Dopo aver visto in che maniera industriosa la cultura contadina preservava la carne, conservandola nello strutto[vedi articolo] in regioni umide come la Lomellina, passiamo ora a scoprire origini, storia e antropologia delle conserve dedicate alla frutta, con un occhio particolare alla mostarda, la cui evoluzione, nell’ambito dell’alimentazione, è veramente interessante. Con l’arrivo dello zucchero americano sul mercato europeo, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, iniziano ad essere di moda, tra i nobili, le confetture, Luigi XIII – per fare un esempio – ne era un appassionato ideatore. Diventa così facile da intuire perché si possa nettamente distinguere tra conserve dei poveri, risultato di nessuna o pochissima spesa, e quelle dei ricchi, la cui materia prima è commestibile solo mediante l’apporto di altre materie prime notevolmente costose quanto lo era lo zucchero. Appartengono al primo gruppo le conserve ottenibili grazie al ricorso ai semplici elementi naturali; sole, vento o un camino acceso per altri scopi. Al secondo quelle che hanno alla base il prezioso zucchero, tanto da rendere nobile ogni attività pratica a esso collegata (ed ecco spiegato il perché non c’è da stupirsi che Luigi XIII si cimentasse nel fare e creare marmellate). E’ solo dal 1600 in poi che l’attività di preparare marmellate e composte si “proletarizza” dando avvio, a livello europeo, a una vera e propria diffusione e creazione di ricette sulla preparazione di frutta candita, sciroppi, liquori, gelatine, composte e marmellate. Il primato dell’arte di conservare la frutta nello zucchero e nello sciroppo spetta all’Europa settentrionale, dove fu inventata la leggendaria marmellata d’arancio in onore di Caterina D’Aragona. La storia ci narra di una Caterina ammalata di malinconia per la Spagna e le sue solari arance. Falliti i tentativi di farle arrivare fresche via nave, si inventò un modo per preservarle durante tutto il loro viaggio: nacque così la “marmelada“, definizione che da allora ha strettamente identificato quella d’arancio, tanto che le direttive CEE, recepite anche dal nostro paese, obbligano a etichettare le composte di altri frutti sotto il nome di “confettura” (sebbene l’etimo di marmelo, in Portogallo, intendesse il Cotogno, materia prima, anticamente, di questo genere di conserve).
Il passo successivo, che dallo zucchero portò allo sciroppo, è stato il mosto. Finita la vendemmia, tutto il mosto in eccedenza veniva fatto bollire per una decina di minuti in maniera tale da bloccare la fermentazione (è d’uopo a questo punto sottolineare la differenza tra mosto e vin cotto, troppo spesso fraintesa: il vin cotto è bollito dopo la trasformazione degli zuccheri in alcool). Una volta raffreddato venivano aggiunte delle ceneri di sementi per correggerne l’acidità ed eliminare le eventuali sostanze in grado di far ripartire una nuova fermentazione. A questo punto veniva fatto bollire nuovamente fintanto che il suo volume totale non si riduceva a due terzi, il restante terzo – di cui veniva esaltata la potenza zuccherina – prendeva il nome di Sapa. Fu proprio immergendo pezzi di frutta nella sapa che si inventò la ricetta della mostarda. L’aggiunta di senape, che troviamo già in Columella e in uso durante tutto il Medioevo, rende la ricetta più attuale ma perde l’utilizzo del mosto. Rimane comunque il nome di Mostarda anche senza la presenza di sapa e mosto, varie sono gli esempi: nel modenese, a Carpi precisamente, la mostarda è sia quella a base di senape che quella a base di mosto. Nel Mantovano lascia il mosto e usa le mele. Nel Veneto utilizza una purea di mele cotogne e altra frutta. Nelle Langhe e nel Piemonte la mostarda si serve del mosto di uva Barbera, e poi vi si immergono zucche, mele cotogne, noci e nocciole tostate. In genere si distingue dalle altre grazie alla presenza degli acini dell’uva e per un nome diverso “cugnà” (cotognata), che da quello che possiamo aver fin qui dedotto indica la presenza delle mele cotogne, unico ingrediente trasversale a ogni ricetta nazionale alla base della mostarda. In Abruzzo la troviamo sotto il nome di “codognà” e “cavciun“, in Molise “acrodoce antico” con noci, mandorle, uvetta, pinoli, arancia e cannella. In Sicilia è detta “mustu mutu” perché ha perso la possibilità di fermentare a causa della bollitura, quindi quello che si usa è un mosto muto in quanto morto (bella la simbologia di vitalità assegnata a questo alimento).
Altro discorso vale per la sapa, usata in passato per correggere i vini asprigni e fino a qualche decennio fa, come dolcificante e condimento alla base di molti piatti regionali. Anticamente era utilizzata in accoppiata con l’aceto, i romani vi conservavano olive, prugne, cornioli, sorbe e ortaggi di ogni genere. Da una ricetta a base di mele cotogne, sorbe e melograni si sottendeva una salsa astringente, utilizzata per curare le affezioni intestinali che Columella chiama dia oporas, progenitore di quello che in tutto il nord Italia è conosciuto come savoùr o sapore, giusto abbinamento a carni lesse, arrosti e cacciagione, un uso simile alla mostarda, dalla quale si distingue per la più elevata percentuale di mosto. Columella consigliava di utilizzare tutti i tipi di frutta di piccole dimensioni, rustiche e selvatiche, di sapore forte e deciso, a volte asprigne, altre volte immangiabili per l’alto contenuto di tannini (come melette, perette, prugne selvatiche, nespole, sorbe). Una scelta che più tardi diventerà la regola del mondo contadino, che utilizzerà lo stesso tipo di frutta, suggerito dall’agronomo romano, nella preparazione di mostarde a base di mosto cotto, perché di scarso valore commerciale e facilmente conservabili. In un’economia di sussistenza come quella contadina si assicurava così un uso razionale delle risorse, senza escludere poi una cultura del recupero dei frutti in pericolo di andare a male. Quando a cavallo delle due guerre mondiali lo zucchero scarseggia al pari degli altri dolcificanti, questo tipo di frutta finirà, insieme agli ortaggi, negli orci ripieni di aceto, fornendo l’ingrediente base per le salse verdi che accompagnano i lessi, soprattutto di carni suine. Un residuo di questa usanza sono le rare ricette di frutta sott’aceto presenti in alcune regioni italiane, in special modo in Sardegna, dove ancora oggi pere, ciliege, uva e altri piccoli frutti a cui si aggiunge un po’ di zucchero, cannella, bucce d’arancia e limone accompagnano le carne stufate di cinghiale.
Ma torniamo alla storia della nostra mostarda, che cambia sapore e ingredienti a secondo del mutare delle abitudini alimentari. Se infatti in epoca romana la dieta, costituita in prevalenza da legumi e cereali, non costituiva problemi digestivi con il passaggio all’alimentazione medievale, ricca di proteine animali, le cose cambiano e l’aggiunta di senape diventa quasi una necessità, proprio in virtù delle capacità digestive dei semi di questa pianta. Il sapore forte della senape e dell’aceto verranno mitigati dalla presenza del mosto. Ad arricchire la preparazione saranno poi le spezie e, dopo la scoperta dell’America, il peperoncino. Più si va avanti nel tempo più si aggiungono ingredienti nobili quali l’acqua di fiori d’arancio, di rose, di violette e la vaniglia. Chiara indicazione del fatto che la mostarda esce fuori da quel regime di sussistenza proprio del mondo contadino per entrare in quello aristocratico dei maestri salsieri. Ma il perfezionamento, l’arricchimento e la sperimentazione con erbe aromatiche, fornite dall’orto, nasceva più spesso tra le mura dei conventi o nelle povere cucine dei piccoli nuclei familiari dei villaggi. Qui l’uso delle senape non scompare, e anzi è rafforzato dalle credenze popolari che utilizzano i semi di senape, sparsi davanti l’uscio, come protezione per la casa e i suoi abitanti. La presenza della senape e dell’aceto nella mostarda si accentueranno in quelle regioni dove si afferma il lesso come piatto tipico, per rendere più digeribili i grassi e rinforzare il gusto spento delle carni che nella cottura hanno perso buona parte della loro sapidità. La mostarda che conosciamo oggi, quella di Cremona, dove gli ingredienti – tutti in parti uguali – si amalgamano in un liquido dolce unificante, che ricorda il miele, aromatizzato con la senape e l’aceto, non prende avvio dal mosto. Questo non è presente neppure nella mostarda mantovana e veneta. E’ rimasto un suo ricordo in quella toscana fatta con le mele rosse renette, le pere e il cedro candito, in quella del Carpigiano dove sta con le mele, le pere, le mele cotogne, le bucce d’arancia e, infine, in Piemonte dove Barolo e Barbera la rendono aristocratica e altera. C’è da notare poi come, a livello nazionale, la presenza della senape e dei chiodi di garofano nella ricetta non sia sempre costante, a differenza dell’uso di cannella e vaniglia attestato da nord a sud (fanno eccezione i chiodi di garofano, che compaiono sporadicamente).
Una breve panoramica, su questa conserva, ci permette di capire le differenze nelle quali si declina a seconda della geografia e delle usanze locali. Già da sola questa ci rimanda tutta la ricchezza di cui è portatrice, non solo nel gusto ma anche in quell’esplosione di colori che la rendono appetitosa anche agli occhi.
Mostarda di Carpi: una mostarda così famosa che Carpi veniva chiamata “Carpi dalla mostarda fina” e i modenesi un po’ invidiosi di questo primato ribattevano “e degli asini regina”. Tanto era importante questa confettura che una tipica maschera carnevalesca carpigiana aveva come nome “Mustardin“.
Mostarda di Cremona: ne esistono ben due versioni. La prima versione è quella fatta a livello familiare in tutto il cremonese, il vero e proprio prototipo arcaico di questa ricetta. Oggi la tecnologia sostituisce la frutta, prima cotta in uno sciroppo zuccherino, con la frutta candita e inserisce altre varietà come albicocche, pesche, mandarini e ananas. Un tempo, al posto delle sciroppo si usava, come abbiamo detto poco sopra, il mosto. La seconda versione è una semplificazione di quella tradizionale. La frutta candita, in questo caso, viene ricoperta di una soluzione di sciroppo zuccherino aromatizzato all’olio essenziale di senape.
Mostarda di fichi d’India: è tipica di tutta la zona del catanese dove la produzione è di tipo familiare, in special modo Piazza Armerina (En) e Santa Margherita Belice dove c’è una delle più antiche coltivazioni del fico d’India. Si lavora facendo bollire una parte di succo di fichi d’India con una parte di mosto. Si aggiunge poi dell’amido e si rimette tutto a bollire fino a completa cottura. Il composto viene poi versato nelle tipiche formelle e si lascia asciugare al sole.
Mostarda di Mantova: è a base di sole mele, le cui fettine vengono condite ricoprendole di una soluzione zuccherina aromatizzata all’olio essenziale di senape.
Mostarda piemontese: la mostarda piemontese non ha la senape ed è l’unica mostarda che ha due ricette distinte: quella con il solo impiego di uva Barbera (il vero Mustum) e l’altra a cui si aggiunge al mosto cotto pere, mele cotogne, cannella, chiodi di garofano, zucche, fichi e a volte (ma stiamo già sul prodotto commerciale) gherigli di noce, nocciole e mandorle tostate.
Mostarda siciliana: tipica di quasi tutte le zone rurali dell’isola è particolarmente pregiata quella catanese, nella zona di Caltagirone, Piazza Armerina e Giarratana (Rg). Era usanza distribuirla ai vicini di casa mentre si vendemmiava, ma anche in occasione di battesimi, comunioni, nelle cresime e nei fidanzamenti. Può essere preparata sia aggiungendo amido, farina o semola al mosto, il risultato sarà così una pasta più o meno raffinata.
Mostarda toscana: è la mostarda, che con qualche variante, viene preparata quasi in tutta Italia, e che oggi sopravvive solo nella dimensione amatoriale. E’ quella che cita Francesco Gaudenzio, cuoco di convento, nel suo Il Panunto toscano del 1733 e successivamente l’Artusi nel suo La scienza in cucina.
Mostarda vicentina: famosa a Vicenza ma anche in buona parte del Veneto, si adopera per accompagnare sia le carni che i dolci e le focacce. Gli ingredienti base sono le mele cotogne, le pere, le mele, i limoni e i cedri canditi.
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