Rosa Bruna Brut Rosé 2010 Cecchetto. L’impensabile e affascinante faccia nascosta del Raboso
Raboso. Una bella fetta di enonauti avrà nominato questo vitigno forse 3-4 volte nella sua vita, ad altri sentendo il nome verrà magari in mente una forma particolare di allevamento come la bellussera. Altri l’avranno assaggiato e porteranno il ricordo di un vino di grande acidità e potenza tannica, che ha bisogno di qualche anno per esprimersi al meglio.
Il effetti il Raboso (pare che il nome derivi da “rabbioso”) anche nella zona del Piave è considerato duro e aspro, ma Giorgio Cecchetto non si è mai fatto impaurire dalla sua fama. Così negli anni ’90 ne metteva una parte ad appassire per conferirgli un po’ di rotondità e creandone varie versioni, anche affinandolo in legni particolari come acacia, gelso, ciliegio e castagno.
Ma sempre di Raboso si tratta ed è molto difficile imbrigliare la corsa di un purosangue. Meglio allora proporlo in varie declinazioni: con una parte di appassimento per il vino forse più famoso dell’azienda, il Gelsaia, oppure “nature” per il Raboso Piave DOC , con 150 grammi di zucchero residuo per il Raboso Passito e, scusate se è poco, nella versione spumante metodo classico rosé : qui nasce il Rosa Bruna.
“Ora caro Giorgio, ho capito, anche girando per la tua cantina piena di strane barriques che sei un sognatore, uno sperimentatore, ma proporre un metodo classico da raboso in purezza mi sembra veramente un pugno al cielo.”
Questo pensavo guardando la bottiglia e ho continuato a pensarlo quando ci ha detto “Vi farei assaggiare il 2010: ce lo hanno rimandato anche indietro dei ristoranti perché per loro era troppo acido, dicendoci che forse era anche difettato. Adesso è un po’ freddo: fatelo scaldare un po’ e vedrete che profumi e che grande freschezza”.
E io l’ho fatto scaldare ma intanto un piccolo sorso l’ho messo in bocca ed ho capito immediatamente che quell’austerità , quel nerbo acido che pareva avesse voglia di scardinarmi qualche dente era non tanto figlio del vitigno ma un combinato/composto tra temperatura bassa e raboso. Allora l’ho fatto scaldare di più e il puledro imbizzarrito di prima è diventato un meraviglioso purosangue che non aspettava altro che essere cavalcato.
Partiamo dal colore, un rosa brillante che a me piace tantissimo e arriviamo ai profumi: vi garantisco che sono stato almeno 40 minuti con il naso nel bicchiere e (in un vino del 2010!!!)e ho trovato ogni tipo di frutta di bosco, la ciliegia matura, la rosa canina, il tutto affiancato da lievi sensazioni di lieviti.
Un naso intenso e complesso, giovanissimo, di cui non riuscivo a capacitarmi. Ad un certo punto, verso la fine della bottiglia mi sono ritrovato a fare confronti con gli aromi del pinot nero.
In bocca però non c’è pinot nero che tenga: l’acidità è viva, vibrante ma non amara o scomposta. Traccia una direzione ma è affiancata da una bella ampiezza e la sua profondità è inaspettata, grazie anche ad una bollicina nitida e ben fusa.
Chi se lo sarebbe aspettato dal raboso. Il consiglio è provarla, provarla, provarla!
Per la cronaca mi sono bevuto quasi tutta la bottiglia e una l’ho portata a casa.
Carlo Macchi