Non so cosa mi abbia spinto ad aprire, durante il mio solitario pranzo a base di rigatoni al ragù, tutto rigorosamente biologico, l’ultima bottiglia a mia disposizione di Chianti Classico 2006 di quella piccola azienda che prende il nome dal sito in cui si trova, ovvero Castellinuzza e Piuca, due piccole frazioni che si raggiungono da Greve in Chianti in direzione Lamole. Un vino la cui etichetta, allora, appariva ferma nel tempo, troppo rustica, oggi che tutto è firmato da importanti designer, perché mai come in questi ultimi vent’anni l’abito ha finito per fare davvero il monaco, tanto che ci stiamo abituando alle donne e agli uomini “forgiati” da bisturi e cure estetiche, ma purtroppo sempre più lontani dalla capacità di amarsi davvero ed amare gli altri. Io stesso ho contribuito con il mio frettoloso giudizio a convincere Simone Coccia a rivedere l’etichetta trasformandola in qualcosa di più raffinato e “consono”, ora indubbiamente bella e sobria, ma forse meno sincera, meno rappresentativa di una cultura e di una tradizione che sono la verità indiscutibile di questo vino. Per carità, il vino va venduto, ma qui parliamo di qualche migliaio di bottiglie, non di un’azienda i cui numeri impongono un lavoro meticoloso in ogni aspetto, investimenti pubblicitari, partecipazioni agli eventi di grido, promozioni, un’equipe di PR ecc. ecc. In questo caso è proprio il vino a parlare e a dire tutto ciò che c’è da dire: cinque anni dopo la vendemmia, pur non avendo visto che vasche in acciaio e cemento, questo 2006 appare più arzillo che mai, e tutt’altro che semplice! Il sangiovese nato a 500 metri di altitudine, supportato da una moderata quota di canaiolo, sta dimostrando di avere stoffa, molto più di quanto potrebbe raccontarci qualunque etichetta imbellettata. La vinosità che lo caratterizzava all’inizio, ha cambiato volto, si è arricchita, ora ci mostra con fierezza il tabacco, la carne, il bosco, le erbe di collina. Non ha perso freschezza ma oggi è più adulto, profondo, e ci spiega quanto un’uva superba in un terreno che ne è la culla migliore, possa fare a meno di trucchi e pompate enologiche per mostrare muscoli e potenza, ma vincere in humus, profondità, ricchezza interiore, bevibilità che ti entra nelle vene, che ti ricorda che la vita è piacere, e chi non lo ha capito e pensa che il piacere lo danno solo soldi, potere, immagine è un povero inetto, che ha perduto l’occasione, probabilmente per sempre, di dare un senso alla propria esistenza. Tutto questo arriva sulla nostra tavola per pochi euro, che per alcuni potrebbero significare “vino di poco conto”; sarebbe un errore madornale, ma forse è giusto così, esiste una selezione naturale che permette di fare arrivare certi piccoli gioielli a chi è in grado di comprenderli e apprezzarli. E scusate se per una volta me ne vanto.
|