Tre grandi produttori si confrontano, accomunati dal profondo legame con il territorio

Tre produttori provenienti da regioni diverse eppure accomunati da alcuni elementi fondamentali, primo fra questi l’indissolubile legame con la loro terra e le loro radici. L’incontro con Elisabetta Foradori, Roberto Conterno e Salvatore Geraci è avvenuto un paio di mesi fa presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma, sede di A.I.S. Bibenda, il cui presidente Franco Ricci è un’inesauribile fonte di idee ed ha indiscutibilmente regalato alla mia città numerose occasioni per conoscere a fondo il vino italiano e non solo.
Elisabetta Foradori è una donna di frontiera, come lei stessa si definisce, perché è nata e vive in quel lembo di terra che si trova fra il Tirolo e il Trentino, il Campo Rotaliano, dove si intrecciano due lingue e due diverse culture. A metà degli anni ’80 si è trovata a dover effettuare una scelta, indubbiamente sofferta, non facile: mentre cominciava a prendere piede una filosofia produttiva volta verso uno stile internazionale, Elisabetta doveva faticosamente cercare di ricostruire una nuova immagine del teroldego, il vitigno a bacca rossa coltivato da secoli in questa terra di confine che aveva progressivamente perso il suo potenziale qualitativo e su cui puntava le proprie aspirazioni, rivoluzionando progressivamente le abitudini vitivinicole locali.
La situazione non era affatto rosea, poiché negli anni ’70 erano stati selezionati solo quei cloni che davano la massima produttività, appiattendone il patrimonio genetico. In breve tempo i 400 ettari di teroldego che occupavano la limitata superficie del Campo Rotaliano furono composti solo da quei pochissimi cloni. Individuate le piante madri dal vigneto aziendale più vecchio, Elisabetta ha iniziato il reimpianto abolendo la pergola e utilizzando nuovi metodi d’allevamento, impostando una maggiore fittezza d’impianto (le vigne destinate alla produzione del vino di punta, il Granato, hanno una densità di 6.000 ceppi/ha), con l’idea di ridurre le rese e, allo stesso tempo, recuperare la minore produttività con un numero maggiore di piante per ettaro. In questo periodo certamente non breve di intenso lavoro, si documentò sulla storia e le origini del teroldego, prendendo visione dei registri dei beni demaniali e delle tenute ecclesiastiche.
Oggi sono 15 i biotipi di teroldego che Elisabetta ha individuato e sta progressivamente reimpiantando. Questa preziosa uva nasce tra le rocce, su terreno alluvionale composto di porfido e granito, poca terra e tanta ghiaia, ciottoli e sassi, elementi perfetti per ottenere un vino di qualità. Ovviamente ci sono voluti anni perché il vitigno si abituasse al guyot, non è stato facile gestire il cambiamento ma i risultati poco a poco sono arrivati. Trovare una linea e una filosofia che tenesse sempre presente le radici e le ragioni di un territorio e mantenerla, in un momento in cui il mercato andava in tutt’altra direzione, era impresa ardua, ma il Granato è la testimonianza dell’eccellente risultato raggiunto. Vino che richiede tempo per aprirsi e divenire complesso, troppo spesso viene bevuto immaturo, non è quindi figlio del nostro tempo, in cui siamo abituati a non soffermarci sui particolari, a correre ad un ritmo incalzante, dimostrato dalle medie in autostrada o dai treni ad alta velocità che si fingono indispensabili ma finiranno con il non farci più ammirare i paesaggi che attraversano. Il Granato è il prodotto delle migliori uve provenienti da 5 vigne profondamente diverse, una decina di ettari in tutto, la cui parte migliore si trova sul cosiddetto sasso affiorante. Inizialmente Elisabetta aveva scelto di far maturare il vino in barrique nuove al 100%, ma sta progressivamente riducendone l’uso (con l’annata 2004 siamo al 50%). Il carattere forte e una radicata convinzione che gli interventi enologici devono essere meno invasivi possibile, hanno spinto la produttrice a non adottare i metodi appresi a San Michele all’Adige, come la chiarificazione con 200 g di bentonite per ettolitro.
L’incontro con i tre produttori prevedeva una piccola verticale di tre annate del vino aziendale più prestigioso. Come logica conseguenza di quanto detto fino ad ora Elisabetta Foradori ha portato le annate 1999, 2000 e 2001, evitando le più recenti, ancora bisognose di “crescere”.
Teroldego Rotaliano Granato 1999 (DOC) – colore rubino smagliante, compatto e di buona concentrazione; naso ricco di frutto, marasca, mora, mirtillo, sfumature di lampone e melagrana, ma anche di fiori quali viola e iris, poi note di resina e liquirizia e un residuo appena vanigliato. Al palato è già ben delineato, equilibrato e avvolgente, con un tannino vellutato ma ben saldo e una bella sapidità. Interessante nel lungo finale una leggera sfumatura piccante. 91/@@@@@
Granato 2000 (IGT) – qui il colore appare leggermente più evoluto, in particolare si nota all’unghia una sfumatura granata. I profumi sono ancora una volta orientati al frutto, mora e prugna mature, ma mai dominante, infatti è evidente la viola, così come il succedersi di spezie quali chiodo di garofano, pepe nero, tabacco. Note balsamiche si intersecano con una sottile vena animale. In bocca il vino conferma una leggera maturità in più, frutto probabilmente di un’annata più calda, infatti anche l’alcool, pur rimanendo attorno ai 13 gradi C°, si fa sentire un po’ soprattutto nella sensazione pseudocalorica. Parliamo di piccole differenze, che non alterano la grandezza di questo vino ma rispecchiano semmai le caratteristiche dei diversi millesimi. 88/@@@@
Granato 2001 (IGT) – rubino fitto e concentrato, di grande fascino. Un bel bouquet floreale di rose e viole fa da premessa ad una bella trama, dove la mora e le bacche hanno un ruolo minore rispetto ad una variegata speziatura giocata su note di cannella, tabacco, liquirizia, cardamomo, cioccolato, su un sottofondo mentolato e di terra umida. All’assaggio conferma una concentrazione e una forza espressiva notevoli, il tannino sempre setoso ma qui indubbiamente più giovane promette grandi potenzialità evolutive. 92/@@@@@.
Salvatore Geraci, architetto innamoratosi del vino tanto da farlo diventare la sua professione principale, ha il grande merito di aver lungamente lottato per mantenere in vita la piccola Doc messinese Faro. Simpaticamente ci rivela che in Sicilia può vantare di avere la tessera di sommelier n. 2. La collaborazione con l’enologo Donato Lanati gli ha consentito di lavorare al meglio per produrre vini di qualità elevata. Capire dal materiale esistente cosa tirare fuori era difficile impresa, infatti in quel fazzoletto di terra collinare che si affaccia sullo stretto di Messina (non a caso la Doc si chiama Faro…), la viticoltura andava scomparendo, tanto che la Doc rischiava irrimediabilmente di venire cancellata se il numero dei produttori fosse sceso al di sotto di tre. Per questa ragione Geraci dovette impegnarsi a fondo per stimolare un produttore affinché non mollasse (l’altro era un convento). Oggi, grazie all’impulso dato dai vini di Palari, il Faro, che si compone di poco più di 16 ettari (!), può vantare addirittura un Consorzio di tutela composto da una decina di aziende vinicole.
Una delle domande che Salvatore si è dovuto porre all’inizio del suo lavoro di viticoltore, nel 1990, riguardava l’uso o meno delle barrique. Se da una parte queste potevano influenzare le caratteristiche organolettiche del vino, dall’altra rappresentavano la soluzione ideale per fissare il colore del nerello mascalese, vitigno tipico dell’est siciliano, in particolare della zona etnea. Non trovandosi in Trentino, Geraci si rese conto subito che quelle vigne ad alberello di 60-80 anni erano necessarie perché le piante radicano molto in profondità, garantendo una maggiore tolleranza alla siccità, tanto da consentire in annate medie di poter vendemmiare fra fine settembre e inizio ottobre. Il 2003, che sappiamo bene quanto sia stato rovente, non ha perdonato neanche nel messinese, tanto da costringere Salvatore ad anticipare la raccolta di quasi due settimane.
La produzione si attesta poco sotto le 40.000 bottiglie, ricavate da 7 ettari di vigna, più o meno equamente ripartite fra i due vini aziendali Faro e Rosso del Soprano. In questa occasione Salvatore ha portato le annate di Faro 2000, 2002 e 2003. Il vino è composto per il 50% da nerello mascalese, mentre per il restante da una mescolanza variabile di uve locali quali nerello cappuccio, nocera, calabrese, acitana, jacchè, tignolino.
Faro 2000 – presenta un colore granato di buona trasparenza con ricordi rubini. Al naso è di grande fascino e complessità, con spiccate note eteree, tabacco scuro, prugna secca, amarena, chinotto, liquirizia, effluvi di tè, terra bagnata, addirittura richiami agrumati che lo rendono particolarmente suggestivo. Al palato è intriso di mineralità, sapido, quasi ematico, saporito. Nel complesso appare maturo, ma ciò è dovuto all’estremo equilibrio di ogni sua parte, ben modellata e persistente. 91/@@@@@
Faro 2002 – colore più vivo e compatto, orientato ancora su toni rubini ma sempre di buona trasparenza. Le sensazioni olfattive iniziali rimandano toni selvatici, per poi dilatarsi in complessi riverberi di grafite, mallo di noce, cardamomo, cannella, leggere suggestioni fruttate di ciliegia in confettura, accenni minerali e di goudron. Al gusto è come sempre elegante, snello, senza pesantezze, eppure profondo e complesso, molto minerale, tannino quasi dolce e vellutato, persistenza da manuale. 93/@@@@@
Faro 2003 – granato con ricordi rubini e concentrazione leggermente maggiore. L’annata calda è stata gestita magnificamente, tanto da consentire l’apprezzamento di note floreali di viola, poi amarena, ciliegia, ribes, prugna. Si evidenziano note ferrose, tabacco, cenni balsamici, menta, humus e di nuovo sfumature agrumate, di scorza d’arancia. In bocca è intenso e quasi prorompente, di eccellente freschezza, deciso nel tannino ma non per questo difficile da bere, tornano le note ematiche e ferrose, finale armonico e aristocratico. 92/@@@@@
Roberto Conterno mi riporta nelle amate Langhe, in particolare nella località Ornati, a Monforte d’Alba, dove dal 1770 la sua famiglia produce vino. Nipote di Giacomo e figlio dell’indimenticato Giovanni, da tutti riconosciuto come uno dei più importanti rappresentanti della grande tradizione del Barolo, Roberto lavora a tempo pieno dal 1988 e porta avanti le redini della prestigiosa azienda, protagonista assoluta con i suoi due Barolo Monfortino e Cascina Francia, provenienti dal vigneto Francia, 14 ettari di cui 9 a nebbiolo da Barolo e il restante a barbera, situato sul versante ovest di Serralunga, tra l’Arione e il Bosco Areto ad un’altitudine che va dai 420 ai 370 metri. Il Monfortino, che non è altro che una selezione delle migliori particelle, è stato etichettato e imbottigliato per la prima volta nel 1915, quando ancora non si chiamava Barolo e non proveniva da vigneti di proprietà. Le uve si acquistavano a Monforte e Serralunga, ma erano molto buone, anche perché a quel tempo c’erano più contadini che produttori.
La Cascina Francia è stata acquistata dai Conterno nel 1974, è esposta a sud-ovest ed è composta da terreni calcarei di arenaria, marne bluastre e rame. Lo stile aziendale ha sempre rispettato il legame profondo con la tradizione e Roberto non ha intenzione di alterarne alcun aspetto. Qui si fermentano le uve in tini di legno per trenta e più giorni, senza controllo della temperatura (che in certi casi arriva a 35/36 °C). Il vino matura 7 anni in botti di rovere di età che arriva anche a 50 anni. Le botti vengono pulite con getti d’acqua a pressione, prima calda e poi fredda. Lo spessore delle doghe è tale da consentire ogni 15-20 anni di poter fare la raschiatura e piallatura.
Le tre annate di Barolo Monfortino che Roberto Conterno ha voluto presentare sono la ’96, la ’97 e la ’98. Per darvi un’idea delle diverse condizioni climatiche, il nebbiolo è stato raccolto nel 1996 il 20 ottobre, l’anno successivo il 28 settembre e nel 1998 il 13-14 ottobre. Il 3 settembre 2002 la grandine ha colpito Serralunga senza pietà, ma ha risparmiato il vigneto Francia, pertanto Roberto ha deciso di produrre il Monfortino, perché le uve sono state raccolte in perfette condizioni di maturazione.
Barolo Monfortino Riserva 1996 – chi ha avuto modo di assaggiare numerosi Barolo di questa annata, sa che è una delle più atipiche, perché i vini che ne derivano sembrano non trovare mai il loro equilibrio, balzando improvvisamente da momenti di grande scorbuticità e chiusura ad altri di splendida complessità e forza espressiva. Caratteristica che a volte è premessa di una grandissima annata. Il colore del Monfortino è un granato netto, molto bello e di buona trasparenza, davvero nebbioleggiante. Al naso l’impatto è dapprima mentolato, poi di terra umida, tabacco, ciliegia mista a rosa appassita, sottobosco, liquirizia, cenere, tanta mineralità. Al palato è deciso, potente e dal tannino senza concessioni, ma di trama finissima ed elegante, la successione aromatica è stupenda, ammantata di bella sapidità, mentre la persistenza sembra interminabile. 93/@@@@@
Barolo Monfortino Riserva 1997 – non è un caso che quest’annata ha in generale riscontrato l’entusiasmo dei critici, soprattutto d’oltreoceano. La maggior parte dei vini avevano caratteristiche di grande potenza e morbidezza, in pratica apparivano già pronti e godibili. Persino il Monfortino, a suo modo, ne ha tratto vantaggio: i profumi sono ancora una volta mentolati, con una nota di viola molto intensa e nitida, poi arriva il sottobosco, il tabacco, la liquirizia, la terra e quella bellissima nota di agrumi che ci riporta al Faro di Geraci. All’assaggio è travolgente, con il frutto che prorompe senza indugi, una confettura di prugna e mirtillo si mescola ad un tannino praticamente perfetto, nobile e già polimerizzato. Il finale è interminabile, intriso di sapidità e succosità. Con il tempo sono certo che la ’96 lo supererà e durerà anche di più, ma in questo momento è davvero irresistibile. 94/@@@@@
Barolo Monfortino Riserva 1998 – anche con questa annata, assai meno suadente della precedente, in realtà si percepisce una finezza e un’eleganza eccezionali. Il colore è sempre il granato che lo caratterizza, mentre al naso ci conduce verso nuovi orizzonti, con sfumature iodate e salmastre, tanta elegante florealità e poi erbe aromatiche e officinali, alloro, timo, origano, poi la viola e la ciliegia, bellissima e croccante, la liquirizia, il cuoio, di nuovo la sfumatura agrumata a dargli un tocco di classe e riconoscibilità. Al gusto, ovviamente, non ha la sorniona morbidezza e potenza del ’97, ma una finezza straordinaria, una struttura perfettamente equilibrata, un’agile freschezza e tannini maturi e nobili. Il finale è ancora salmastro, balsamico, elegante, interminabile. 95/@@@@@
Roberto Giuliani