Un faro nel Chianti Classico: Castell’in Villa
Ci sono momenti nella vita in cui soltanto il vino eccellente è il miglior compagno con cui aprirsi, parlare, sognare, progettare, confidarsi, riflettere e prendere decisioni definitive, quelle che cambiano la vita. Devo alla genuina amicizia dell’indimenticabile amico Loris Scaffei, il papà di Rossella della Compagnia del vino di San Casciano in Val di Pesa, il primo vero momento di bilancio della mia vita, quello che mi ha permesso di capovolgerla completamente. Era una splendida mattina d’inizio ottobre 1980, avevo 28 anni e un trattore del Castello della Sala in Ficulle del marchese Piero Antinori mi aveva svegliato all’improvviso per cominciare la vendemmia proprio sotto alle mura in cui ero alloggiato con l’amico Aldo Calcidese.
Avevamo dormito benissimo in quei letti d’antica morbidezza, ma pochissimo. Eravamo rimasti a chiacchierare fino a notte tardissima con Loris, il dott. Santoni e l’enotecaro Trimani perché erano molto incuriositi dal fatto che un semplice lavoratore della Pirelli e un impiegato del Comune di Milano avessero potuto vincere un concorso prestigioso di Vini & Liquori come gentleman chef e avessero un approccio così solido e profondo con il vino dimostrato di giorno e di sera con le discussioni sul Sassicaia 1973 e 1977 e sui lavori di sbanco in corso nella vigna Solaia.
Come mi è sempre capitato in campagna, il rombo del trattore è la sveglia più bella. Si spalancano le ante della finestra al sole e in cinque minuti (anche quattro) di corsa folle per bagnare di acqua fredda il viso, infilare pantaloni e scarpe alla meno peggio e correre giù per le scale senza inciampare è vera una fortuna che almeno una volta nella vita auguro a tutti. Ma sono sceso soltanto io in cortile e sulla panchina in cortile davanti all’ingresso della vinsantaia avevo trovato proprio Loris seduto a godersi il sole con il suo cardigan marroncino. Aveva un sorriso davvero contagioso. Chiacchierando su ciò che si vuole dalla vita e raccontandomi la sua, è stato quasi un padre mentre stavo maturando la decisione di terminare il buon lavoro a Milano e lasciarci ancora un po’ la famiglia per iniziare la mia avventura con il vino in campagna in Sardegna e poi chissà. Il vino che celebrò quel magico momento di svolta fu il rivoluzionario Sassicaia del 1968 che mi aveva appena portato personalmente il marchese Piero da Firenze.
Quelli erano gli anni dei più grandi sconvolgimenti nel mondo del vino in Toscana. A Novara prima e a Milano poi ero cresciuto facendomi la bocca con i Nebbiolo e i Barbera invece che con i Chianti, anche perché allora nei negozi adatti ai salari di semplici lavoratori dipendenti si trovavano raramente dei Chianti eccellenti che non costassero un occhio della testa e quelli migliori si potevano praticamente bere soltanto in sogno. La cosa che mi aveva tenuto lontano dai Chianti, anche quelli infiascati e venduti dallo zio Renzo Farioli a Busto Arsizio era una qualità molto scarsa di quei vini a portata di un comune portafoglio. In una discussione durante l’aperitivo nel torrione con Piero Antinori e Loris Scaffei ero riuscito a capire bene la sofferenza dei validi produttori a quello scempio, a scoprire le prime loro ribellioni a un disciplinare che permetteva purtroppo tutto e il contrario di tutto.
Alcuni produttori avevano deciso di togliere le uve bianche da quei tagli che avevano sconvolto perfino la pratica del buon governo, anche se era obbligatorio metterle, altri avevano bordoleggiato le loro riserve intristendole, imperava il marasma e alla fine è pur vero che il disciplinare venne finalmente cambiato, ma la realtà peggiore continuò con dei DOCG di dubbio valore immessi sul mercato a prezzi stracciati che inorridivano perfino gli osservatori stranieri e con le nuove mode enologiche che seducevano impreparati produttori a giocare male con legni inadatti e a smerciare miscuglio ovviamente privi di tutto ciò che è importante nel vino, cioè la personalità, il carattere, l’anima, ma che sicuramente si vendevano bene grazie al nome Chianti.
Nel quarantennio successivo ho rivolto perciò l’attenzione altrove e ho bevuto dunque raramente dei Chianti che avessero perlomeno rispetto dell’alto lignaggio del loro nome che però continuava ancora a risuonare romanticamente sulle tavole altolocate di tutto il mondo come un vero vino bandiera, quindi raramente ne ho scritto. Per riconciliarmi con questa tipologia di vini mi ci è voluto il trasferimento di un paio d’anni a Montalcino dove ho potuto scoprire degli autentici gioielli, grazie all’enoteca di Bruno Dalmazio in cui lavora l’amica Petronilla Marconi, ma a prezzi non più raggiungibili per le mie tasche, perciò dovevo riprenderne la ricerca.
In quei mesi avanti e indietro per la Polonia con la Panda Rossa non ho mai percorso l’autostrada del sole da Chiusi a Firenze né la superstrada Grosseto-Firenze proprio per riuscire a trovarli in quel paesaggio lungo le antiche strade del Chianti usando come trampolino la SR 222 Chiantigiana che è da sempre una delle più belle ”strade del vino” del mondo intero tra borghi, colline e paesaggi stupendi, anche di notte sotto la luna piena.
Vanno percorse a velocità contenuta per godersele tutte e fermarsi in ciascuno dei vari terroir nei quali è suddiviso il territorio delle undici aree del Gallo Nero dal punto di vista geologico, pedoclimatico e quindi gustativo da Firenze a Siena: San Casciano, Montefioralle, Greve, Panzano, Lamole, San Donato in Poggio Radda, Castellina, Gaiole, Vagliagli e Castelnuovo Berardenga.
Anche perché finalmente si sta realizzando il progetto delle Unità Geografiche Aggiuntive che introduce in etichetta il nome del comune o della frazione secondo la reale suddivisione per omogeneità produttiva di questo territorio in aree più ristrette, a cominciare per ora dai Chianti Classico Gran Selezione, e apporta una modifica al disciplinare che prevede l’utilizzo minimo di sangiovese al 90% (invece dell’80%) con il 10% di vitigni autoctoni toscani ammessi, escludendo così quelli internazionali finora consentiti, in modo da dare ancora maggiore identità e territorialità al vino.
Tutto questo pistolotto spero sia servito a spiegare come sono giunto dopo quasi mezzo secolo all’odierno momento di svolta importante, definitiva della mia vita e alla constatazione che anche in questa occasione è un vino eccellente ad accompagnarla mentre scrivo, inaspettatamente proprio quello che, a mio modesto parere, chiude l’intero ciclo delle battaglie chiantigiane tra tesi e antitesi enologiche e rimette il faro luminoso della piacevolezza al suo meritato, esemplare, posto sullo scoglio più alto a illuminare la rotta, quindi anche la mia, nell’immediato prossimo mondo del vino, stavolta non con Loris Scaffei, ma grazie a Marcello Rubegni.
Castell’in Villa è una delle aziende più significative della denominazione del Chianti Classico nella zona di Castelnuovo Berardenga, sui colli senesi a est di Siena, alle pendici dei monti del Chianti, cioè nella parte più meridionale dell’areale chiantigiano, in un luogo magnifico e suggestivo dove di notte è facile incontrare lepri, daini, istrici e cinghiali negli ariosi boschi che circondano le vigne.
Quassù sorge un’antica torre di pietra dove si trova la cantina di proprietà dal 1967 della principessa Coralìa Ghertsos Pignatelli della Leonessa, figlia di un aristocratico greco e fondatrice della cantina nel 1968 insieme con il marito Riccardo Pignatelli della Leonessa, diplomatico in quel di Roma. La capitale in quegli anni conosceva un boom edilizio straordinario, perciò avevano cercato a lungo una bella e tranquilla dimora “via dalla pazza folla” e avevano trovato l’ideale in questo antico borgo medioevale fortificato che domina un territorio in cui si fonde il bucolico con il selvatico.

All’inizio, la principessa Coralìa aveva pensato di produrre con il marito anche del vino dall’unico ettaro coltivato a vite della proprietà, ma soltanto per divertimento, sia chiaro, per non far ribollire il sangue blu di suo padre nelle vene di una figlia che s’incaponiva a diventare… contadina! È stato il più antico Consorzio di produttori vitivinicoli fondato in Italia nel 1924 per la difesa del vino tipico Chianti Classico e della sua marca di origine a convincere la giovane coppia ad allargare l’impianto seriamente già nel 1968 con le uve classiche che allora comprendevano anche quelle bianche. Il loro primo Chianti Classico è stato fatto nel 1971 proprio con quel taglio che già non soddisfaceva più anche altri produttori e dopo poche altre prime annate la principessa e suo marito avevano deciso già nel 1975 di produrre dei vini rossi soltanto uve a bacca nera.
Nel 1977 (l’anno in cui morì suo padre) la principessa Coralìa aveva incontrato l’enologo Giacomo Tachis che veniva anche da lei ad acquistare i vini sfusi per le prime annate del Tignanello dei Marchesi Antinori e spesso la consigliava amichevolmente su tante cose, visto che lei stava prestando sempre più attenzione ai dettagli in cantina e in vigna per diventare ancora più esperta in enologia. Tra i due si era formata una genuina amicizia in questa nuova avventura, anche se in tema vino la principessa interpretava i suggerimenti molto alla larga e in maniera a volte contrastante… come è nel suo carattere noto per essere piuttosto deciso e anticonformista.
Giacomo Tachis l’aveva incoraggiata nell’impresa e le aveva suggerito non solo di togliere le uve bianche dagli uvaggi, quando non dai vigneti, ma anche di sradicare il canaiolo e il colorino in favore prima del sangiovese e in seguito del cabernet sauvignon. Il vino Santacroce, prodotto per la prima volta nel 1983, è proprio il frutto di un taglio di sangiovese e cabernet sauvignon invecchiato in rovere francese. Una vera svolta enologica a cui però purtroppo ne ha fatta subito seguito un’altra esistenziale perché nel 1985 però è venuto a mancare prematuramente suo marito e da quel momento la principessa Coralìa ha scelto di cambiare la sua vita e di non tornare più a Roma per proseguire nel progetto del suo amore con quella passione che aveva sempre condiviso con lui. Ed è così che si è stabilita definitivamente nella torre di Castell’in Villa.
Sempre sostenuta dall’amico Giacomo Tachis, che era passato da un rapporto d’amicizia a un’assidua collaborazione con Castell’in Villa, ha così realizzato dei vini fatti unicamente di uve a bacca rossa, eliminando del tutto la percentuale di quelle bianche che all’epoca erano ancora consentite per la produzione del Chianti Classico, iniziando a utilizzare in taglio il cabernet sauvignon a partire dal 1988. Il vino Poggio delle Rose, proveniente da un impianto del 1990 realizzato esclusivamente con una selezione clonale prelevata dai vigneti originari di Castell’in Villa, è stato il primo maturato solamente in botti di rovere francese. Una piccola quantità è stata prodotta nel 1994, ma la prima uscita commerciale è stata il 1996.
Credo che la principessa Coralìa possa essere sicuramente soddisfatta della sua scelta di non aver mollato tutto, anzi di aver trovato un nuovo impulso, e capisco dai suoi vini di oggi un ambizioso obiettivo: ricercare la vera anima del sangiovese di Castelnuovo Berardenga che non è ancora stata interamente espressa, perché è stata legata maggiormente ai canoni dei colli senesi che per troppo tempo hanno generalmente messo in commercio dei vini ”neonati”, mentre qui il vino ha ancora più bisogno di tempo per potersi esprimere al meglio, data la poliedria idrogeologica del territorio.
Chi frequenta le ”farmacie dei sani”, le osterie, da queste parti trova in massima parte dei vini perfetti ma freschi ed estremamente giovani, mentre ancora oggi, quando riesce a degustare i vini degli anni ’90 rimane incantato dalla complessità e dalla sontuosità del fruttato, dall’austerità sapida e da una complessità da brivido. I vini del nuovo millennio 2000 di Castell’in Villa sono di un’intensità avvolgente, ancora più accessibili e piacevoli nello stile che oserei dire più artistico, dato che Coralìa è anche un’amante dell’arte eclettica e nella sua tenuta si possono vedere delle insolite sculture, un vero segno del mutare dei tempi.
Penso che forse il suo metodo sangiovesista a questo punto sia di vedute più ”gambelliane”, cioè alla Giulio “bicchierino” Gambelli di Poggibonsi, maestro assaggiatore che non fu mai enologo ma che con il laboratorio del suo palato, peraltro astemio, ha contribuito a creare vini non solo grandi, ma eccelsi nel rispetto e nell’esaltazione delle tipicità di ogni singolo vitigno, delle caratteristiche del territorio e delle peculiarità dell’annata vendemmiale.
I suoli in questa zona sono molto diversi uno dall’altro. Questa è infatti l’area geologicamente più variegata del Chianti, è un mosaico di parcelle dai suoli differenti di alberese, macigno, sabbie plioceniche, depositi alluvionali di sabbia e ghiaia, formazioni di sillano, pietraforte e argilliti da cui derivano vini diversi perfino dagli stessi cloni proprio perché il sangiovese, per eccellenza il vitigno autoctono del territorio, è riconosciuto più di altri come vitigno marcatore del territorio. I vigneti di Castell’in Villa sono coltivati quasi esclusivamente a sangiovese in questa tenuta di 298 ettari dove le vigne (cintate in rosso nella mappa) si estendono su diversi appezzamenti che, nel complesso, vanno a costituire un patrimonio vitato di ben 54 ettari di cui 49 in produzione in 8 luoghi differenti per suoli e microclima secondo la viticoltura biologica certificata e con una parte piantumata con selezioni massali aziendali. Il resto è coperto da 32 ettari condotti a uliveto, da altri 30 a seminativi e tutto intorno da un grande bosco secolare, che assicura un ambiente incontaminato e una grande biodiversità.
Le vigne sono suddivise in otto distinti appezzamenti vitati, che si differenziano tra loro per microclima e composizione del terreno. Le attività di cura dei ceppi e i lavori tra i filari avvengono nel rispetto della natura e dell’ecosistema e alla fine le uve che si raccolgono, vendemmia dopo vendemmia, sono puntualmente sane, schiette, rigogliose e pregiate. Grazie agli ambienti sanificati e alle apparecchiature moderne usate secondo le tecniche tradizionali chiantigiane, le singole vinificazioni dei grappoli provenienti dalle diverse vigne tra il mare e i colli avvengono in modo diversificato in tini di acciaio inox da 50 a 250 hl dove ogni singola massa viene opportunamente trattata in fermentazione con le consuete pratiche di cantina rimontaggi e follature in maniera diversa in base agli assaggi e alle analisi giornaliere per arrivare al massimo delle potenzialità del singolo vigneto. La permanenza sulle bucce quindi è variabile e la massima temperatura di fermentazione alcolica è controllata per non superare i 29°C e poi si lascia libera fino ad arrivare ai 20°C canonici per attivare spontaneamente la malolattica dopo la svinatura e intervenire soltanto a mantenerne la temperatura ideale affinché si completi velocemente senza interruzioni da sbalzi di temperatura. Le degustazioni giornaliere a zuccheri finiti da qualche giorno e con i tannini in pace stabiliscono i percorsi delle maturazioni che per il Sangiovese proseguono in botti di rovere di capacità e forme diverse (da 25 a 80 hl) con l’esercizio dell’arte dei tagli e degli assemblaggi indicati dalle analisi dei singoli prelievi e dall’esperienza del cantiniere.
La maturazione nelle botti ha un tempo minimo di due anni, ma non è una regola fissa. Affinamenti senza filtrazione alcuna, ma solo la naturale decantazione, imbottigliamenti seguiti da periodi di riposo di ulteriori mesi prima dell’immissione in commercio. I vini di Castell’in Villa si distinguono per armonia, eleganza, complessità e per una longevità straordinaria che permette di degustare bottiglie degli anni ’70 ancora perfettamente conservate e ricche di fascino. Ma per riuscire a farmi riconciliare dopo tanti anni con il Chianti Classico di questi colli senesi ci volevano vini in grado di soddisfare pienamente un principio personale che è quasi sempre dimenticato invece da chi scrive di vino all’inseguimento di giudizi in punteggi del top di un’azienda (un esercizio di critica che non mi appartiene) e cioè quello di godermeli in tavola senza far piangere il portafoglio, ed ecco quindi un vino adatto alla cucina casalinga della mensa quotidiana e un vino adatto alle squisitezze dei grandi pranzi famigliari del fine settimana che finalmente mi hanno convinto in proposito. Posso soltanto immaginare, ma in cantina già lo sanno, che splendido capolavoro sarà l’annata 2019, quella che ha portato l’amico Carlo Macchi a lanciarsi in un’affermazione che a molti, ma non a me che lo stimo più di tutti, può essere sembrata eccessiva: ”La 2019 in Chianti Classico e per il Chianti Classico è la migliore annata degli ultimi 30 anni”.
Gazzarina Igt Toscana 2020
È il tipico rosso toscano da uve sangiovese in purezza che incarna perfettamente l’immagine più affermata nel mondo del vino italiano, quello della tavola imbandita delle trattorie di paese all’ora dei pasti e quello delle osterie e dei circoli del dopolavoro quando si gioca a carte in allegra compagnia. Proviene da vigne diverse di età compresa tra 5 e 15 anni coltivate ad altitudini intorno ai 250 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest e allevate con sistema di potatura Guyot per una resa media di circa 65/70 quintali per ettaro. Fermentazione alcolica naturale senza aggiunta di lieviti a temperatura controllata per 15 giorni in tini di acciaio inox e macerazione a contatto con le bucce per soli 7 giorni. Dopo la svinatura viene affinato per 3 mesi e imbottigliato con un tenore alcolico del 14%, un’acidità totale di 6,60 g/l, un pH di 3,2 e un’anidride solforosa totale di 60 mg/l. È un vino spigliato di colore rosso rubino luminoso e limpido dai riflessi porpora che non necessita di ossigenazione per aprirsi. Appena stappato e versato in un calice ampio, un inatteso profumo di confetto da sposa e di cioccolato bianco mette subito di buon umore e apre un bouquet pimpante di aromi di ciliegia appena raccolta, corniola, corbezzolo e altri piccoli frutti rossi verso un finale all’arancia rossa. In bocca è morbido e fresco, gradevole nella sua armonia, nel finale lascia il palato pulito e profumato di fiori. Consiglierei di servirlo e di mantenerlo a una temperatura tra i 16 e i 18 °C.
Chianti Classico Castell’in Villa 2017
È il rosso toscano perfetto per godere meglio tutti i secondi piatti di carne rossa, a partire dalla succulenta bistecca alla fiorentina di vitellone o scottona di razza Chianina, maturo e intenso al punto giusto e di grande finezza per le sue note floreali, fruttate e balsamiche. Proviene da vigne diverse di età compresa tra 10 e 20 anni coltivate su suoli alluvionali con ciottoli e sabbia ad altitudini da 230 a 360 metri s.l.m. con diverse esposizioni e allevate con sistemi di potatura a Guyot e a cordone speronato per una resa media di circa 50/55 quintali per ettaro. Fermentazione alcolica naturale senza aggiunta di lieviti a temperatura controllata in tini di acciaio inox per 15/18 giorni con macerazione sulla bucce, maturazione in botti grandi di rovere di Slavonia da 30 a 36 mesi e almeno altri 6 di affinamento in bottiglia. È stato imbottigliato con un tenore alcolico del 14%, un’acidità totale di 6,20 g/l, un estratto secco di 29,7 g/l e un’anidride solforosa totale di 68 mg/l.
Consiglierei di servirlo e di mantenerlo a una temperatura tra i 16 e i 18 °C, ma per gustarlo al meglio andrebbe lasciato respirare una mezz’oretta prima di servirlo in calici per vini rossi leggeri e di media struttura, che non necessitano di ossigenazione per aprirsi, con apertura leggermente più stretta rispetto al corpo del calice per favorire la concentrazione degli aromi al naso. Di colore rosso rubino limpido e luminoso con riflessi granati, appena stappato e versato in un calice ampio emana un profumo di confetto da sposa e rose rosse che apre un bouquet di aromi di ciliegia nera e amarena tra sfumature di sottobosco, humus e foglie secche. In bocca conferma il fruttato cui apporta aromi floreali seducenti di lavanda e un non so che di spezie dolci, aggiungendo note di buona pelle conciata e rivelando un carattere morbido che ha ben levigato i tannini e raggiunto una maturità espressiva fatta di armoniosa complessità in guanti di velluto. Sorseggiandolo si avverte anche un sottile fondo sapido che regala una beva appagante grazie a una bella acidità che rinfresca e pulisce bene il palato. Il finale è perfetto, con un tocco di china e arancia rossa, lungo, persistente.
Già pronto alla beva adesso, è un vino di grande longevità, si può lasciarlo riposare in cantina ancora per una decina di anni in cui evolverà ancora, sviluppando maggiore complessità aromatica. Un bel Chianti davvero!
Chianti Classico Castell’in Villa 2018
Proprio perché ogni annata si evolve in maniera diversa, a Castell’in Villa ogni vendemmia viene trattata con grande sensibilità, interpretando al meglio le sue caratteristiche, per dare il migliore Chianti Classico possibile che perciò non è mai uguale a se stesso. L’annata 2018 non è stata siccitosa, ma è stata caratterizzata da brinate tardive che ne hanno limitato naturalmente la produzione nei punti più bassi e, anche se le uve provenivano dalle stesse vigne, durante la vinificazione ci si è dovuti ingegnare secondo esperienza con raspi e vinaccioli su mosti che evidenziavano meno tannini, meno alcool e meno acidità.
L’arte del cantiniere consiste nell’adattarsi alle caratteristiche naturali delle uve di ogni annata senza forzare né manipolare la materia prima in fermentazione, con l’obiettivo di fornire alla beva un vino che però conservi le sue doti organolettiche essenziali che lo rendono tipico e piacevole, con quella indiscussa riconoscibilità che chiamiamo anima. Proviene da vigne diverse di età compresa tra 10 e 15 anni coltivate su suoli alluvionali con ciottoli e sabbia ad altitudini da 230 a 360 metri s.l.m. con diverse esposizioni e allevate con sistemi di potatura a Guyot e a cordone speronato per una resa media di circa 50/55 quintali per ettaro. Fermentazione alcolica naturale senza aggiunta di lieviti a temperatura controllata in tini di acciaio inox per 22/26 giorni e un po’ più di macerazione a contatto con le vinacce per estrarre un po’ di tannino. Maturazione in botti grandi di rovere di Slavonia da 30 a 36 mesi e almeno altri 6 di affinamento in bottiglia. È stato imbottigliato con un tenore alcolico del 13,5%, un’acidità totale di 5,5 g/l, un estratto secco di 29,5 g/l e un’anidride solforosa totale di 71 mg/l.
Un’annata diversa e più giovane e qualche mese in meno di maturazione in legno si notano certamente per il colore un po’ più intenso e per gli aromi che sono gli stessi, ma un po’ più tenui, ancora adolescenti. Nella sua freschezza si avverte inoltre l’atmosfera della macchia mediterranea per una delicata sfumatura balsamica di cumino con un ricordo lontano di mentuccia verso un finale molto fine per la beva che si conferma appagante e sempre sul filo della morbidezza che contraddistingue questi grandi vini di Castell’in Villa. Un altro lustro di affinamento lo renderebbe eccelso, mannaggia al mio cavatappi che ha sempre troppa fretta!
Mario Crosta
Castell’in Villa
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