Le cucine stellate come la caserma di Full Metal Jacket?
Bruciature volontarie con padelle, costole rotte, “reclusioni” all’interno di celle frigorifere per ore. Probabilmente se Stanley Kubrick fosse ancora vivo e volesse girare un seguito di Full Metal Jacket, la caserma dove si addestravano i marines in procinto di partire per il Vietnam verrebbe tranquillamente sostituita dalla cucina di un ristorante, possibilmente stellato.
In un’atmosfera ad un certo punto a metà strada tra l’allibito e l’infastidito, il protagonista della nostra storia è un giovane cuoco in carne ed ossa che sembra uscito dalla penna della sceneggiatura di un film sulla naia anni ‘80 più che dal dorato mondo della ristorazione contemporanea. Si chiama Jacopo Bianchi ed è stato uno degli ospiti che si sono avvicendati sabato 24 giugno all’interno di “Doof, l’altra faccia del Food“, la prima edizione dell’evento ideato da Valerio Massimo Visintin, il noto critico mascherato delle pagine milanesi del Corriere della Sera.
Il titolo dell’appuntamento era “Dietro le quinte della ristorazione“, sottotitolo: “Le assunzioni irregolari, i turni di lavoro infiniti, i pagamenti in nero, lo scollamento tra le scuole alberghiere e il mondo del lavoro“. Si è parlato anche di questo, soprattutto con gli altri due ospiti dell’incontro, vale a dire i docenti di scuole alberghiere Enrico Camelio (Pellegrino Artusi di Roma) e Emanuele Gnemmi (Scuola Alberghiera di Stresa), ma, alla fine, il vero protagonista dell’incontro è stato lui, Jacopo Bianchi.
Dopo il liceo, costretto ad iscriversi all’Università di Giurisprudenza per assecondare i desideri dei genitori, molla quasi immediatamente la facoltà e decide di inseguire la sua vera passione, peraltro trasmessagli dal padre, vale a dire quella di lavorare nella cucina di un ristorante.
Esperienze in Italia, non molto positive dal suo racconto, in Inghilterra, ambienti molto competitivi e stressanti, poi in Spagna, dove secondo Bianchi l’atmosfera sembra essere migliore. Il vero filo conduttore, però, che unisce tutte queste esperienze lavorative, non è tanto il blasone o le stelle delle cucine nelle quali ha lavorato e “imparato tanto” come sottolinea più volte, quanto il clima di “mobbing psicologico” che ha dovuto subire e la violenza, anche fisica, che faceva evidentemente e tranquillamente parte del suo mondo.
In un climax ascendente di aneddoti composto, nell’ordine, da un’incisione sul polso inflittagli volontariamente con una pentola rovente da una sous-chef (Italia), da una costola rotta, non si sa come, ma certo non impiattando un dessert, durante l’esperienza in un ristorante bistellato (Inghilterra), nonché dal racconto che vede come protagonista un collega cipriota che, per punizione a causa del suo atteggiamento inviso alla brigata di cucina, viene lasciato per cinque ore in una cella frigorifera fino a quando viene fatto uscire in lacrime e spaventato (sempre Inghilterra, sempre lo stesso ristorante, definito uno di quelli che “se resisti almeno un anno, poi puoi andare dove vuoi“), le vicende raccontate da Bianchi vengono sostanzialmente inserite all’interno di una prassi quasi “normale”, neanche troppo stigmatizzata dal nostro. O meglio: sono gli interventi di alcuni dei presenti tra il pubblico, tra i quali anche quello dell’ideatore dell’evento, che di fatto gli fanno dire: “Sì, certo, non va fatto, il limite non va mai superato“. Però succede, e neanche troppo raramente a suo dire. Solo che “nessuno lo dice”, perché scomodo al sistema.
E in fondo, tutto questo, fa parte da sempre di un ambiente che tollera, ma non ama diffondere, vicende del genere. Lo afferma sempre il nostro giovane cuoco, che comunque non manca di considerare la sua esperienza come positiva – “mi manca l’adrenalina del servizio” – afferma che spesso i noti chef dei ristoranti stellati dove avvengono fatti come quelli raccontati neanche lo vengono a sapere “perché nessuno ha il coraggio di dirglielo, sono cose interne alla brigata“.
Sul palco non è mancato un certo imbarazzo da parte degli altri invitati: il docente di Stresa ammette che l’ambiente della cucina non è facile e l’attuale fragilità delle giovani generazioni non aiuta a inserirsi in un mondo che non è certo quello che appare nei format televisivi. Il professore di Roma, invece, prende le distanze dal racconto di Bianchi – “ci sono altri metodi, oggi non succedono più queste cose” – che invece ribatte con forza il contrario.
Nessuno fa nomi, a partire dal cuoco milanese. Anzi, ex cuoco, perché ora ha abbandonato le cucine stellate e sta cercando di aprire una cantina a Pantelleria. Come i reduci di guerra, deve evidentemente cambiare vita, “la ristorazione mi ha lasciato la passione per il vino”. Si spera che il clima che instaurerà il nostro futuro vigneron tra alberelli di zibibbo e barrique sia differente da quello subito e, comunque, amato nelle cucine stellate. Più che altro per la salute, fisica e mentale, dei suoi futuri collaboratori.
Alessandro Franceschini