A pranzo con Antonio Albanese (Introduzione)
“Io non ho mai voglia di fare interviste…scherzavo”. Qualche minuto dopo si è seduto al tavolo, ha posato lo zainetto e un fiume in piena è partito. Per quasi due ore. Lui, che poco prima aveva voluto sottolineare la sua ignoranza vinosa – “per me il vino è bianco e rosso. Basta” – non ha lesinato risposte, voglia di scherzare e di approfondire. Neanche il tempo di organizzarsi e parlava già di terra, di piante, con un’intensità che non è poi così scontato trovare neanche in un vignaiolo. Non si fermava più. Se tutti quelli che dicono di non avere una gran passione per il vino (e il cibo) si accalorassero come lui, non sarebbero certo i liquidi alcolici in tetra brick a dominare le classifiche delle vendite.
Un antidivo: disponibile, rilassato, a tratti timido, ma non così come appare nelle rare interviste televisive. D’altronde giocava in casa: in un luogo a lui congeniale. “Noi viviamo nei ristoranti che sono come un palcoscenico”: un antipasto, un primo, del formaggio, un bicchiere di vino rosso, qualche caffè e si è parlato un po’ di tutto: di sommelier e ulivi, di metanolo e pesca, di “pilu” e “duende”, di tangentopoli e Saviano. Avere un angolino a disposizione per chiacchierare con gli amici – “molti mi invidiano questa cosa” – è stata la molla principale che l’ha spinto a partecipare ad un progetto con tre amici, due dei quali realmente professionisti del settore: “Ma non scrivere che questo è il ristorante di Antonio Albanese, come qualcuno ha già fatto, sbagliando, perché non è né vero, né corretto. Cesare e Danilo, sono loro gli artefici e i protagonisti”. Il Ratanà è per lui un luogo di passaggio così come un rifugio serale tra un impegno televisivo, cinematografico o teatrale.
“Quindi tu scrivi di vino?” ha chiesto tra l’incuriosito e lo stupito, prima di iniziare. Lo sguardo in parte perplesso ti fa capire quanto non sia così scontata l’attività di andare per vigne, cantine, assaggiando vino per poi parlarne. O cercare di farlo. Forse, a volte, diamo per certo di occuparci di cose importanti, imprescindibili, per noi come per chiunque. Non è così. O meglio: è possibile rispettarle, cogliere l’incredibile profondità culturale che si cela dietro un semplice bicchiere di vino, senza necessariamente esserne maniacalmente assorbiti. E va benissimo anche così. Anzi.
È il nostro regalo, che ci siamo fatti e vi abbiamo (speriamo) fatto, per i dieci anni di LaVINIum.
Buona lettura
Alessandro Franceschini
• Parte Prima. Il vino, i sommeliers e il pedalino del ciclista
• Parte Seconda. Il 1992, “Su la Testa!” e la (a)normalità di un paese
• Parte Terza. La pesca, Cetto e l’arte della comicità