Lenticchie di Colfiorito con involtini di cotenne di maiale e Bonarda frizzante dell’Oltrepò Pavese
La lenticchia (Genere Lens) detta anche lente, e carne dei poveri è il più antico legume coltivato. La lenticchia veniva coltivata già nel 7000 a.C. nell’Asia Sud-occidentale.
Sono stati tra i primi legumi consumati dall’uomo. Furono ritrovati in Turchia, nel 5500 a.C. e anche in tombe egizie del 2500 a.C.
Al giorno d’oggi viene considerato di buon auspicio consumare un piatto di lenticchie durante la cena dell’ultimo dell’anno quando la si unisce al maiale: zampone e, appunto, cotenne; inoltre vengono soprattutto preparate per il valore scaramantico che le viene attribuito: ciò è dovuto all’antica usanza di regalare, a fine anno, una scarsella (la tipica borsa per conservare monete) colma di lenticchie con l’augurio che ogni lenticchia dicenti una moneta!
Le proprietà della lenticchia
Le lenticchie hanno un alto valore nutritivo e contengono circa il 25% di proteine, il 53% di carboidrati e il 2% di olii vegetali. Sono anche ricche di fosforo, ferro e vitamine del gruppo B. Inoltre hanno anche un alto contenuto proteico, una buona quantità di zuccheri e una scarsa quantità di grassi, oltre ad essere ricche di vitamine, sali minerali e fibre. Sono molto indicate nella prevenzione dell’arteriosclerosi poiché i pochi grassi in esse contenute sono di tipo insaturo. La grande quantità di fibre le rendono molto importanti e utili per il funzionamento dell’apparato intestinale e per tenere sotto controllo il livello del colesterolo. Ma non è tutto: le lenticchie contengono anche isoflavoni, sostanze che “puliscono” l’organismo. Gli esperti consigliano di consumarle soprattutto in virtù delle loro proprietà antiossidanti che agiscono positivamente sugli inquinanti a cui tutti siamo soggetti. Le lenticchie sono anche molto ricche di tiamina, utile per migliorare i processi di memorizzazione, mentre il contenuto consistente di vitamina PP fa sì che esse abbiano anche la proprietà di fungere da potente equilibratore del sistema nervoso, con azione antidepressiva e antipsicotica. Infine, sono molto indicate per tutti coloro che necessitano di ferro, mentre sono assolutamente controindicate nei soggetti iperuricemici.
Cotenne di maiale
Meglio prepararle in inverno perché, per tradizione italiana, i maiali vengono macellati in questo periodo e quindi si riescono a reperire cotenne e salsiccia fresche e con una tracciabilità certa!
Ingredienti per 4 persone
300 gr di lenticchie mignon di Colfiorito oppure la stessa quantità di lenticchie grandi
12 strisce di cotenne di maiale lunghe 20 cm e larghe 4 o 5 cm
100 gr di salsiccia di maiale freschissima
1 cipolla piccola
1 costa di sedano verde
1 carota piccola
1 bicchiere da acqua di passata di pomodoro
½ litro di brodo vegetale fatto anche con i dadi
2 spicchi d’aglio bianco di Piacenza oppure rosso di Nubia
1 cucchiaio di salvia fresca tritata
1 cucchiaio di aghi di rosmarino fresco tritati
1 cucchiaio di foglioline di timo fresco tritate
2 foglie di alloro
50 gr di mollica di pane
50 cl latte
2 cucchiai di olio evo
sale, pepe secondo il proprio gusto
In una piccola zuppiera mettete ad ammollare la mollica di pane nel latte.
Preparate le strisce di cotenna: mettetele in una pentola con le due foglie di alloro e copritele in modo che il livello dell’acqua sia di tre dita sopra le cotenne. Portate a bollore, coperte, a fuoco medio e cuocetele per 30 minuti. Scolatele, eliminate l’alloro, mettetele su un asse di legno e raschiatele contro pelo con la lama del coltello.
Mettete in un colapasta le lenticchie e lavatele ben bene per eliminare la polvere.
Le lenticchie di Colfiorito in particolare e quelle mignon in generale non necessitano di ammollo;
se invece preferite quelle ”grandi” dovrete avere l’accortezza di metterle a bagno in acqua leggermente tiepida (30 gradi) per 6 ore.
Strizzate bene la mollica di pane e aggiungete la salsiccia di maiale spellata, le foglie di salvia, gli aghi di rosmarino e le foglie di timo tritati, poco sale e pepe nella quantità desiderata; mescolate bene per ottenere un impasto omogeneo.
Mettete le strisce di cotenna sul tagliere con la pelle appoggiata al legno, distribuite l’impasto e aiutandovi con il dorso di un cucchiaio ricopritene tutta la superficie; avvolgete ogni cotenna su se stessa e chiudete l’involtino con 2 stuzzicadenti.
Lavate le carote e sbucciatele con un pelapatate, lavate e togliete i filamenti al sedano, sbucciate la cipolla e tritate tutte le verdure raccogliendole in una scodella.
Se aveste tempo, sarebbe meglio usare la mezza luna; altrimenti, utilizzando il trita-tutto elettrico dovreste cercare di evitare di ridurre le verdure in poltiglia.
In una capiente casseruola di coccio mettete due cucchiai di olio, due spicchi di aglio non sbucciati ma leggermente schiacciati e il trito di verdure; il fuoco sotto la casseruola deve essere di calore medio. Quando l’aglio sarà dorato toglietelo e adagiate sul soffritto gli involtini di cotenna; fateli insaporire per qualche minuto a fuoco basso, aggiungendo, un mestolo di brodo caldo. Rigirateli spesso con l’aiuto di due cucchiai di legno.
Quindi mettete nella casseruola le lenticchie della qualità scelta, ben sciacquate, il brodo vegetale caldo e la passata di pomodoro.
Il sale non va aggiunto subito: i legumi vanno salati a fine cottura altrimenti non diventano morbidi.
Cuocete a fuoco dolce per tre quarti d’ora le lenticchie piccole o per un’ora quelle grandi, facendo asciugare quasi tutto il liquido.
Cinque minuti prima della fine della cottura salate a vostro gradimento e se lo desiderate aggiungete anche una bella macinata di pepe nero.
Servite in tavola versando le lenticchie in un piatto da portata con i bordi alti e adagiando sopra ai legumi gli involtini di cotenna (avendo cura di togliere gli stuzzicadenti!).
ALCUNI CONSIGLI DA… MASSAIA “D’ALTRI TEMPI”
Importantissimo:
quando lavate gli strofinacci da cucina l’ideale sarebbe lavarli a mano con sapone di Marsiglia neutro ma anche quando decideste di lavarli in lavatrice non usate né ammorbidente né detersivi profumati: esistono in commercio scaglie di sapone di Marsiglia da mettere in lavatrice al posto del detersivo… né tanto meno metteteli in candeggina per togliere le macchie! Passereste alle vivande l’odore, il sapore e le sostanze chimiche che contengono quei prodotti!
Sfatiamo una leggenda metropolitana: può essere che aggiungendo il bicarbonato di sodio si riducano i tempi dell’ammollo e che i legumi cuociano più velocemente ma viene stravolto completamente il gusto e a fine cottura avrete una purea di legumi senza sapore né consistenza. Una poltiglia che mia nipote Agnese definirebbe: ”bleah!”
La terracotta, generalmente composta da silice, quarzo, argilla, ossido di ferro, feldspati, è un isolante termico e i tegami, le casseruole e le pentole in terracotta sono l’ideale per cucinare tutti i piatti che comportano una ”cottura dolce”, cioè a fuoco basso e senza sbalzi di temperatura.
La pentola di coccio, che si scalda lentamente in modo uniforme e graduale e altrettanto lentamente cede il calore, è particolarmente consigliata quando si devono cuocere minestre di verdura, risotti, sughi, stufati, legumi e cereali in genere.
Bisogna, però, tener bene presente, nel calcolo dei tempi di cottura, che nei tegami, fagioliere e marmitte di terracotta la cottura prosegue anche dopo che viene spento il fuoco.
Le pentole in coccio sono generalmente smaltate, tranne che sul fondo, sia all’interno che all’esterno ed è assolutamente sconsigliato l’acquisto di quelle prive di smalto e porose, in quanto assorbono e non sono igieniche. È bene anche evitare quelle smaltate con colori troppo accesi e coi toni del giallo, la cui smaltatura potrebbe contenere piombo, sostanza nociva per la salute e assicurarsi che siano state impiegate vernici atossiche. Le pentole di terracotta nuove hanno bisogno di un trattamento iniziale prima di venire usate per la cottura: il procedimento è semplice, ma è di fondamentale importanza per fare in modo di non rischiare che si possano rompere una volta messe sul fuoco.
Cosa bisogna fare prima dell’utilizzo di una pentola di terracotta nuova:
- Bisogna immergerla completamente in acqua fredda per 24 ore (o secondo le indicazioni del produttore, ma mai meno di 12 ore) per idratare la terracotta. Al contatto con l’acqua è possibile che si sprigionino bollicine verso la superficie: si tratta dell’aria che fuoriesce dai pori del materiale ed è una cosa normale e per nulla preoccupante.
- Poi si fa asciugare la pentola all’aria per 5 ore, posizionandola ”semi-rovesciata”, con il fondo rivolto in alto e il bordo non appoggiato completamente: questo per fare in modo che l’umidità possa evaporare con facilità.
- Quindi si passa all’interno uno spicchio di aglio varie volte (questo serve a riempire i pori della terracotta e a evitare che vi si possano depositare residui di alimenti) e la si lascia ”riposare” per 3 ore.
- Il trattamento si conclude col normale lavaggio con detersivo per piatti e con l’asciugatura
Il vino ”Campo del Monte” Bonarda dell’Oltrepò Pavese frizzante 2016 Fratelli Agnes
Se invece delle lenticchie ci fossero stati i fagioli, piccoli e morbidi, non avrei avuto alcun dubbio ad abbinarli. Ideale come nessun altro è, infatti, il ”vino di Napoleone”, quello che dicono sia stato apprezzatissimo dal primo console Napoleone Bonaparte che, dopo aver vinto la battaglia di Marengo del 14 giugno 1800 contro l’esercito austriaco comandato dal generale Michael Friedrich Benedikt von Melas, si fermò a Broni e trovò di proprio gusto il vino prodotto da un vigneto sulla collina di Montebuono che, da allora, in zona è conosciuta come Monte Napoleone. Oggi lo fa Lino Maga, uno dei più grandi maestri del Vecchio Piemonte, com’è ancora chiamato l’Oltrepò Pavese, che ha circa 4 ettari di vigne anche centenarie sui suoli ghiaiosi scoscesi di Montebuono, con croatina, uva rara (da non confondere con la bonarda cui somiglia) e ughetta (vespolina).
Le lenticchie sono il più antico legume coltivato dall’uomo fin da 7.000 anni avanti Cristo nel Medio Oriente, ma hanno quel sapore più deciso di quello dei fagioli e che vorrebbe un vino anch’esso generoso, potente, pieno e mosso, però più abboccato. Fra i 20 milioni circa di bottiglie di Bonarda provenienti dai relativi 4.000 ettari circa dell’Oltrepò Pavese coltivati a croatina lasciate perdere le tante, troppe, con gradazione alcolica bassa, amabili, dolci, una vergogna in tavola, ma anche quelle invecchiate in piccole botti di legno che farebbero a pugni con il sapore della pietanza.
Non ci vuole un rosso qualsiasi, ma un rosso d’annata con un’immediatezza particolare e una piacevolezza da vino robusto, com’è sacrosanto pretendere da un vino che fu definito dai Longobardi “bono” e “hard” (che significano “forte” e ”coraggioso”).
Il vino Bonarda dell’Oltrepò Pavese non ha niente a che vedere con il vitigno bonarda presente in Valsesia e in alcuni tagli del Piemonte, ma si ottiene per almeno l’85% da uve di croatina, il cui nome sembra derivare dal termine dialettale ”croatta” (che significa ”cravatta”) perché lo si consumava nei giorni di festa, tanto che è sempre stato il più diffuso nelle feste di paese, quando s’indossano, appunto, camicia e cravatta.
Dagli anni ’70 fino al tramonto degli anni ’80 ho gustato più volte quello prodotto sui colli di Rovescala dai fratelli Luigi e Alberto Agnes, quando con la mia ’500 arrancavo sulle stradine contorte di quelle parti alla ricerca dei vini più adatti alle pietanze con carni di maiale che cucinavo a Milano, a partire dalla cassoeula. Cos’aveva di particolare? Quest’azienda storica usava un antico vitigno autoctono presente da secoli nel bacino del torrente Bardonezza, al confine con la provincia di Piacenza, la varietà ”bonarda pignolo” della croatina che ha un grappolo curiosamente a forma di pigna con acini spargoli da cui derivano tannini esuberanti e un tenore alcolico potente, uno dei quattro vitigni al mondo che contiene più sostanze antiossidanti e che fa anche bene perciò alla salute. Ci sono ancora dei ceppi piantumati nel 1906 a produrre il vino Loghetto.
Scomparsi in un anno i fratelli pionieri Luigi e Alberto, attualmente sono i fratelli Sergio (enologo) e Cristiano (agronomo), a perpetuare la leggenda di questa particolare croatina, forse l’unica che m’intriga ancora davvero come quella che ci offriva in tavola la maestra Fraschini a Colombarone di Canneto Pavese oltre cinquant’anni fa. Rimpiango quei Bonarda ruspanti e briosi, ma vini di gran calibro, fatti ai tempi in cui l’Oltrepò Pavese esprimeva uomini di grande levatura come il senatore Ernesto Vercesi, il duca Antonio Denari, l’enologo di gran valore internazionale Emilio Sernagiotto, l’ideatore del consorzio Giovanni Ballabio, il professore Gianni Saporiti, l’ingegnere Giulio Venco, l’avvocato Fernando Bussolera e tanti altri dalla schiena diritta e dagli occhi intelligenti. Generazione di cavalieri dell’etica del buon lavoro, alacri, scrupolosi, capaci di sinergie inimmaginabili. Dopo di loro ci ha provato qualcun altro a proseguire sulla stessa lunghezza d’onda di pensiero, da Bianchina Alberici a Gianluca Ruiz de Cardenas, da Aldo Venco a Matteo Marenghi, ma hanno dovuto combattere contro il muro di gomma di una generazione di ben altra etica, quella del facile guadagno, quella che ha dato la stura a milioni di bottiglie di Bonarda senz’alcuna personalità, roba da scaffali bassi dei discount. A chiamarli vino si fa peccato, per quanto sono scipiti, più scarsi perfino della cola o degli energy drink. Per non parlare dello stile di vita ”no osterie, no circoli”, ma wine bar per happy bonarda style, barrique e infine tablet e cellulare al volante dei suv.
Finalmente la svolta. Ecco un vino che ha sorpreso mezzo mondo, immagino, anche perché l’attesa è stata lunga, quando il genio dei due fratelli ci ha messo molto di suo per darci un gioiellino ”busciante” come piace ai ciclisti e ai bersaglieri, ma dalle bollicine tanto fini che non pizzicano la lingua né il palato, ma scorrono come la seta. Un capolavoro, un’altra interpretazione di Bonarda da parte di un’azienda che su questo vino ha fondato la sua storia nella più tipica tradizione di Rovescala, dove la croatina si coltiva da un millennio.
L’azienda Fratelli Agnes fa vini diversi da una ventina di ettari circa, quasi tutti di proprietà, normalmente circa 120.000 bottiglie tra cui le 13.000 in media di questo Bonarda che piace a me, il Campo del Monte, da viti tra i 40 e i 60 anni coltivate su terreni argillosi con esposizione a sud-est lungo il fianco e sulla cima del colle, densità di 4.000 piante per ettaro, metà di bonarda pignolo e metà di altri cloni di croatina, ma da uve raccolte ben mature. Il vino del 2015 ha svolto le fermentazioni per circa trenta giorni in acciaio innescate da lieviti indigeni naturali derivati dalla pruina degli acini, con una presa di spuma d’invenzione aziendale che non tocca a me svelare e permanenza di almeno 100 giorni fino al raggiungimento della pressione desiderata a temperature controllate non superiori a 25 °C, quindi affinamento sempre in acciaio per una maggior freschezza per un minimo di tre o quattro mesi, ma anche di più, dato che nella cantina del produttore il vino ci guadagna.
Il vino è di colore prevalentemente porpora scuro, ma dai riflessi violacei e con una bella spuma viola. All’attacco l’aroma mostra la fragranza dei lieviti su fondo speziato, quindi libera una sequenza di note di piccoli frutti neri (mora di rovo, mora di gelso nero, ciliegia nera, ribes nero) che precedono quelle floreali (viole, petali di rose, un tocco di geranio). In bocca è potente, mitigato da un piacevole residuo zuccherino che si avverte proprio come dev’essere in un Bonarda ancora giovane e abboccato. Al palato è asciutto, d’impatto spumoso e gustoso, di buon corpo e persistenza. Tannini di buccia d’uva ben ammorbiditi e finale fruttato. Tenore alcolico che non scherza, anche se non fa girare la testa: 14%.
Andrebbe servito fresco, non freddo, sui 16 gradi, da mantenere però per tutto il pasto, perché è vino da tutto pasto. ideale per la ricetta proposta da Fulvia, è ottimo anche per agnolotti al sugo di brasato, tagliatelle con sughi bianchi, gnocchi al gorgonzola, fegatini di pollo o coniglio avvolti con prugne secche in fettine di pancetta e arrostiti, formaggi piccanti.
Agnes Fratelli
Via Campo del Monte 1, 27040 Rovescala (PV)
Tel/fax 0385.75206
sito www.fratelliagnes.it, e-mail info@fratelliagnes.it