Sulle tracce dell’Orvieto Doc
Quando si parla di Orvieto Doc, quasi tutti, sapendo che si trova in provincia di Terni, sono convinti che venga prodotto solo in Umbria. E in effetti la grande maggioranza delle aziende è collocata in quella regione, anche se il disciplinare prevede che si possano fare in alcuni Comuni del Viterbese: Bagnoregio, Castiglione in Teverina, Civitella d’Agliano, Graffignano e Lubriano.
Nel Lazio in effetti l’Orvieto è meno diffuso, ma è comunque rappresentato da un discreto numero di produttori, fra i quali voglio citare Sergio Mottura a Civitella d’Agliano, Tenuta La Pazzaglia, Trappolini, Trebotti e Paolo e Noemia D’Amico a Castiglione in Teverina. Il Consorzio di Tutela però non li ha fra i propri iscritti, bensì annovera solo aziende umbre, immagino sia questa la ragione per cui non erano presenti i loro vini durante la degustazione delle nuove annate di Orvieto, Orvieto Classico e Orvieto Classico Superiore, effettuata proprio nella sede consortile del comune omonimo, a pochi passi dal Duomo, il 27 giugno scorso, e organizzata dal neopresidente Enzo Barbi.
È interessante notare che non stiamo parlando di una piccola denominazione, almeno sul piano produttivo, visto che ogni anno sfoggia mediamente 15 milioni di bottiglie commercializzate, provenienti da una superficie vitata di ben 3.000 ettari. Va detto però che una discreta fetta della produzione proviene da Cardeto, cantina sociale che conta su ben 300 soci conferitori.
Purtroppo però, la strada più comune per questa tipologia di vino sono gli scaffali dei supermercati, eccezion fatta per alcune aziende di spicco, e questo non dà certo la giusta credibilità alla denominazione. Oggi appare chiaro, credo allo stesso presidente del consorzio, che bisogna lavorare per ricuperare almeno in parte gli attuali freni al prestigio dell’Orvieto, come il fatto che ben il 60% viene imbottigliato fuori zona e che l’ago della bilancia pende ancora troppo dal lato delle cantine sociali.
La degustazione
Dei produttori di Orvieto Doc iscritti al Consorzio erano presenti 10 aziende, mancavano, mi sembra giusto dirlo, La Carraia, Monrubio, Castello di Corbara, Colli Amerini, Podere Vaglie, Tenuta di Freddano, Poggio del Lupo e Tordimaro.
Le impressioni generali, seppur positive, mi hanno lasciato alquanto perplesso sotto alcuni aspetti, primo fra tutti la riconoscibilità della tipologia. Infatti uno dei problemi li crea proprio il disciplinare, che prevede trebbiano toscano (procanico) e grechetto per almeno il 60%, consentendo per il restante 40% l’utilizzo di vitigni idonei alla coltivazione per la Regione Umbria e per la Provincia di Viterbo, cosa che lascia ampio spazio a percentuali variabili di sauvignon, viognier, riesling e chardonnay, oltre ovviamente a drupeggio, malvasia di Candia, verdello, vermentino e altro.
Una così elevata variabilità di composizione rende indubbiamente difficile capire i tratti caratteristici dell’Orvieto.
Unica nota che a mio avviso sembra emergere con decisione un po’ in tutti i vini è la spiccata acidità, data probabilmente dal tipo di terreni della zona, acidità che si è rivelata uno dei punti di forza di un vino che ben pochi, forse gli stessi produttori, immaginano capace di migliorare nel tempo.
Degustare, infatti, le nuove annate adesso è sicuramente prematuro, tutti i vini mi hanno dato l’impressione di chiedere tempo per equilibrarsi, come minimo fino a questo autunno.
La sensazione che gli Orvieto, se ben fatti, possano evolvere bene per anni, è stata confortata da alcuni episodi passati e confermata in quest’occasione, in cui ho degustato un sorprendente 1992 di Decugnano dei Barbi e lo straordinario Campo del Guardiano di Palazzone, versioni 2000 e 1998.
Ecco le mie preferenze di questa degustazione:
2012 (13 campioni)
Orvieto – Argillae: naso subito aperto e schietto, con note floreali di biancospino, gelsomino, frutta gialla, susina, pesca, agrumato. Bocca sapida e fresca, con un bel ritorno agrumato e riflessi minerali nel finale, forse il vino più equilibrato.
Classico Superiore Terre Vineate – Palazzone: tutto in divenire, molto citrino, ma con già un segnale chiaro di una materia elegante e suggestiva, da aspettare assolutamente.
Classico Superiore Castagnolo – Barberani: agrumi e mandorla si rincorrono su una base piacevolmente minerale, vino abbastanza pronto da farsi apprezzare già adesso.
Classico Belloro – Custodi: naso giocato tra erbe aromatiche e frutto, appena maturo, note di mandorla, poi pesca bianca, susina. In bocca è fresco, agrumato, toni di pompelmo, cedro, insomma un vino che non annoia.
Classico Villa Barbi – Decugnano dei Barbi: non so se sia per la presenza del vermentino ma qui i profumi sono particolarmente vivi, con qualche spunto che vira verso la salvia, il bosso, poi arrivano la mandorla e gli agrumi, tutte caratteristiche che ritroviamo all’assaggio e che rendono il vino piacevole anche se ancora giovanissimo.
Classico Superiore – Salviano: convincente più al palato che all’olfatto, dove appare ancora piuttosto rigido, spunti agrumati e di mandorla.
2011 (solo 2 campioni)
Classico Superiore Campo del Guardiano – Palazzone: dimostrazione lampante di come questo vino abbia bisogno di tempo per aprirsi e mostrare tutta la sua classe, al momento è ancora chiuso ma traspare la sua tradizionale finezza, al palato è già più chiaro, imperniato di note agrumate e sapide, persistente, la nota alcolica al momento è un po’ invasiva.
Classico Superiore Il Bianco – Decugnano dei Barbi: approccio olfattivo di pompelmo, mandorla e ruta, bocca sbilanciata da un’acidità che deve ancora integrarsi, ma promette bene.
2010 Muffa Nobile (due campioni)
Classico Superiore Pourriture Noble – Decugnano dei Barbi: decisamente il vino più coinvolgente di tutta la degustazione, presenta note di pesca disidratata, zafferano, leggera frutta secca, miele; al palato ha buona acidità che sorregge bene il frutto, ben fatto e convincente, persistente e per nulla stucchevole.
Classico Superiore Calcaia – Barberani: oro antico luminoso, naso di frutta candita, leggero zafferano, miele di agrumi, toni fumé, in bocca ha una dolcezza abbastanza spiccata ma ben sorretta dall’acidità, il finale è gradevole, di mandorla tostata e croccantino.
Roberto Giuliani