Viaggio sentimentale nel Vigneto Veneto (tra le fiere di Vicenza e Verona)
“Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.”
K. G.
Il viaggio di quest’anno è stato un percorso fra quei luoghi che parlano una lingua conosciuta, sonorità famigliari e care. Nessuna esotica isola, o paesini a cavallo dei Pirenei animati da pochi volti segnati dal caldo e dalla vigna. Anche se le divagazioni ci sono state…
Valpolicella, Soave, Montello, Piave (e qualche fuga, appunto, oltre Adige e oltre Po): questa sarebbe la successione geografica dei luoghi, visitati attraverso i vini, ma la successione seguirà la geografia solo in parte, lasciandosi guidare dal desiderio di raccontare una terra attraverso uno dei suoi frutti più pregiati.
Tutto cominciò (per me) con la garganega. E allora cosa di meglio di un Soave? I vigneti seguono le gobbe a tratti boscose, disegnate dal passare dei secoli sui suoli basaltici (vulcanici) e argillosi da una parte e l’altra dell’Alpone.
Nella zona più alta del comune di Soave, a Castelcerino, Filippi coltiva 16 ettari di vecchie pergole di garganega e trebbiano di Soave seguendo il metodo biologico, e rappresentandone uno dei baluardi della zona. Il loro Vigna delle Bra, un vigneto incastonato con altri francobolli di vigna, nel bosco, è un piccolo gioiello d’eleganza di uno dei bianchi più espressivi di questa regione. Una piccola verticale ce lo fa appena conoscere: 2010 fruttato, lento, lungo; 2008 esuberante, esplosivo, d’impatto il migliore, molto aperto ed espressivo; il 2006 sembra una sintesi dei due, e forse li unisce armonicamente in una tensione sostanziosa e coinvolgente.
La vendemmia tardiva poi, aggiunge una parola disorientante a questo breve racconto. Tre mesi di macerazione, 4 anni sui propri lieviti, in affinamento. È un 2007: il dorato carico, la complessità dei profumi tra il frutto passito, la spezia e quasi un ricordo di campagna estiva assolata (fiori e fieno), trovano le carte rimescolate quando il gusto non è quello di un Recioto che già ci si prepara ad accogliere, ma di un vino austero, maturato grazie al respiro delle stagioni.
Poi, appena un passo più in là, la Valpolicella. La scaglia rossa, i ciliegi in fiore che precedono il germogliamento della vite, le marogne, le argille calcaree. Anche qui le pergole compongono un paesaggio unico, ma più ordinato, nelle quattro valli storiche che si indorano in autunno. Un Amarone per ciascuna (no, quasi).
A Mezzane, in Valpolicella allargata, Corte Sant’Alda coltiva più di trenta ettari tra il bosco, gli ulivi, le ciliegie, le pergole per il Soave e i filari di Corvina. Il primo è un riferimento tra i bianchi veneti: pulito, fresco, vibrante e racchiuso in un frutto che si concede piano, a tratti mescolato da un leggero boisé. E l’Amarone 2009 invece è un esempio di bevibilità perfetto: frutto maturo e dolce, un ricordo di rosa, e poi la balsamicità che rimane a lungo, dopo aver gustato il vino.
A Marano, continuando verso ovest, Ca’ la Bionda, oltre ai precisi e piacevoli base, mi fa ritrovare, purtroppo nella confusione della fiera, il Vigneti di Ravazzol 2008: all’epoca (qui l’articolo) era «rubino molto denso. Profondo e balsamico nei profumi, in bocca si comporta molto bene, con acidità e alcol integrati, zuccheri bassi, anche se si avverte una certa morbidezza, e il tannino vivo e non completamente domato.
Vibrante e intrigante. Chiude su note scure di erbe aromatiche, legno, radici. Il rapporto con l’ossigeno si avverte gestito molto bene.» Il tempo, a certi vini, fa solo che bene, e probabilmente la 2008, nella Valpolicella, è stata una bella annata davvero.
Zýmē significa lievito, in greco antico. La foglia di vite con un pentagono inscritto i cinque elementi necessari per fare vino: Uomo – Vite – Terra – Sole – Acqua. Celestino Gaspari ha scelto San Pietro in Cariano – un altro passo verso ovest – per la sua azienda, incastonata in una vecchia cava di arenaria, sotto la collina. Ma parlare dell’ottimo Amarone (influenze quintarelliane? …ben vengano!), o della conosciuta (grazie a loro, in gran parte) oseleta in purezza, Oz, sarebbe scontato. Ci sono, invece, due esemplari di creatività enologica che si chiamano Kairos e Harlequin. Sono vini che fanno riflettere. Ti accompagnano nei vigneti della Valpolicella, e ti invitano a guardare. Chi lavora su pergola, chi su filare. Chi lavora la terra, chi la diserba. Chi pianta solo una varietà, chi quindici varietà da mettere tutte assieme (e chi magari vorrebbe comprare il vino già fatto e tagliarlo con un po’ di corvina appassita). Fanno riflettere sul modo di raccontare una terra, senza dirti da che parte stanno i buoni o i cattivi.
Kairos è il fratello minore dell’Harlequin. Nascono dalla stessa idea però, il secondo qualche anno prima, nel ’99. L’Arlecchino, nonostante sia vestito di colori, pezze e stoffe di volta in volta diverse, è sempre riconoscibile, sempre se stesso. E così l’Arlecchino enologico si compone di anno in anno di uve diverse, in base all’annata (che quando non è ai livelli desiderati fa condurre le uve nel Kairos).
Difficile raccontarne la perfezione, la complessità; i frutti che si susseguono impregnati dalla spezia e dal balsamico profondo, la marmellata: e cosa ci si aspetterebbe da un Amarone (considerato l’apice espressivo delle valli)? “L’occhio, l’orecchio, il naso ti raccontano tanto del vino, se lo sai ascoltare“: come per l’Harlequin, le uve vengono raccolte in base alla maturazione varietale di ogni singolo vitigno e poste a riposare in plateaux, limitando però l’appassimento al solo tempo di concludere l’intera vendemmia. Vinificato in contenitori inox (il Kairos; cemento per il fratello), gli interventi limitati alla movimentazione manuale della vinaccia, senza l’uso di lieviti selezionati. Dall’ammostamento alla svinatura trascorrono 20/25 giorni. Dopo poco più di una settimana dalla svinatura, entra in barrique di legni francesi dove trascorre 24 mesi (il Kairos; 6 mesi in più l’Harlequin) senza alcun travaso.
Complimenti, caro Attore, per la bravura nell’interpretare così bene il canovaccio di una terra perfetta.
Però l’Adige è tempo di lasciarlo. E andare verso il Piave (o, prima, vicino a dove correva un tempo).
Il Montello racchiude ancora un’identità di Veneto forte, nonostante le voglie cementificatrici, tra capannoni (vuoti o invenduti, vista la difficoltà delle piccole imprese) e strade sempre più insufficienti (ma la soluzione è sempre quella di aumentare l’asfalto, mai di dirottare il traffico).
Loredan Gasparini è uno “stargate”: dai rossi del Montello ai bianchi del Collio friulano, quelli primordiali dell’Istria, e poi profumo di Francia, tra Champagne e Cognac, quasi a ritrovare un sapore degli stessi rossi bordolesi che sono l’anima rossa del Montello (e qui forse danno il meglio di sé, in Veneto). Il viaggio sarebbe lungo, a partire da Venegazzù: magari un’altra volta, però.
Argilla rossa, acque fresche, rive alberate e ville palladiane. Partire dal Prosecco è quasi d’obbligo, ma le cose non vanno come ci si aspetta. L’eleganza dei profumi fruttati e floreali, la freschezza e la sapidità del gusto sono presentate da una voce sincera, di un contadino ben vestito, ma che non ha paura di mostrare le mani segnate dal lavoro in vigna. La fermentazione spontanea di questa Cuvée Indigene (brut, millesimato 2011), dalla Vigna Belvedere (1969), durata per quasi quattro mesi, fa ritrovare la spontaneità (nemmeno a dirlo) del prosecco – che conserva al gusto l’eredità di un processo naturale – troppo spesso sbarbato, in giacca e cravatta, lontano dalla terra in cui nasce.
Vent’anni di meno, ha la vigna di Manzoni bianco. Continuo a meravigliarmi della perfezione di questa creatura del prof. Manzoni. Dorato brillante, frutto maturo, estivo, pesca e fiori di acacia. Avvolgente nella sua sostanza, viva grazie alla freschezza. Splendido bere!
D’obbligo, nella casa del Capo di Stato, la rassegna dei rossi. Cabernet Sauvignon 2009, elegante, pulito, piacevole nella sua tipicità; Falconera 2009, Merlot in prevalenza, condito da un po’ di Malbech, dal vigneto vicino Villa Loredan, esprime quella “veneticità” di frutto rosso e spezia, setoso al gusto (eredità Serenissime), che si ritrovano, in maniera più intensa e concentrata nel Rosso della Casa (2008 appena imbottigliato), e nel Capo di Stato.
Si somigliano, pure nel differente timbro: più intenso il Capo di Stato, già nel colore più brillante e profondo, nei profumi maturi ed eleganti di frutto di bosco e ciliegia, con tocchi balsamici, leggermente meno vivaci, più profondi che nel Rosso (che forse avrà bisogno di pazientare in bottiglia ancora un po’). Il vigneto delle 100 piante sta là, dal ’46, sulle terre rosse e ferrose, in attesa del germogliamento.
Scavallando il Montello, e tuffandosi nel Piave, l’acqua porterà, tra i ciottoli del fiume poco profondo, a passare le Grave di Papadopoli, dove si sdoppia e poco dopo vicino a San Polo, di Piave ovviamente, dove si ritrova. A Casa Belfi, Maurizio Donadi conduce quasi 9 ettari di vigna, dove le piante affondano le radici fra i sassi del vecchio letto del fiume. I metodi sono certificati biologici da tempo, e lentamente arriverà anche la biodinamica. I vini (tre) sono a Residuo Zero. Il Colfòndo, la vecchia maniera di rifermentare in bottiglia senza sboccatura, del prosecco in particolar modo, ma riconoscibile anche in altre zone, ritrova nella freschezza e nella ricchezza dovuta alla lunga (interminabile, fino a che non si beve) sosta sui lieviti, i propri elementi distintivi.
Il Bianco (70% Chardonnay e 30% Manzoni) è ispirato ai grandi bianchi affinati sulle fecce, ma declinato dalla minerale leggerezza delle Grave. Il Rosso cammina nello stesso solco di naturalità e rispetto, con prevalenza di nuovo dell’internazionale sull’autoctono (70% Cabernet, 30% Raboso Piave), di grande freschezza e bevibilità. Con un interrogativo sul potenziale d’invecchiamento: questi 2011 sono stati i primi ad andare in bottiglia (il Colfòndo no, sono molti più anni), e non rimane che tenerne d’occhio l’evoluzione. Certo che le premesse…
Le voci riportate per il Montello e parte della Valpolicella sono state incontrate a Vinitaly. Piave e Soave (e rimanente Valpolicella) a VinNatur, nella sua decima edizione. Entrambe dei riferimenti del mondo di cui sono portavoce, ed entrambe ormai vittima di ondate di visitatori che rendono Verona e Villa Favorita (a Monticello di Fara) quasi inaccessibili. Però il fascino di entrambe rimane, e forse il sacrificio vale.
Voci spontanee, comunque, rispettose in vigna e in cantina, da cui escono vini puliti ed eleganti. Eppure c’è chi dice che le fermentazioni spontanee fanno solo vini cattivi, omologati (?), e che del bio… chi se ne frega! Ci vorrà del tempo.
«Fino a che l’uomo sarà partecipe della natura, traendo da essa il suo sostentamento, egli sarà interessato alla fertilità del suolo sia in qualità di produttore sia di consumatore. E lo è in modo particolare l’agricoltore, poiché il prodotto della terra costituisce la fonte del suo sostentamento; la lavorazione di essa è la sua professione. […] “Civiltà” significa in primo luogo la lavorazione della terra, ma nel senso più ampio della parola anche la produzione dello spirito umano. Un popolo che si trova a un “grado di civiltà” più elevato possiede anche campi e orti ben coltivati.»
Ehrenfried Pfeiffer: L’autentico spirito contadino quale creatore di una nuova civiltà. In La fertilità della Terra, 1997.
Vorrei… che non si vedessero più su queste terre le strisce ingiallite dal diserbante, tristi nell’aprile che torna a rendere folti i prati, il grano, i filari. E che si tornasse, noi viticoltori e appassionati del liquido odoroso, ad un rispetto profondo per la Terra, proprio quella che ci rende unici e diversi tra di noi, quella che ci sostiene. Proprio la viticoltura, un’agricoltura privilegiata e unica. Senza divieti, ma solo con il buon senso, perché il guadagno più grande da conseguire a fine campagna sia quello della fertilità della propria terra.
Andrea Fasolo