Monterotondo, dove il Chianti Classico si guarda dall’alto
I confini disegnati dagli uomini sono per definizione soggettivi, mentre quelli tracciati da madre natura risultano invece profondi e reali. In molti casi Quest’ultimi sembrano parlare agli uomini, consigliandoli o sconsigliandoli a superarli. L’uomo può poi decidere come vuole, spesso a suo rischio e pericolo.
Lo pensavo mentre le curve che da Gaiole in Chianti portano, serpeggiando sui monti chiantigiani, verso Monterotondo, non facevano altro che mostrarmi bosco, bosco e ancora bosco. Come può nascere il vino tra boschi secolari, ad altezze che (attorno ai 600 metri) in passato portavano a vendemmiare a novembre o oltre?
Poi la strada ha pensato di darsi e darmi un po’ di respiro, il bosco ha bonariamente ceduto il passo ai prati e, tornato a riveder il cielo, sono approdato tra le soleggiate vigne di Monterotondo.
Soleggiate ma appunto tra i 550 e 570 metri e qui la viticoltura, il sangiovese, il Chianti Classico sono figli non di un dio minore ma un dio diverso, che trasforma le annate calde in una manna dal cielo e quelle fresche o piovose in una prova dura da superare.
Saverio Basagni e sua moglie Fabiana non sembrano certo persone che vogliono contrastare i diktat della natura, ma se ti ritrovi con un podere di famiglia in un posto difficile ma meraviglioso come fai a non farti venir voglia di continuare a fare vino?
Siamo praticamente sul crinale dei monti del Chianti, sulla strada che sta iniziando a scendere verso la valle dell’Arno e quindi, in un certo senso, volta le spalle al territorio chiantigiano ma in realtà lo guarda dall’alto.
I loro pochi ettari di sangiovese e di altre uve autoctone (Saverio non crede nel monovitigno e sinceramente non posso dargli torto) portano a vini che rischiano di vedersi appiccicata l’etichetta di “territoriali”. In realtà li definirei più “di montagna” anche se dal 2015 Saverio sembra aver “abbassato le montagne”.
La doppia degustazione del Chianti Classico Vaggiolata (dal 2010 al 2017) e della Riserva Seretina (dal 2010 al 2016 senza la 2014 non prodotta), entrambi provenienti da singoli vigneti e con uvaggi leggermente diversi, ci ha presentato un quadro preciso ma interpretabile in maniera diversa, in entrambi i casi però con il 2015 come anno spartiacque. Ma prima dello spartiacque gli uvaggi: il Chianti Classico è 85% sangiovese, 10% canaiolo e 5% malvasia nera, mentre la riserva è praticamente tutto sangiovese con un 5% di malvasia nera. Torniamo alla degustazione durante la quale si sono create due “fazioni”.
La prima vedeva nei vini fino al 2015 un’espressione “rispettabilmente antica”, magari in qualche caso bonariamente rude nel tannino, ma austera e avvincente, con Chianti Classico espressivi ma non facili, specie nei primi anni in bottiglia; nelle annate successive notava invece uno sviluppo verso complesse rotondità (l’abbassamento delle montagne sopra accennato) più moderne, non certo facili da ottenere e ancora in parte da digerire.
La seconda invece archiviava con rispetto le sottigliezze dei vini fino al 2015 per accogliere le ultime annate come un reale e concreto passo in avanti.
In effetti dal 2015 Saverio ha iniziato a usare legni più grandi (anche se non ha mai usato barrique), dai 20 ai 30 ettolitri e soprattutto a prolungare le macerazioni, “alla piemontese” si potrebbe dire, che oggi ormai si protraggono anche oltre i 100 giorni.
In vigna, gestita in maniera razionale con attrezzature semplici ma perfettamente adatte allo scopo, si punta a ottenere una completa maturazione fenolica, non facile a queste altezze ma con il vantaggio che anche vendemmiando attorno alla metà di ottobre la gradazione alcolica non sfugge mai di mano.
Da un punto di vista personale ho apprezzato molto annata e riserva 2010, dotate di una finezza setosa e profonda, il 2014 annata (da premiare visto l’andamento climatico), la Riserva 2016 rotonda e completa, figlia di una vendemmia come se ne vorrebbe ogni anno. Ma soprattutto mi è piaciuto il 2018 ancora in botte.
Il Chianti Classico 2018 è una solare farfalla figlia di varie “annate-bruco”, nasce cioè dall’esperienza delle vendemmie fino alla 2014 e dai cambiamenti maturati nel 2015, 2016 e 2017. È dotata di frutto, freschezza e finezza, nonché rotondità, consistenza e suadente tannicità.
Sul 2018 le due scuole di pensiero si sono trovate completamente d’accordo ma io credo che ancora il meglio di Saverio debba arrivare perché ho percepito in lui una “pericolosa” voglia di migliorarsi che non guarda in faccia a nessuna richiesta o tendenza del mercato.
A proposito di mercato: per proporre oggi un bianco chiantigiano da trebbiano e malvasia ci vuole un coraggio da leoni: lo stesso che occorre per, una volta assaggiato, non berne una bottiglia da soli. Trebbiano e malvasia saranno vitigni poco glamour, ma anche questi nascono dove il Chianti Classico si guarda dall’alto e la differenza si vede.
Carlo Macchi