
Probabilmente l’Alto Adige deve la sua fama e notorietà enologica all’ottimo operato attuato nell’ultimo ventennio dalle cantine sociali, che sono riuscite nel non facile intento di convincere i vignaioli a puntare sulla qualità delle uve conferite rispetto alla quantità. Sebbene oltre i due terzi dei vini altoatesini sono prodotti da queste cooperative, un ruolo di primo piano in questa ascesa qualitativa nel passato come nel presente l’hanno giocato sicuramente anche le cantine private, il cui numero tra l’altro è in continuo aumento: negli ultimi anni infatti diversi giovani viticoltori, in particolare nella zona della Valle d’Isarco, spinti dall’entusiasmo collettivo e dal bisogno di autorealizzazione hanno scelto di non conferire più alle cantine sociali le uve prodotte bensì di vinificarle in proprio.

Alla vigilia delle “Giornate caldaresi del vino” del 3 e 4 settembre, di cui quest’anno si celebra a Caldaro il giubileo per la trentesima edizione, uno dei molti eventi organizzati lungo la Südtiroler Weinstraße, meglio nota come la Strada del Vino dell’Alto Adige, ho avuto il piacere di incontrare Martin Foradori, titolare della Tenuta Hofstätter, storicamente una delle più importanti e apprezzate realtà private altoatesine.

L’azienda vitivinicola, fondata nel 1907, ha sede in un’imponente costruzione del XVI secolo nel centro di Termeno, adibita in origine a stazione di posta per l’impero asburgico e in seguito trasformata a locanda “Schwarzer Adler” (Aquila Nera) gestita da Maria Hofstätter, una prozia di Martin Foradori, mentre in cantina il marito Josef produceva i suoi primi vini. Il potenziale della tenuta fu scoperto non molto dopo dal nipote Konrad Oberhofer che nel 1942 assunse la guida dell’azienda insieme alla moglie Luise e con molta lungimiranza, per primo in Alto Adige, cominciò a tenere separate le uve di ogni singolo podere, sia durante la vendemmia che nella successiva lavorazione in cantina, lavorando separatamente e nei modi più appropriati le diverse uve e dando il nome dei poderi ai rispettivi vini. La figlia di Konrad Oberhofer, Sieglinde, sposò nel 1959 Paolo Foradori, erede di un’antica famiglia della zona che possedeva ottimi vigneti sul versante orientale della Val d’Adige, dando origine all’attuale dinastia di proprietari.

Martin Foradori rappresenta la quarta generazione. Dal padre Paolo, dotato di una non comune apertura mentale grazie anche agli insegnamenti ricevuti nelle scuole tedesche, ha appreso le conoscenze e le tecniche di cantina e nel vigneto, da sempre considerato fondamentale per ottenere grandi vini dando grande importanza al composizione del suolo, all’esposizione e al clima. Grazie alla sua forte intraprendenza e grande personalità, Martin ha quindi portato avanti svariati progetti, sempre con la prospettiva di valorizzare e ottenere il meglio da ogni singolo vitigno, in particolare dal Pinot Nero, prediligendo la zona di Mazzon, dove questa uva la fa da padrone: introdotto in Alto Adige dal chimico austriaco Ludwig Barth von Bartenhau a metà dell’800, in questo territorio attualmente occupa infatti circa 50 dei 70 ettari vitati, percentuale destinata a aumentare considerata l’ottima attitudine di questo vitigno. La prima annata di Pinot Nero prodotta da Hofstätter è datata 1959. L’azienda ha ora ben 24 ettari di questo vitigno, 14 dei quali proprio a Mazzon, con piante che arrivano fino a 80 anni, da cui nascono il Barthenau Vigna S.Urbano e la Riserva Mazzon, in parte coltivati a pergola su terreni variegati roccioso/ghiaia/calcarea/argilla, come nell’appezzamento vicino alla chiesetta, convertito da guyot a pergola negli anni ’60 per aumentare la resa che sulla spalliera era troppo ridotta e non apprezzata in quei tempi.

Prima di addentrarci nel “mondo di Martin”, qualche informazione relativa al percorso formativo nel settore enologico. “Mi sono diplomato Perito agrario a Ora, ma ho abbondonato gli studi universitari dopo appena un mese per dedicarmi all’azienda di famiglia, convinto di imparare di più lavorando a diretto contatto con l’uva rispetto ai banchi di scuola. Un’esperienza in Svizzera per un anno e mezzo presso un’azienda imbottigliatrice con volumi impressionanti di milioni di bottiglie mi ha formato molto a livello commerciale e nella gestione della cantina”.
Ma se non fossi entrato nel mondo del vino, quale attività avresti preferito? “Sinceramente è una domanda che non mi sono mai posto: fino a 18 anni non ho dato molto peso al mio futuro professionale, dopodiché è stato automatico e naturale entrare in azienda”.
Chi è stato il tuo punto di riferimento, colui che hai preso come guida da cui attingere i “segreti del mestiere”? “Nella nostra famiglia è stato un crescendo di insegnamenti. Mio nonno materno aveva già pensato di fare un “vino del maso” anticipando il concetto di denominazione geografica e di terreno, evitando nomi di fantasia, filosofia proseguita da mio papà. Idem per gli impulsi internazionali: mio nonno nel ‘50 era già a New York a cercare di vendere il vino, pratica proseguita da mio papà ed ora da me”.

Che cosa ti piace di più e di meno del tuo lavoro? “La parte meno piacevole e più stancante è senza dubbio il tempo che dobbiamo spendere per la burocrazia, tanto che faccio addirittura fatica a ritagliarmi lo spazio per un puntuale giro nei vigneti. È bellissimo invece la possibilità di comunicare la passione per il vino, sfruttando anche le attuali enormi possibilità di viaggiare e di essere velocemente in un luogo o in un altro distante migliaia di chilometri dalla mia azienda, dove poter conversare e confrontarsi con operatori e consumatori, che trovo sempre più preparati ed attenti, soprattutto all’estero”.
Quali sono le tue passioni al di fuori del mondo enologico? “Vivere la montagna, sciando d’inverno e facendo lunghe pedalate d’estate con la bici da corsa”.
Dove passa le sue vacanze un vignaiolo che vive già in posto da favola? “La mia famiglia è patita degli Stati Uniti: l’Oregon sarà la nostra prossima tappa!”.

Parlando della Hofstätter, qual è il vino rappresentativo della tua azienda? “Sono due i vini che secondo me rappresentano la Hofstätter per due ragioni specifiche e differenti dovute al fatto che abbiano terreni sia a est che a ovest dell’Adige. Il Pinot nero, vino di nicchia, fatto per chi conosce le caratteristiche e le particolarità del vitigno e non per la massa dei consumatori. Per produrre questo vino bisogna essere contagiati dal “virus del Pinot nero” che ha intaccato prima mio padre e poi me poiché la coltivazione presenta rischi e difficoltà molto superiori ad altri vitigni. Per ragioni diverse il Gewürztraminer, che il mercato nazionale ha fatto crescere di popolarità e importanza, anche perché gli Italiani non hanno quasi mai contatti con i Gewürztraminer più dolci di stampo alsaziano. I nostri hanno acidità più elevate e una diversa interpretazione, con residui zuccherini ormai spesso sotto i 5 grammi/litro grazie anche all’andamento climatico degli ultimi anni, che gli dona più eleganza e bevibilità”.
Qual è il complimento più bello che possono fare a un tuo vino? “Che bel Chambertin!”.
Qual è il vino italiano che ti piace di più? E quello straniero? “Un Barolo con almeno 15 anni di invecchiamento. Ovviamente un Pinot nero della Borgogna”.

A cosa è dovuto il boom dei vini dell’Alto Adige? “L’Alto Adige da un’impressione di ordine e di pulizia, un’immagine di serenità e freschezza trasmessa anche dai nostri vini che ha colpito il turista e il consumatore”.
Quanto è preparato il cliente medio che arriva in azienda? “È difficile stilare un giudizio, purtroppo ci sono tanti stereotipi vitivinicoli messi in testa dai mass media, tipo il mal di testa legato alla solforosa. Tanti vogliono sapere tutto sulla provenienza del cibo ma poi rimangono allibiti quando si parla di geografia, vigne e provenienza del vino”.
Oggi si sente parlare sempre più spesso di vini biologici, vini biodinamici e vini naturali. Quali sono le tue idee in proposito? “Occorre fare una cernita tra chi fa questi vini per convinzione e chi per marketing. Fino ai primi anni ’90 le nuove tecnologie hanno portato miglioramenti in vigna e in cantina ma si è un po’ esagerato. Il rischio di questo estremismo esiste oggi tra i produttori naturali. Penso che il tempo ci aiuterà a incontrarci a metà strada con il buon senso cercando di prendere gli aspetti migliori da entrambe le parti. L’esempio classico è che oggi non si usa quasi più erbicidi a favore delle lavorazioni meccaniche”.

Qual è il tuo giudizio sul mondo del vino in questo periodo? “Il grande vino non sarà mai oggetto di speculazione. Oggi le zone più infangate sono quelle che sono state invase da produttori con forti capitali ma ai quali manca l’anima legata al vino”.
In un periodo in cui la crisi economica e le regole del codice stradale portano a un consumo giudizioso di vino, quale potrebbe essere un’alternativa commerciale valida? “Come azienda per fortuna non abbiamo rilevato grandi cambiamenti. Si è spostato il consumo di vino dal ristorante a casa e un aumento dell’enoturismo, dove in Alto Adige siamo già bravi ma possiamo ancora migliorare”.
Per concludere questa interessante chiacchierata, hai in cantiere qualche nuovo progetto per la tua attività? “L’anno scorso abbiamo acquistato una nuova tenuta in Germania, nella regione della Mosella, dove abbiamo intenzione di fare un grande Riesling coronando un sogno di mio padre. La prima annata 2014 è già un vino che mi ha regalato notevoli emozioni!”.
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