AAA Cabernet Franc[o] cercasi
Un pezzo che non avrei mai voluto scrivere. Non faccio polemica del vino, non ne sono all’altezza e non m’interessa. Quel che mi piace lo bevo e lo descrivo, il resto… ciccia. Lascio starnazzare e sgomitare volentieri chi, pur di sollevare polveroni, ammicca ai propri fans e ostenta una “competenza” che, però, è sospetta, anzi si prostituisce nel retro-bottega. Come quei pennivendoli che si spacciano super partes soltanto perché sono capaci più degli altri di fare le verginelle.
Dalla loro sbandierata, ma interessata, “democrazia partecipativa” sono riuscito ad allontanarmi in tempo, mollando i blog dove fioccano gli insulti. Caratteraccio, vero? Che se la menino e che se la cantino fra di loro”! Ma quando leggo i punteggi da capogiro e le lodi sperticate da parte di alcuni wine-writers d’oltreoceano (tipo Wine & Spirits, Wine Enthusiast Magazine e Wine Advocate) per i Cabernet Franc delle cascate del Niagara, della Virginia, della California, dell’Oregon o dello stato di New York… beh, allora un sassolino dalla scarpa me lo vorrei proprio togliere. Portate pazienza.
Sono convinto che l’America sia una vera america, ma solo per gli americani, soprattutto per quelli che hanno deciso di ritagliarsi una professione e un bel conto in banca nel campo della comunicazione, specialmente là dove si rischia poco o nulla in reputazione, per esempio nel campo del vino. Quando non è proprio fabbricato o contraffatto, ecco che, aperitivo o digestivo che dir si voglia, alla fine comunque va giù. Con tutte le porcherie che la società industriale e commerciale ci spaccia da mangiare, un vino che sia anche solamente sano riesce a farle digerire lo stesso e trova perfino chi ne scriverà addirittura dei poemi per ricavarsi consensi e compensi.
Il Cabernet Franc, però, non è come il cugino Cabernet Sauvignon. Quest’ultimo lo si può piantare anche sul pavimento della cucina, del bagno oppure sull’asfalto e crescerà perfino senza troppe cure. Basta una pigiatura, anche a mano, e il vino viene lo stesso. Quando poi si è capaci di non fare errori grossolani in vinificazione, il risultato non sarà certo da podio, ma andrà via liscio comunque e ci sarà la solita faccia di bronzo che gli darà almeno 70 punti, che sono già un’enormità, però non danno troppo nell’occhio dei commentatori e possono diventare un trampolino per successive esagerazioni. Come quei pescatori che vanno in giro a implorare applausi, allargando sempre più le mani fino a far credere di aver pescato una grossa cernia invece di una piccola sardina, per il Cabernet Sauvignon è facile raggiungere punteggi stratosferici.
Con il Cabernet Franc è tutta un’altra storia. Per fare questo vino non basta una buona terra e un sole senza troppe bizze. Ci vogliono anche tre doti: il genio del vignaiolo, l’estro dell’agrotecnico, l’intuizione e la mano ferma, ma leggera, dell’enologo. Non è per nulla facile addomesticare un’uva che matura più velocemente e che da sola tenderebbe a eccedere con sentori di menta, foglie, alloro, fumo e liquirizia, come avviene purtroppo in alcune versioni venete che evito ormai come le ortiche, dato che sembrano delle dozzinali Carmenère.
Le aziende che ingaggiano tre professionisti ben preparati a sviluppare ciascuna di quelle tre doti, ottengono il vino forse più fine e soddisfacente del mondo. Per le altre la combinazione sarà un po’ più difficile, ma non impossibile. A volte nascono degli Chopin o dei Mozart pure in enologia, anche se il Cabernet Franc è un vino difficile, forse il più eclettico per quanto riguarda gli abbinamenti, sullo stesso piano dello Champagne oppure buon secondo, quand’è all’altezza. Altrimenti diventa il solito, anonimo, vino da battaglia, oppure da bottiglia che rimane mezza piena dopo il pranzo, perché senza la gazzosa non si riesce a berne due bicchieri.
Non credo che i wine-writers americani ignorino il Paleo dell’azienda Le Macchiole di Bolgheri, un IGT Toscana che merita gli applausi del suo pubblico anche per gli sforzi qualitativi della tenuta e della cantina di Cinzia Merli Campolmi. Per i loro gusti, anzi, dovrebbe essere proprio questo il faro di riferimento, supportato da meritati riconoscimenti di molte riviste e guide pure del nostro Paese e perfino in annate che per altri vini rossi sono state letteralmente disastrose, fate conto un 2002. Ma mi domando se le strade dei buoni Cabernet Franc possono ridursi soltanto a quella del Paleo. Quando ne trovo uno nuovo non me lo faccio sfuggire, ma mi sono sinceramente già stufato di tutti quelli degli yankees. Laggiù possono osannare tutti i tarocchi che fanno, ma da noi si fa Parmigiano Reggiano e Mozzarella di Bufala campana, altro che Parmezan e Zottarella!
Lorsignori, invece, podiano i vini rossi di moda, quelli che fanno maggior impressione al primo attacco nelle degustazioni (quanto a farsi bere, poi è un altro discorso) e che sono impenetrabili, densi, muscolari e potenti. Quelli sì che sono imbonitori con i fiocchi, altro che Vanna Marchi! Ne consegue che prima s’invade la ribalta con vini scipiti ma adulati e poi se ne moltiplicano i vigneti in cerca di facili guadagni. Ma in bocca, dopo aver bevuto un vino, non dovrebbero rimanere delle sensazioni piacevoli e comprensibili anziché quei residui aciduli e pastosi di spremute di segheria gonfiate da fruttati che scompaiono come un gatto del Cheshire?
Il palato viene affascinato e conquistato da un vino nella sua complessità, non dalla prepotenza di uno dei suoi componenti, per esempio il tannino (e magari proprio quello pompato dai legni tostati forte delle barrique quando in vigna la maturazione polifenolica è stata insufficiente), quello che copre tutto con vaniglia, cuoio e tabacco, quello che appiattisce il ruolo della natura, del sole, della terra e del genio del vignaiolo.
Un grande vino non è opera esclusiva del cantiniere, così come per farlo non bastano solo le grandi annate. A monte ci vuole una profonda conoscenza del territorio per una scelta appropriata dei vitigni e dei sistemi di conduzione delle vigne. Ci vuole però anche il coraggio di andare controcorrente, di sfidare l’andazzo comune, di proporre aromi e gusti che sanno di freschezza, di pulizia, di novità. Mi piacciono i Cabernet Franc beverini, da grigliata in canottiera e sandali, come ne ho trovati pochi nei salotti delle degustazioni pilotate, per esempio quello del 2001 di Castel Pujol Las Violetas delle Bodegas Carrau di Montevideo in Uruguay o quello del 2002 di St. Andrea Szőlőbirtok és Pincészet di Eger. Col tempo se ne sono aggiunti altri, ma da piccole vigne situate in quei due Paesi benedetti e qualcun’altra anche fra le graves delle rive della Barbanne e della Dordogne, in quel paradiso che si chiama Sant-Émilion, dove pietre, sabbia e specchi d’acqua fanno miracoli.
Ultimamente, grazie all’amico fotografo bustocco Dino Cassinotti, ho intravisto qualche speranza anche in un onesto vino dell’Alto Adige del 2008 proveniente dalla vigna Le Marocche, un vero nido di vipere fra i sassi di porfido, in cui Soini Quinto & Figli hanno investito genio e sudore.
Ecco, questi vini mi sono piaciuti senza scioccarmi, perché sono derivati in purezza da un vitigno che è capace di appassionare veramente chi ama il vino, ma che richiede molte più cure in vigna, in quanto più sensibile ai suoli e al microclima, dov’è diventato faticoso e costoso lavorare bene a mano senza ricorrere alle macchine e quindi non è di moda, perché non si concede alle frivolezze. Alle giuste rese, calibrate dalla saggezza contadina, quel ceppo dà un vino che non è erbaceo né verde, ma risulta pulito, vinoso, equilibrato, molto gradevole, al punto che in taglio sa soccorrere anche il cugino Cabernet Sauvignon con la sua raffinatezza e un’antica eleganza, perfino quando è apportato in piccole quantità, quelle che personalizzano gli assemblaggi fatti con i guanti bianchi.
Questi Cabernet Franc di colore limpidissimo, con aromi di ribes, ciliegia, melagrana, violetta, in bocca suadenti, armonici e con un finale delicatamente confettato, mi avevano fatto scoprire un mondo diverso da quello che ci dipingono i commercianti e le loro veline passate ai blog compiacenti, cioè un monoblocco di vinificazioni di stile californiano con le loro estrazioni spinte per accontentare i palati necrofili della borsa londinese o i Parker di turno in quelle riviste che diventano più famose solo quando pesano come mattoni.
Cabernet Franc vivo per un mondo vivo, con le sue contraddizioni ma anche con i suoi caratteri calienti. Come dice il nome, Franc, dev’essere “franco”, cioè sincero, pulito, senza compromessi, libero da stereotipi. Che incoraggi la beva e chissenefrega del resto! Della serie vini diversi, insomma, quelli che non mirano ai premi e alla televisione, ma che tirano dritti per la loro strada, curando al massimo livello la soddisfazione del cliente, quella che rimane, per loro come per me, l’unica ragione per fare il vino. Trovatemene degli altri e scrivetene. Pregherò per voi, la domenica, a messa.
Mario Crosta