Stefano Milanesi: quando “naturale” non è solo uno slogan, ma scelta di vita
Oltrepò Pavese, Santa Giuletta. Qui, alla Frazione Castello, c’è l’Azienda Agricola di Stefano Milanesi. Un vignaiolo che, da sempre, si identifica con la sua vigna.
È per questo che non usa diserbanti di nessun tipo, né fertilizzanti per sostenere la vita microbica del terreno.
L’unico sostentamento organico viene dalle erbe trinciate e dai tralci di potatura secca e verde.
La sua propensione alla naturalità di ogni processo, prosegue in cantina: utilizzo esclusivo di lieviti indigeni, pratiche biologiche certificate da un ente di controllo (Bioagricert), rispetto della materia prima (nessuna crioestrazione, dealcolizzazione, osmosi inversa, evaporazione, ecc.), nessuna aggiunta di zuccheri e nessuna filtrazione sterile, né chiarificazione.
Stefano è uno degli antesignani del vino naturale, che è poi l’unico vino degno di questo nome.
Sono andato a trovarlo presso la sua azienda e ha cominciato subito a raccontarmi delle sue vigne e della sua vita in mezzo a loro.
Di quando, durante un trattamento con zolfo in polvere, un sobbalzo del trattore a cingoli, fece uscire lo zolfo dal serbatoio del solforatore che, data la pendenza del filare, gli si rovesciò addosso, esplodendo.
E così, avvolto dalle fiamme, si buttò giù rotolando in mezzo alle viti che, coi loro tralci rigogliosi, lo salvarono, mentre il toro meccanico infuocato proseguiva indomito la sua corsa.
Erano circa le ore 21 di una calda serata di giugno del 2006, un anno stupefacente, quasi miracoloso, per il Maderu (Pinot Nero in purezza), cru Strada del Paradiso e, il destino di Stefano, fu di non prendere quella strada, ne quella per l’Inferno.
Il miracolato è l’ultimo stipite di una famiglia dedita alla vigna da tre secoli.
È un vignaiolo verace, che del vignaiolo ha tutto, fuorché la faccia, il portamento, la parlantina.
È un bell’uomo brizzolato, elegante, sornione e leone ascendente leonessa ma anche bilancia e vergine (soprattutto) e tutti gli altri segni zodiacali, escluso i pesci, verso i quali ha una malcelata prevenzione perché, sostiene, sono portati ad ingarbugliare le acque.
Mi fa queste confidenze mentre passeggiamo attraverso il grande cortile che, più che quello di una cantina, sembra il quartier generale degli O’Bei O’Bei.
In giro c’è di tutto: tubi, assi, coppi, traversine, attrezzi da lavoro, cesti, vasi di fiori, cartoni.
Ai margini del cortile c’è anche una piccola terrazza sulla quale fanno sfoggio, una damigiana spagliata e un tavolino sgangherato e spianato (nel senso che è privo di piano d’appoggio), cui sono rimaste solo le gambe.
Mi sono dilungato in questa, fin troppo ridondante, descrizione perché, se De Chirico fosse passato di qui, forse Milanesi sarebbe diventato famoso per un capolavoro del grande maestro, ritraente cotanto ambiente metafisico, anziché per i suoi vini!
A proposito! Ma dove sono?
Il cuore dell’azienda, così perfettamente mascherato, si trova sotto i nostri piedi, in una cantina del Settecento, scavata nel tufo, in cui il vino invecchia indisturbato, migliorandosi di giorno in giorno.
E, sopra la cantina, la vecchia casa con una soffitta, nella quale “stagionano” (ancora dopo sette mesi dalla vendemmia) i grappoli che, quando saranno completamente botritizzati, daranno vita a quel che per Stefano è una specie di “Passato”, cioè una via di mezzo tra il “Passito” (che sarebbe troppo scontato) e il “Muffato” (che dà un’idea troppo negativa del prodotto).
Mentre familiarizzo con il caos (da quello cosmogonico nacquero i Titani, che erano dei giganti, da questo Oltrepadano, nascono vini altrettanto giganteschi!), Stefano non smette di parlarmi del suo amore per le sue “bambine”, come chiama lui le sue viti, che producono frutti dalle bacche eccezionali, frutto anche di un territorio unico.
Mentre chiacchiera, mi conduce nei vigneti (“il nostro vino si fa qui”) e, anche se c’è da scarpinare nel fango, lo seguo, senza batter ciglio, attraverso i filari, su e giù, finché attraversiamo un ponticello sul fosso che scorre contiguo all’azienda ed arriviamo nuovamente nel cortile e di qui in casa dove è allestita la tavola dei piaceri.
Alcune bottiglie sono già state stappate per farle ossigenare, altre comincia ad aprirle lui, con un sorriso bonario, quasi indifferente, per attenuare la solennità del momento.
Degustiamo in successione:
– Metodo Classico Vesna Nature 2010, VSQ dosaggio zero, Pinot Nero 100%
– Elisa, cru Strada delle Sibille, 2009, Barbera 100%
– Alessandro, cru Strada delle Molle, 2008, Cabernet Sauvignon 100%
Tutti gioielli enologici sublimi, specie l’Alessandro, che mi conquista con il lampone, la frutta rossa molto matura, insieme ai sentori balsamici dell’affinamento in legno, mai prevalenti.
Questo Alessandro è un conquistatore e mi viene in mente Samarcanda, di Vecchioni: “…ridere , ridere, ridere ancora, ora la guerra paura non fa, brucian le divise nel fuoco la sera, brucia nella gola vino a sazietà.”
Per ultimo, degustiamo, anzi beviamo, il Maderu, Pinot Nero, cru Strada del Paradiso.
È quello prodotto dalle vigne, teatro del pericolo scampato.
Profumo di ciliegie rubate!
Uva molto matura raccolta nella prima decade di agosto del 2003.
Otto giorni di macerazione, fermentazione in barrique e permanenza in legno per 18 mesi.
Semplicemente irresistibile; di grande fragranza e finezza con sentori di primizie tropicali che il naso assorbe e coccola a lungo così come è lungo al palato.
Così stupendamente irrorata, la gola manda inequivocabili messaggi a tutto il resto del corpo compresa la mente che, a volte, non ha bisogno dell’atto biologico per sciogliersi in rigagnoli di piacere.