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Terra di Puglia, Terra di Rosati Parte II


La cassa della pasticceria Ascalone27 luglio (per chi se la fosse persa ecco la Prima parte)
Visita alla piccola (ma davvero bella) città di Galatina, con qualcuno (sì, sempre lui: il Macchi!) che gira con il vassoio di pasticciotti acquistati poco prima da Ascalone, una piccola pasticceria che sembra uscita da una foto ingiallita dal tempo, e caduta per sbaglio mentre spostavi un raccoglitore. La trecentesca chiesa dedicata a Santa Caterina d’Alessandria è spettacolare: andate a visitarla!
Prima tappa enoica: Valle dell’Asso. Realtà importante nel leccese, con i suoi 110 ha (80 vitati, i rimanenti a uliveto) la cui anima è Don Gino Vallone, assieme all’enologo Elio Minoia, che ci accompagnerà nella visita e nella degustazione, e che sentiamo essere innamorato dell’azienda per cui lui stesso è fondamentale.
Fu Donato Vallone, trisavolo di Don Gino, a creare il cuore del patrimonio vitato dell’azienda nel 1820 nell’agro di Cutrofiano (vigne Monti e Cavallerizza). L’azienda ha vissuto le vicende comuni a tutti, dalla fillossera alle due guerre, passando per grandi piccole rivoluzioni, come la corrente elettrica in azienda (e poi c’è un aneddoto su Carducci e il loro rosato, ma vi lascio la curiosità di sbirciare il sito).
Nel ’95 Gino Vallone rileva la cantina e inizia ad imbottigliare, affiancato da Minoia sin dal ’94. E sin dall’inizio, dice Minoia, hanno operato in biologico. In effetti l’enologo si sofferma molto e puntualizza un aspetto che gli sta davvero a cuore: la conduzione in bio (certificato, tra l’altro) per lui consiste in rame e zolfo per la vigna, e in un ri-equilibrio dei suoli, vitale per un’uva di qualità. Infatti l’impoverimento di microelementi e colloidi fa venir meno la capacità del terreno di trattenere l’acqua, così vitale in un territorio così arido. E si chiama proprio “arido-coltura” quella praticata nei suoi vigneti: sarchiature leggere (per interrompere la capillarità del terreno e quindi evitare un’eccessiva traspirazione) e nessuna irrigazione.

I vini degustati di Valle dell'AssoPassiamo ai vini provati?
Bianco della Galatina 2010 (Chardonnay in purezza, 13°) che ho trovato forse un po’ crudo nei profumi, ma dotato di grande sapidità e persistenza. Da vedere come cresce. Rosato Galatina 2010 (Negroamaro in purezza, 13°) che si presentava di un colore intenso, quasi rubino, mentre al naso si presenta esuberante nell’alcol, per poi trovare l’armonia. Giusto frutto, freschezza e corpo.
Rosso Galatina 2008 (Negroamaro 70%, Primitivo 30%, 14°). Vino dal colore rubino intenso, maturo, che presentava note di chiodo di garofano, pepe, tabacco, con un tannino che in bocca ho sentito ancora giovane; complessivamente un vino di buona bevibilità. (Questi tre sono tutti bio certificati).
Salento IGT Negroamaro 2008 (biologico, 12,5°), che si presentava di un rosso impenetrabile, con un frutto carico al naso, che fa spazio lentamente ad una nota speziata, complessa come le sensazioni che dona in una bocca riempita da un tannino vivo, presente, ma integrato bene. (Su questi due rossi si sono fatte prove, in quell’annata, di fermentazioni spontanee. Elio confida di voler provare a seguire con costanza questa strada).
Piromàfo 2006 (Salento IGT da Negroamaro cannellino in purezza, 14,5°). Questo vino viene prodotto con un particolare tipo di Negroamaro, con acini più piccoli, quindi un rapporto buccia polpa più elevato. Il nome significa combattente del fuoco, ed è il modo in cui chiamano il terreno argilloso dove crescono queste vigne, in grado appunto di combattere il fuoco. Impenetrabile nella sua veste rubino, esprime note di caffè, spezie, cuoio. In bocca il tannino è levigato, intenso e vivo. Appaiono note di cioccolato in questo bel vino.
Il Macàro (Salento IGT da Malvasia nera e Aleatico). Ogni anno viene prodotto questo vino da uve appassite, messo ad invecchiare in fusti di rovere, poi aggiunto alla massa di vecchie annate (ormai le percentuali saranno esigue, ma ci sono annate di 40 anni fa lì dentro) e imbottigliata la stessa quantità aggiunta nell’ultima vendemmia. Te lo aspetti dolcissimo, mentre vedi il colore ambrato con dei bei riflessi arancio scuro. E invece è un continuo di frutta candita, dolcissima, miele e spezie. Ma secco. Una bella scoperta!

Masseria L'AstoreVia, stiamo facendo tardi, dobbiamo andare alla Masseria l’Astore, a Cutrofiano.
È forse la seconda vera masseria che visitiamo, assieme a quella rimaneggiata negli anni, appartenente ai Garofano. Gli ambienti profumano molto di antico, tempi passati. A cominciare dal frantoio ipogeo del ‘700, restaurato e affascinante, a cui a fianco è stata costruita una bottaia suggestiva, sempre nella chiara pietra leccese. I Benegiamo – Di Summa acquistarono la tenuta (di circa un centinaio di ha, di cui circa 40 sono ad uliveto, e 15 di questi sono di piante di ogliarola e cellina vecchie di 120 anni) verso la fine degli anni ’20. La produzione si concentrò per alcuni anni sulla produzioni di vini da taglio, che subì un arresto nella seconda metà del secolo. Si riprese l’attività alla fine degli anni ’90, iniziando il restauro nel ’96, e uscendo nel 2005 con la prima etichetta – consulenza di Mr. Cotarella, la cui firma si ritrova nell’uso dei famosi “migliorativi” (quasi tutti estirpati, fatto salvo lo Chardonnay, esogeno assieme a Montepulciano e Aglianico) e in quello pesante del legno piccolo, mantenuto in azienda, ma non solo come pratica: proprio fisicamente sono ancora quelle prime barrique, e quindi ormai esaurite per quanto riguarda la cessione di tannini e sostanze aromatiche.
Sarebbe bello raccontare la storia degli antichi attrezzi recuperati, o dell’antico frantoio, ma vi consiglio di andarla ad ascoltare voi stessi.
Passo ai vini, provati nella bella sala preparata per il nostro gruppo.
Krita 2010 (Malvasia 80%, Chardonnay, una manciata di Fiano minutolo). Colore giallo brillante, profumi dolci e intensi di fiori bianchi, un tocco di mandorla. In bocca è grande la freschezza, che bilancia assieme ad una buona sapidità la morbidezza che potrebbe sembrare eccedente, all’impatto (sia al naso che in bocca).
Massara Rosa (Negroamaro 100%) Questo rosato è frutto di una macerazione di massimo un giorno sulle bucce del Negroamaro, proveniente da vigneti in biologico (dal 2010 l’azienda ha la certificazione sulle uve e sulle olive). Rosa antico, profumi di fragola, gradevoli, in bocca discreta morbidezza e sapidità. Piacevole.
Filimei 2009 (Negroamaro in purezza). È uno dei vini base dell’azienda: Negroamaro dall’Agro di Cutriofiano, solo acciaio, 13,5°. Un bel rubino scuro e trasparente. I profumi sono di frutta rossa, spezie, prugna sotto spirito. Caldo e importante, la freschezza lo bilancia bene.
Jema 2009 (Primitivo in purezza). Rubino profondo, più impenetrabile del Filimei. Profumi piacevoli, di ciliegia, in bocca è rotondo, privo di asperità, piacevole. È da vedere quanto sia la bevibilità, in una prova a tavola, in cui valutarne anche l’abbinabilità (temo possa essere stancante, ma da un assaggio estemporaneo ad una prova più accurata potrebbe cambiare il giudizio).
Astore 2007 (Aglianico in purezza). Quello che mi ha stupito di questo vino è l’acidità alta, che gli dona una freschezza inaspettata. L’affinamento in legno piccolo per 12 mesi ha lasciato un’impronta importante (forse un po’ eccessiva) soprattutto al naso.
Alberelli dal 1947 2007 (Negroamaro in purezza). Alcuni anni fa, è stato acquistato e recuperato questo vigneto di alberelli “cesellati a mano come sculture, nodosi, contorti e forti, da sopravvivere nel tempo ai venti e alla siccità della nostra terra”, di 4 ha. Se ne ricavano poco più di 3500 bottiglie, viste le rese bassissime, sui 25 hl/ha. Il calice ci presenta un rubino maturo con unghia granata, molto bello. I profumi sono prima di frutta rossa matura, poi balsamici, e di cacao, eredità evidente di un lungo affinamento (30 mesi in totale tra legno e bottiglia) che forse deve ancora integrarsi pienamente per lasciare al vino la possibilità di esprimere il proprio carattere. In bocca è eleganza e profondità, splendide.

Azienda PalamàPranzo light e veloce (un paio di friselle, pomodori, qualche pezzetto di focaccia e formaggio) e poi i pasticiotti! …finalmente possono avere la loro degna fine! Erano molto buoni.
Si risale in autobus, a dire il vero un po’ provati dal caldo da cui avevamo trovato rifugio prima sottoterra, poi nella sala e poi di fretta in autobus. Palamà ci aspetta.
Cutrofiano, 1936. Arcangelo Palamà, sin da giovane, inizia a produrre vino, che porta lui stesso con le botti sui carri alle osterie della zona. Nel 1988 il figlio Cosimo, da qualcuno di noi soprannominato l’Orson Welles del rosato (e Cosimo quasi temeva fosse un’offesa), rileva l’azienda e arriva prima la modernizzazione dell’azienda, che vende ancora però in damigiane, e poi, dopo alcuni anni, la produzione di bottiglie di qualità più elevata, che tuttora da Palamà si cerca di incrementare.
La cantina non sarà così suggestiva come in certe masserie, ma l’atmosfera molto informale ci fa concentrare sui vini, e capire il personaggio, mentre camminiamo fra i vecchi fermentini di cemento e le pile di barrique che sfiorano il soffitto, per sfruttare ogni angolo.
Eccoci allora iniziare con un bianco, Salento IGT 2010, a base Verdeca e Malvasia. Questo vitigno, la Verdeca, lo abbiamo incontrato diverse volte, in questa settimana, soprattutto a tavola. Non è particolarmente aromatico, né si distingue per la forza di altre uve bianche. Mi fa venire in mente piuttosto un verdicchio, o forse un glera. Ad ogni modo in questa unione con la Malvasia dona un bianco pulito, semplice appunto, profumato (merito della Malvasia, credo) e una discreta grassezza. Piacevole senza impegno.
Siamo saliti al Rosato Metiusco 2010 (che significa mi ubriaco, ed è la linea che unisce questi primi quattro vini), ottenuto da un vigneto di Negroamaro ad alberello, lo abbiamo trovato vivace, nel colore cerasuolo brillante, nei profumi di frutta rossa, nella semplicità che lo contraddistingue. A molti ha entusiasmato, io l’ho trovato poco ambizioso, quasi timido. Probabilmente questo è proprio il suo punto di forza: la discrezione.
Provati poi due rossi, sempre molto schietti ed immediati: Salento IGT Rosso (Malvasia Nera 25, Negroamaro 50, Primitivo 25) caldo e di corpo, ben fatto; il Metiusco Oro Passito poi, non mi ha convinto: l’ho trovato freddo, almeno confrontando i passiti rossi che sono abituato a conoscere. Infine, per il 75° dell’azienda il figlio di Cosimo, Michele (che intraprenderà a breve gli studi di Enologia: ancora auguri!) ha prodotto una particolare cuvée affinata in legno piccolo, a partire da Negroamaro, con coda di fermentazione e malolattica in barrique: notevole. Appena il legno si sarà integrato e sarà molto più discreto nei profumi (che sono di un buon frutto, assieme a speziature discrete), esprimerà davvero grande personalità, coinvolgente e misurata, con garbo.

risotto di spaghettoni con gamberoni imperiali e fiori di zucchinaUn caffè per resistere ancora al caldo, sbirciando fra vecchie foto, attrezzi antichi e qualche strana bottiglia, tuffo in autobus e via a Maglie, al pastificio Benedetto Cavalieri. Bel personaggio il Palamà, ma anche Cavalieri… Solo questa visita meriterebbe un articolo, quindi sarò breve: la qualità della loro pasta è all’ennesima potenza. C’è una dimensione e un approccio artigianali al mestiere del far la pasta, che si respira. E Cavalieri è travolgente nel suo spiegarti tutti i dettagli che fanno di questo pastificio uno dei più importanti d’Italia. La selezione delle farine, controllate visivamente quando scaricate e stoccate subito prima della lavorazione, l’impastamento lento, l’essicazione dolce e lenta (il cosiddetto Metodo delicato), fanno della pasta di Cavalieri un prodotto unico, lungo da cucinare, ma con la caratteristica ruvidità delle paste artigianali, con quella cessione dell’amido che lega a sé il sugo. Potrei continuare con l’elogio, ma ne avrò modo stasera.. cioè: con la cena di questa sera!
In effetti non eravamo nelle nostre migliori condizioni, dopo quell’ora circa di autobus che ci ha riportato a Ceglie. Però la sera stavamo lì, a cena da Graziano, pensavamo rincuorati.
In realtà non sapevamo a cosa andavamo incontro. Vedere per credere, il gustoso video di Carlo Macchi: il punto in questione si trova al minuto 4:50.
Il menu recita: “Passeggiando in cucina e assaggiando qualcosina.. l’aperitivo di benvenuto: cotto, crudo e mangiato lì per lì, quel che c’è“. Bene: solo questo significava una cena. Ma le prelibatezze, dalle bombette alle focacce, sino al pesce freschissimo erano troppo ben fatte per resistervi, ahinoi.
Giunti a tavola, senza più sentire il morso della fame fisica, ma solo di quella spirituale (sì, ecco… diciamo che abbiamo nutrito il nostro spirito!), ecco il “saluto della cucina” (quello di prima che era?) con una citedda in acqua di pomodoro, sgombro al vapore, e insalatina di puntarelle con capperi e acciughe: un tuffo dei sensi in un piatto mediterraneo nella sua essenza. Segue l’antipasto, ovvero un tonno (intero, uno a testa) semicrudo con finocchietto su crema di peperone e tortino di catalogna con cuore di burrata: appagante nel più bel senso della parola. Temiamo il crescere di questi piatti.
Appunto. Falso risotto di spaghettoni (quelli di Cavalieri) con gamberoni imperiali e fiori di zucchina: cotti, dopo essere stati spezzati, a mo’ di risotto: sì può dire goduriosi al massimo, o è poco professionale? Era il tipico piatto che non ti metti lì a smontare, notando la cottura perfetta della pasta, o il gambero saporito, eccellente, con quel pomodoro… lo mangi, e cerchi di imprimerti quanto buono fosse per ricordarlo!
Ne è seguito bis per tutti (i più arditi hanno azzardato a porzioni più sostanziose).
Ombrina in casseruola con raspadura di limone e orticello di verdure alla menta. Profumatissimo e delicato, morbido: forse ci voleva qualcosa di tanto essenziale per tirare fiato.
Un pre-dessert inusuale, molto particolare, frutto dell’unione di sapori contrastanti, ma ben riuscito: formaggio tenerello alla piastra (e se ricordo bene poggiava su dello zucchero di canna, pochi granelli) con insalatina di arance e vincotto di fichi. Ha colpito.
E il dessert poteva essere meno stravagante? Minestrone di frutta e verdura con gelato alla vaniglia in sbriciolata di frise e sale alla liquirizia: troppo complesso da spiegare, ma interessante e leggero: ce n’era bisogno.
Era tardi, mezzanotte era già passata. La giornata era stata la più lunga della settimana, e finalmente credevamo il letto ci aspettasse. Esce Graziano con tutta la brigata: applausi meritati, bella performance. Non ricordo se cogliendo l’ironia di qualcuno che forse “aveva ancora fame” o se per sua iniziativa, l’estroverso Chef caccia tutti in cucina: si deve preparare uno zabaione per concludere la serata. E così fa: zabaione improvvisato per tutti. Se siamo sopravvissuti possiamo affrontare qualsiasi cosa, ora!

Vigna della Masseria Li Veli28 luglio
Faticosamente trascinate le nostre membra appesantite (no, la cucina è stata leggera nelle intenzioni: ci ha fregato l’aperitivo, e forse il ripasso di quegli spaghetti favolosi) sull’autobus, ci avviamo (poco) gloriosamente verso Cellino San Marco.
Destinazione Cantina Due Palme.
Questa cantina sociale riunisce circa mille soci, e credo che questo la renda una delle più grandi realtà di tutta la Puglia. E lo si vede dalle dimensioni delle cisterne d’acciaio, e delle presse in manutenzione per l’imminente vendemmia.
Terminato il giro con la gentile responsabile (credo del marketing; avremmo apprezzato di incontrare Angelo Maci, presidente tra l’altro anche del Consorzio di Tutela dell’alberello pugliese) che abbiamo assalito di domande (“ma controllate solo il Babo?”, “quante ore macera quel rosato?”, “qual è la resa ettaro di quel vino?”, “quanto lo lasciate in pressa?” oltre alla domanda di rito.. quella che vi svelo alla fine) saliamo in sala degustazione: scaldiamo i motori con lo spumante rosé Melarosa (un extra-dry da Negroamaro in purezza), che però non era nelle mie corde, a seguire il Rosalita, da Negroamaro e Malvasia Nera, con una macerazione delle bucce durata circa 6/7 ore. La fermentazione alcolica a 15°C e l’affinamento in vasche d’acciaio termoregolate. Il risultato? Un rosato equilibrato e corretto, anche se forse troppo diverso da certi rosati, tanto da ricordare ad alcuni il Ramato. Mi ha lasciato parecchi interrogativi.
Fuggiamo sotto un sole fortissimo verso Masseria Li Veli, sempre a Cellino.
Due parole sull’azienda con Giovanni Dimitri, disponibile e cordiale nel condurci durante la visita. La struttura è stata costruita fra ‘800 e ‘900 in una posizione strategica, su di un antichissimo sito messapico dominante la piana del Salento. Il suo antico proprietario, il marchese Antonio de Viti de Marco fu economista di fama internazionale, professore universitario e Deputato del Regno d’Italia. I Falvo (quelli di Avignonesi per intenderci) l’acquistano nel ’99, la sistemano (molto bene direi: gli ambienti sono bellissimi), e iniziano a produrvi vino. Avevo detto due parole però! …sfidiamo il sole impavidi, e ci tuffiamo in un “pezzo” di alberelli. Un cosa?
Un clos, una parcella “standard” di circa 4 ettari circondata solitamente da ulivi. Finalmente una vigna (la seconda da martedì: basta vasche di cemento!) e finalmente un bell’alberello: a settonce, come quasi tutti i 33 ha di proprietà, di grande densità e ridottissima possibilità di meccanizzarlo (trattamenti antiperonosporici e antioidici a parte, fatti con un enjambeur – visto l’argomento: sono bio certificati; per la vendemmia l’uva è portata in salvo grazie ad un coraggioso vecchio Pasquali, un motocoltivatore di quelli che non trovi più… sigh).
Nostalgia a parte, sotto quel sole cocente mi perdo a fotografare l’acinellatura del Susumaniello, altro interessante autoctono pugliese, o l’invaiatura del Negroamaro. Un alberello ben tenuto ha sempre il suo fascino, sarà per la sua essenza archetipale, sarà perché è la maniera che la vigna predilige (anche se non per tutti i vitigni sarebbe ragionevolmente gestibile, motivo per cui è stato ampiamente soppiantato dalle spalliere, che van bene per tutto).
Forse è il caso di tornare nella frescura della cantina. Al dì là di un’arcata, dietro alcuni vetri, file di barrique, qualche “mezza-barrique”, e poi dietro l’altra porta i vinificatori d’acciaio. Confesso che mi guardavo intorno per vedere quei due gioielli (la scavallante e il Pasquali).
Le vinificazioni non sono poi così complesse: le uve sono solitamente stoccate in una cella frigorifera per abbassarne leggermente la temperatura, poi pressate, o diraspate e pigiate; macerazioni più o meno lunghe nei vinificatori verticali o orizzontali (rotomaceratori).
Un paio di aneddoti sul significato delle quattro croci sull’etichetta (era la firma di quattro contadini che secoli fa vendettero il proprio terreno) e si passa all’assaggio.

aleaticoAskos 2010 (Verdeca 90%, Fiano minutolo 10%, 13°). Le uve da questi vigneti a spalliera sono raccolte, raffreddate, pressate, macerate. Il vino fermenta a bassa temperatura; viene imbottigliato senza aver svolto la F.M. Il risultato è un vino ampio, voluminoso, con sentori di frutta matura; in bocca si conferma questa sua larghezza, che unita ad una discreta acidità gli danno una buona persistenza. Prendiamo posto a tavola: pranzo light era previsto, ed invece è stato un pranzo a tutti gli effetti.
Partiamo con il Susumaniello 2009 (pochissime bottiglie già tutte esaurite). Colore rubino maturo, luminoso. Profumi di confettura, cacao, spezie. Grande eleganza nel tannino vellutato ben integrato con le altre componenti. Si apre su un’intrigante nota di incenso, legno di sandalo. Qualcuno ricorda il “naso” di un Pignolo. È piacevole nella sua struttura non eccessiva, molto misurata.
Passiamo al Montecoco (se ricordo bene sempre 2009, Primitivo in purezza, ma l’ho saputo alla fine), che offre un naso insolito, di canditi, cotognata, datteri. L’impatto gustativo è buono, con un tannino maturo, ma che viene spazzato via dall’alcolicità che lascia in eredità una sensazione quasi amara, in un retrogusto che ricorda la ciliegia.
Chiudiamo con l’Aleatico 2007. È una prova da botte, e non ne troverete ancora traccia sul sito.
Il periodo della vendemmia ricade solitamente intorno alla metà di settembre; i grappoli selezionati in campo e disposti su plateau. I singoli plateau vengono poi accatastati uno sull’altro e portati rapidamente in Masseria dove iniziano il loro appassimento che dura intorno ai 45 giorni.
Una volta concluso, i grappoli vengono dapprima diraspati manualmente, in quanto il raspo è troppo secco per una pigiadiraspatrice; quindi l’uva passa in tonneaux di rovere da 5 hl, nei quali si svolge una fermentazione naturale, con follature manuali. Terminato il lento processo di fermentazione, il vino e le bucce diventate un tutt’uno richiedono l’utilizzo di sacchi di lino per la pressatura effettuata manualmente.
L’aleatico viene messo a riposo in demi barrique da 112 litri, per un minimo di tre anni. Terminato l’affinamento passa in acciaio, per permettere la naturale sedimentazione delle particelle fecciose, in quanto il vino non viene filtrato. Il colore è stupendo, ambrato carico. I profumi sono densi, di miele di castagno, di caramella, di confettura di prugne, di dattero. In bocca ha densità e quasi cremosità. È pieno e presente, quasi masticabile. Viene da chiedersi come si riesce a bere una cosa così concentrata. Eppure è di una bellezza unica. Alcuni dicono: se conoscete l’Occhio di Pernice…
Ce lo meritiamo un pomeriggio (alla fine giusto qualche ora) di relax? Direi di sì dopo tutto questo lavorare. E così sia.
Alle otto in autobus: direzione il Mar piccolo di Taranto, Relais Histò.
L’arrivo ci lascia un po’ spiazzati: è praticamente un intero borgo, strutture antiche chiuse da un muro alto, varcabile da un cancello tenuto chiuso. Le luci aumentano l’aria di maestosità del palazzo, in quella fine di tramonto.
Dopo un aperitivo che ho trovato un po’ strano (e con qualche errore: il Prosecco a Taranto no eh!) abbiamo visitato la Spa: monumentale, enorme, affascinante. Certo, io dopo due ore mi sarei già stufato, ma se qualcuno vuol prendersi una settimana dal Mondo, credo sia un buon posto.
Sulla cena credo di sorvolare: lo chef non era ai fornelli (per un motivo che non ho afferrato: ci ha detto questo l’ultima sera, a La Fontanina), e la performance non è stata valutabile.

Andrea Fasolo

Aspirante agronomo, laurea in Scienze e tecnologie viticole ed enologiche e poi in Scienze agrarie, innamorato tanto della vite che del frumento, e tanto delle colture quanto della cultura che vi affonda le radici. Lo appassionano tutte le forme di agricoltura a basso impatto e ad alta fertilità, che mettono la terra al centro dell'agricoltura e del mondo che ruota attorno al più antico e nobile dei mestieri.

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