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Cibo e Cultura

La giacchetta di nonno Aldino

ConiglioC’erano mattine in cui si avvertiva, da subito, un’aria tesa, un’intenzione sofferta, anche io, nonostante la mia tenera età, notavo le differenze nei gesti di mio nonno, mentre indossava la giacchetta da campagna, come ogni giorno: la sua espressione bonaria, un po’ buffa anche, si faceva severa, accigliata. Così mi avviavo qualche passo dietro lui, tacendo ogni domanda: si andava dritti e zitti, senza indugi, verso la recinzione dei conigli.
Man mano che ci avvicinavamo, la mia distanza aumentava, fino a rimanere notevolmente indietro, ma sufficientemente vicina per guardare ciò che succedeva.
Mio nonno stava, qualche momento, immobile, religiosamente curvo, poi inchinandosi ulteriormente, accarezzava qualche coniglio e con mal celata esitazione, di quelli ne sceglieva uno, che sollevato, differentemente dal solito, si dibatteva violentemente, senza sosta.
Improvvisamente emetteva un lamento isterico, acuto, che perforava la memoria, un grido lungo solo qualche istante, perché nonno aveva, già, assestato un colpo secco, preciso ed esperto, con la mano.
Di nuovo silenzio.

Conglio preparatoCol fil di ferro, appendeva per le zampe posteriori, il coniglio e, con brevi gesti, sapienti, lo scuoiava e ripuliva dalle interiora, che cadevano a terra; io ricordo il fumo che producevano e scambiavo quella dispersione di calore che s’innalzava, con la salita dell’anima verso il cielo.
In tutto questo, ciò che più mi colpiva non era la scena “cruda”, che avevo già appreso, dalle parole degli anziani, essere compiuta quando necessaria al nostro sostentamento (questo era, allora, l’insegnamento contadino), ma gli occhi grati e l’atteggiamento rispettoso verso quell’animale sacrificato, che aveva lui, il nonno.
Nulla anche degli scarti, veniva buttato: dalla pelle essiccata e cosparsa di calce, si ricavavano delle manopole ripara-mani per andare in bicicletta, oppure veniva venduta al pollivendolo che passava a ritirarla ( per poi consegnarla ai conciatori di pelli), mentre le interiora diventavano cibo per altri animali.
Il coniglio era, poi, consegnato alle donne di casa e messo a frollare nel congelatore, o sepolto sotto la neve, per qualche giorno.
Zia Elvira era esperta (ed insuperabile) nel cucinarlo alla cacciatora:
tagliato a pezzi, dentro ad un recipiente, lo cospargeva di “counsa” ( un trito di sale grosso, rosmarino ed aglio) e bagnava col vino, lasciandolo per qualche ora.
Coniglio alla cacciatoraPassato questo tempo in un tegame soffriggeva le verdure (cipolla, carota, sedano) tritate grossolanamente, poi aggiungeva i pezzi del coniglio che rosolava a fuoco vivo, un bicchiere di vino bianco e infine i pomodori pelati.
La zia lasciava cuocere fino a quando la carne cominciava a staccare dalle ossa e il sugo s’infittiva.
Di solito, il giorno in cui cucinava il coniglio, non era necessario avvisare all’ora di pranzo, il profumo era così invitante che radunava a tavola tutti con anticipo.

Naturalmente ai piccoli di casa (mio fratello ed io) venivano riservate le parti con più carne, che io tenevo, imitando gli adulti, con le mani…
Non mancavano, mai, gli elogi alla cuoca e qualche parola anche per quell’animale, come a rinnovare il ringraziamento.
Questo è uno degli insegnamenti che, nonno Aldino, mi ha lasciato: il rispetto di ogni forma di vita, che non deve venire mai meno, di non lasciare che lo spreco subentri e che la sacralità di quel sacrificio, compiuto per la sopravvivenza venga profanata, disconosciuta, mercificata, da una superbia che non deve appartenere a chi ama la terra e vive di ciò che, la natura, dona.

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