Giro un tappo tra le mani. Ormai sedici vendemmie son trascorse da quando è stato costretto nel collo di quella bottiglia. Poi alzo gli occhi e mi guardo intorno. È già passata una settimana? È corsa via veloce, anche se ripensando a tutto quel che abbiamo vissuto, sembra sia durata un mese. Una settimana fa, domenica scorsa, ero arrivato mentre il sole tramontava, dopo dieci ore di viaggio. Era una domenica sera calda e piena di sole, ma resa piacevole dalla brezza che prima, lungo la strada per Bari, era un forte vento che spazzava l’asfalto. Mi aveva lasciato senza parole quell’arsura delle erbe secche, della terra sassosa sotto gli ulivi e alcune piccole viti ad alberello; quell’arsura di campi di paglia in fiamme, a portare fuori il colore scuro di quella terra, dopo Foggia. L’arrivo al Relais La Fontanina, a Ceglie Messapica, è a dir poco travagliato: sbaglio uscita dalla tangenziale, sbaglio la strada in uscita da Ostuni. E mi ritrovo nel nulla. O meglio: ci sono campi infiniti di ulivi, muretti a secco (peraltro molto belli) qualche trullo o casetta incastonati in quel verde argenteo. Ma alla fine ce la faccio! La sera andiamo alla presentazione della XVIII edizione di Rosati in Terra di Rosati, al villaggio Rosamarina, poco fuori Ostuni. Mentre alcuni assaggiano qualche vino, inizia l’intervento di Carlo Macchi (Winesurf), nostra guida in questa settimana, a cui seguono Pasquale Porcelli, giornalista autoctono, e Francesco Nacci, patron del Relais La Fontanina e una delle figure più importanti delle associazioni “Ceglie è” (nata diversi anni fa, racchiude in sé ristoratori, produttori, masserie del territorio) e “Buona Puglia”, oltre che commissario dell’APT. Si parla del rosato, ovviamente. Del rosato che per il diciottesimo anno trova in questa manifestazione una finestra sull’Italia in cui è protagonista assoluto. La qualità negli ultimi tempi è migliorata molto, si dice. Il rosato del contadino, il vino da tutto pasto, è diventato un prodotto migliore. A Maurizio Gily (Millevigne), che parla delle modalità in cui si può produrre (con Pasquale che completa l’intervento illustrandoci tra quali vitigni si può scegliere), segue Richard Baudains, di Decanter, che ci descrive la concezione del rosato all’estero: un vino ancora indefinito, arduo da inquadrare in uno schema che vede possibili solo due vini – rosso o bianco (con, al massimo, spumanti/frizzanti e dolci) – e che per questo non lo si sa abbinare alla tavola. Abbinamento che, qualcuno affermerà poi, in realtà rende il rosato un vino “democristiano”: sta bene un po’ con tutto. Degustazione casuale di rosati per entrare nel tema, per allenarci. E una zuppa rustica, contadina, maledettamente lontana da certi piatti eterei di alta cucina che ci hanno fatto capire molte cose su Graziano Lomonte, chef de La Fontanina, che per più di una volta ci stupirà. Una cosa alla volta.
25 luglio Lunedì mattina iniziamo il tour vero e proprio: Ostuni. La città bianca, o la città nuova, se si vuole capire l’etimologia del nome. Angela, la nostra guida imperturbabile nonostante fossimo peggio di una scolaresca delle superiori, ci conduce su e giù per le stradine, fra le case imbiancate a calce, rilucenti sotto quel sole limpido. Vi consiglio solo di scoprire questo bel paesino, e di fermarvi nella piccola bottega di Tonino o marenaro, lasciandovi prendere dai suoi discorsi pieni di saggezza. Dopo il pomeriggio di relax, abbiamo degustato tutti i venti rosati selezionati a Vinitaly a partire da circa 40 aziende. All’epoca furono i migliori, anche se a detta di alcuni sono peggiorati, o profondamente cambiati; e non erano solo bottiglie sfortunate (che purtroppo ci sono state: colpa di alcuni tappi). Il perché ve lo dirò alla fine. Il primo incontro (serio) con la cucina pugliese è stato Il ritrovo degli amici, a Martina Franca, dove Anna Ancona ci ha fatto passare una bella serata. Antipasto con capocollo, mozzarella, burrata e ricotta, buonissime e molto fresche. Uno sformatino di melanzane profumato e delizioso, seguito da fagiolini tinti (una delizia) e purea di fave. Ancora gli “strascinet” con capocollo e pecorino (un’orecchietta trascinata sino a spezzarla, diversa solo nel formato), delle costine d’agnello con patate (una chicca) e per (quasi) chiudere in bellezza la torta “bocconotto“, dal tipico dolce in formato large. Chiudiamo davvero con uno sformato di cioccolato ripieno di salsa all’arancia: soave e splendido. Peccato chiudesse una performance così leggera! I vini che hanno accompagnato la serata son stati due: il Selvarossa 2007 di Cantine Due Palme, (negroamaro e malvasia nera) che ho trovato coperto da un rovere che lo voleva ingrossare inutilmente. Forse la materia buona c’era, ma non sopportava quella voglia di sovrastruttura. Ho apprezzato invece il Primitivo 2007 di Poderi Angelini: appena si libera dall’alcol (effettivamente non poco: 15,5°) svela prima profumi fruttati maturi e dolci, poi una balsamicità interessante e mutevole. In bocca il calore non infastidisce, anzi supporta le altre componenti e si abbina bene ai piatti. Andiamo a riposare, va’, che domani si comincia a fare sul serio.
26 luglio E infatti si inizia con la prima azienda, Azienda Monaci. Di proprietà di una figura storica per il vino pugliese come Severino Garofano (“il principe del Salento”, lo definì Luciano Pignataro), anche se gli sta ormai subentrando il figlio Stefano, che ci ha guidato per la cantina prima, e in vigna poi, un attimo prima che un acquazzone ci tenesse compagnia durante la degustazione, l’azienda è a Copertino, in provincia di Lecce. Conta su 16 ha di proprietà, a cui si andranno ad aggiungere altri di prossimo reimpianto, e altri 20 ancora di storici conferitori. I Garofano, di origini irpine (cosa che li ha portati a sperimentare l’aglianico) hanno rilevato nel 1995 la vecchia azienda che era arrivata a contare in passato 180 ha di vigneti. Attualmente la loro produzione si concentra maggiormente sul negroamaro, integrata come detto da aglianico e a alcuni alberelli di malvasia nera, a cui si affiancano altri, più o meno autoctoni: dal nero di Troia al montepulciano, fino a malvasia bianca e chardonnay che finiscono nei bianchi. Dopo averci mostrato i fermentini in cemento degli anni ’40, come il resto della struttura, dove si vinificano principalmente i rossi (con rimontaggi manuali e macerazioni che vanno dai 6 agli 11 giorni) siamo usciti in vigna, passando per le cisterne di acciaio, dove si vinificano i bianchi (previa pressatura e abbassamento della temperatura) e il rosato, ottenuto per alzata del cappello, dopo circa un giorno dall’ammostamento, anch’esso fermentato con temperatura controllata, inoculo dei lieviti, e successivamente stabilizzato a freddo nelle stesse vasche di acciaio dove fermenta. Domanda: quante…? No, vi tengo sulle spine, ve la dico al termine qual è questa domanda, diventata un rito. Dicevo della vigna, appunto. Nei trenta ettari che circondano la cantina, non abbiamo visto alberelli, ma alcuni filari di sangiovese e negroamaro (entrambi stavano ad un buon stadio di invaiatura). Ovviamente, non ho potuto fare a meno di infilare una mano nel terreno: rosso, sciolto, asciutto. Mi ha sorpreso. Scappati in azienda mentre cadevano le prime gocce di pioggia, siamo saliti per la degustazione: tre rosati, o meglio: tre annate di Girofle più altri tre vini dell’azienda leccese. Girofle 2007 13°. Colore ambrato, naso espressivo, evoluto su note di tostato e fiori secchi, chiodi di garofano. Grande persistenza e sapidità, molto intenso e vivo. Lontano dai tipici rosati d’annata, lontano da certi vini-frutto, senz’altro una bella e interessante interpretazione. Girofle 2009 13°. Colore decisamente più brillante, rosa. Al naso ritrovo una nota floreale fresca, anche se poi ricade in un naso complessivamente poco pulito. Il vino vive una fase cupa, sia al naso che in bocca (dove dimostra comunque grande sapidità e freschezza). Potrebbe essere qualcosa di transitorio, che lascerà spazio alla sostanza presente, o potrebbe non riaversi più. Girofle 2010 12,5°. Colore brillante, rosa con riflessi rubino. Naso espressivo, pulito, di un frutto dolce intrigante. In bocca dimostra grande vivacità, con una buona sapidità che gli conferisce piacevolezza. Forse manca di consistenza, ma potrebbe essere un limite dell’annata.
Il rosato sa invecchiare, insomma! Continuano gli assaggi poi con un Eloquenzia 2007 (Copertino DOC, negroamaro in purezza, da alberelli), brillante e maturo nel calice, con profumi fruttati e leggermente speziati con accenni di cacao, di grande bevibilità, semplice e vivace; a cui è seguito il Simpotica 2006 (Salento IGT con negroamaro in prevalenza, accompagnato da altre uve locali) un vino che, visto l’anno di barrique, esprime toni decisamente più maturi, importanti, segnati dal legno. Ha chiuso le danze il Le Braci 2003, una vendemmia tardiva (ottobre inoltrato) di negroamaro che mi ha particolarmente colpito per i suoi profumi balsamici, profondi, il colore impenetrabile, e in fin dei conti un’alcolicità non eccessiva, nei suoi 14,5 gradi. Breve spostamento in autobus ed eccoci alla Cantina Copertinum, cooperativa sociale che festeggia quest’anno i 76 anni e che riunisce 350 soci per un totale di circa 400 ha. Domanda di rito? Ovviamente sì! Qui la degustazione ci ha proposto prima il Cigliano, un Salento IGT che è stato uno dei primi Chardonnay di Puglia, seguito dallo Spinello dei Falconi, il rosato da negroamaro in purezza, di grande freschezza, piacevolezza, e dominato da profumi di frutta rossa. Sono seguiti i rossi: il Copertino 2007, che esprimeva un rovere non perfettamente integrato, che rimaneva sullo sfondo mentre emergeva il frutto. Semplice e se vogliamo un po’ rustico, ma per questo forse molto apprezzabile quando non si vogliano vini troppo importanti, da pensare. Ho apprezzato molto invece la Riserva 2004 che profumava di cacao e frutti di bosco e distinta da equilibrio ed eleganza nelle sue componenti. Altro spostamento, questa volta verso la città di Lecce. Pranzo da “Alle quattro spezierie“, all’interno dell’hotel Risorgimento Resort: una cucina moderna, che si lega al territorio grazie all’utilizzo delle materie prime eccezionali che la Puglia sa offrire. Nel pomeriggio abbiamo visitato il centro storico di Lecce, la Firenze del Barocco, ricchissimo sotto il profilo artistico, dove abbiamo ritrovato una statua di Sant’Oronzo (che sta sempre ad aspettare quei due caffè ordinati secoli fa! – ironia di qualcuno sul gesto benedicente in cui viene raffigurato). Il pomeriggio è volato via così, tra un palazzo storico e una cattedrale.
Qualche ora di relax tra piscina e camera, una doccia e di corsa ad Ostuni. C’è, nascosto in una viuzza, un ristorante che sembra fuori dal tempo, lontano da un mondo a cui siamo assuefatti. Si chiama Cielo, e fa parte del complesso del Relais la Sommità. La cena era prevista all’esterno, in un giardinetto interno fra alberi di limoni e aranci, che si raggiunge scendendo alcuni gradini. Il maltempo che ha accompagnato quei primi giorni ci ha costretti ad un cambio di programma. Però non potevamo non sbirciare al di fuori di quella sala: scesi nel giardinetto, e risaliti alcuni ripidi e stretti scalini, ci si trova in una terrazzetta che ospita alcuni tavoli. Immaginare una serata romantica a due in uno di quei tavoli, nella semioscurità di una candela, con la brezza che sale dal mare a vista, laggiù in fondo, è immediato, e forse scontato. Ma meriterebbe una prova! Acquasale di mare tra tradizione e innovazione (forse molta innovazione, ma non è necessariamente un male), calamaretto “Spillo” farcito con broccoli e canestrato, tortelli di pasta fresca con cime di cola su un guazzetto di gamberi e totanetti (particolari), branzino in crosta di frisella d’orzo, con ristretto di vongole, pomodoro e fagioli tinti (ancora loro, buonissimi, come piacevole anche il branzino), pre-dessert in veste di una cassatina ricoperta da una cialda di menta e cioccolata, su un letto di marmellata di fichi (memorabile) e a chiudere un pasticciotto leccese con sorbetto alle mandorle e aria d’amarene (modern style anche questo; quando, però, hai la sfortuna di succedere ad un grande pre-dessert, per quanto tu sia bravo…). Possiamo anche andare a dormire felici e soddisfatti. Non prima però, uscendo dal locale, e guardando in un vicolo a sinistra, di rimanere incantati da una vista indimenticabile: quel vicolo finiva forse in uno spiazzo, e da lì si vedeva il mare. Fuori da una porta, alcuni cuscini sul selciato, qualche luce, forse delle candele, e due giovani stesi, a guardare quel panorama. Beh, li ho invidiati.
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