente della Dote che gode ab antiquo detta città di fabbricar Mortadelle d’isquisita perfettione”. Secondo il bando cardinalizio quindi, Bologna godeva della fama di fabbricar mortadelle ab antiquo, cioè fin dai tempi antichi. Anche se in realtà non si hanno testimonianze sul fatto che gli antichi, pur conoscendo e apprezzando la qualità dei maiali allevati nei boschi nei dintorni di Bologna, conoscessero la mortadella. Ironicamente, il primo documento storico che attesta l’esistenza dell’autentica mortadella bolognese, così come la conosciamo oggi, probabilmente è anche il primo ad inventarsi una mitica tradizione per questo salume.
Oggi la mortadella di Bologna è senza dubbio il più famoso prodotto gastronomico della tradizione emiliana-romagnola, anche se in realtà la zona di produzione prevista dal disciplinare si estende ben al di là dei confini regionali, comprendendo anche il territorio della provincia di Trento e delle regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Marche e Lazio. Per quanto riguarda le caratteristiche organolettiche della mortadella “Bologna” IGP, c’è da dire che deve essere di forma ovale o cilindrica e la consistenza deve essere compatta e non elastica; la superficie al taglio deve essere vellutata di colore rosa uniforme, e nella fetta deve essere presente almeno il 15% di quadretti di grasso. Non rimane altro che concludere con qualche indicazione su quali potrebbero essere i migliori abbinamenti tra la mortadella ed il vino. Io, che come ho già avuto modo di ripetere in più occasioni non sono un fondamentalista dell’abbinamento basato sulla territorialità (il cosiddetto abbinamento per tradizione, ossia cibo e vino dello stesso territorio), consiglierei di mangiare la mortadella Bologna accostata a un vino spumante metodo classico, come ad esempio un Franciacorta, in quanto contiene quell’acidità e quella effervescenza che si accosta bene alla grassezza del salume. Anche una Bonarda, o una Barbera vivace o un Lambrusco, non sono sicuramente da escludere, perché hanno una certa alcolicità e morbidezza in più che servono a contrastare l’untuosità e la speziatura presenti nella mortadella. Da buon romano però, non posso esimermi dal consigliare un abbinamento che col vino non c’entra nulla, ma che nella capitale è da sempre un cult, e rappresenta la merenda per eccellenza. Parlo ovviamente della pizza bianca appena sfornata, aperta a metà e riempita appunto con la mortadella, che a Roma viene chiamata volgarmente “mortazza”. Di fronte ad una simile ghiottoneria, non si può fare altro che inchinarsi. Provare per credere.
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