Un paese di panificatori che mangia sempre meno pane
Le statistiche ci dicono che il consumo di pane è in calo o che si affermano nuove tipologie di usi e di consumi
La visione degli scaffali dei supermercati vuoti, deserti, come fosse passata un’orda di barbari o come il risultato dell’annuncio dello sbarco degli alieni sulla Terra, ci impiegherà probabilmente un po’ di tempo prima di scomparire dai pensieri di molti di noi.
La contesa dell’ultimo pacco di farina, di qualsiasi grano, tipologia e provenienza fosse, e naturalmente anche dell’ultimo cubotto di lievito nella quale prima o poi tutti noi siamo incappati durante il primo lockdown del 2020, è una di quelle esperienze che verrà riportata sui libri di storia dei nostri nipoti e che ha messo in luce inaspettati comportamenti umani sul fronte dei consumi.
Certo, è stata un’economia di guerra, come molti hanno sottolineato, sclerotizzata dall’impossibilità di muoversi da un comune all’altro neanche per fare la spesa, aspetto che ha fatto saltare una parte dei trend di consumo alimentare più collaudati, mentre dall’altro ha risollevato le sorti di categorie merceologiche se non agonizzanti, quanto meno stagnanti da tempo.
I fondamentali, quelli che gli esperti chiamano prodotti basic, sono risorti e l’effetto “tutti cuochi in casa” ha avuto tra le sue massime espressioni anche quella del “tutti panificatori in casa”, con risvolti tipici del mondo social nel quale siamo immersi, ovvero un’invasione di post e foto di qualsiasi realizzazione prevedesse l’uso di farina, acqua e lievito. In realtà la riscoperta dell’arte bianca era in atto già da anni e nomi come quelli di Eugenio Pol, Ezio Marinato o Davide Longoni, sono diventate icone e punti di riferimento per una serie di giovanissimi panificatori folgorati sulla strada delle farine integrali, dei grani antichi e dei lieviti madre.
Eppure l’Italia è un paese che da tempo ha drasticamente abbassato i consumi di pane e la pandemia, sebbene ne abbia risollevato in parte le sorti, ha in realtà fatto da acceleratore di comportamenti polarizzanti già in atto nell’era pre-pandemica.
Fino al 2019 il nostro Paese indossava la maglia nera in Europa: 41 kg all’anno di consumo pro-capite, contro gli 88 kg della Romania, gli 80 Kg della Germania, i 57 kg dell’Olanda e ancora i 52 Kg della Polonia, i 47 Kg della Spagna, i 44 Kg della Francia e i 43 Kg del Regno Unito. Giusto per capire le proporzioni di questa ecatombe e senza tornare ai dati precedenti la Seconda Guerra Mondiale, in Italia negli anni Ottanta si consumavano in media 84 kg di pane a testa. In un’intervista del luglio 2019 al Corriere della Sera il presidente di Assopanificatori Davide Trombini invocava lo stato di crisi per il settore a causa dei costi troppo elevati dei laboratori, i prezzi sotto l’indice medio di incremento dei prodotti alimentari, tariffe per le utenze troppo alte, i vincoli della burocrazia, la concorrenza sleale della Gdo che utilizzerebbe il pane fresco come prodotto civetta fino “al fenomeno dell’importazione del pane congelato dall’Est Europa, realtà libera dalle nostre normative e dalla nostra tassazione, capace di esportare da noi un pane di qualità inferiore e a prezzi stracciati”.
Non sono pochi i motivi di questa perdita di chili annui di pane, sebbene la frequenza di consumo quotidiano rimanga oltre l’84%. Ancora a inizio 2020 tra i motivi principali di coloro che avevano smesso di consumare pane o di consumarlo in modo saltuario vi erano motivazioni di natura soprattutto dietetica e salutistica. In effetti, come lamentava ancora Trombini nel precedente articolo del Corriere della Sera, l’attacco al pane sferrato dai dietologi, dal suo punto di vista esagerato, ha contribuito alla sua perdita di fascino. Difficile, per chi scrive, capire se si tratti di esagerazione o meno, considerando che il problema della qualità media delle farine utilizzate per la panificazione un po’ ovunque è reale e non certo secondario. Certo le tendenze in atto un anno e mezzo fa così come le ultime, fanno emergere la richiesta di un pane differente non solo in Gdo, dove la qualità media non si è certo mai distinta, ma in generale anche in una normale panetteria. E questo deve far riflettere.
Non è un caso, quindi, come una recente indagine svolta a febbraio del 2021 dall’Istituto Piepoli sul settore del cosiddetto “bakery salato” dia conferme più che smentite. Il consumo di pane tradizionale è calato negli ultimi 12 mesi del 2% mentre è cresciuto del 4% quello di pane confezionato: al netto del desiderio di farci il pane in casa, nella realtà dei fatti la stragrande maggioranza dei consumatori, a causa delle restrizioni della pandemia, ha preferito fare scorta con pani a lunga conservazione, sulla cui qualità media è, francamente, meglio soprassedere.
Un aspetto che è rimasto intatto tra periodo pre-Covid e post-Covid è la richiesta di pane da farine integrali (+10%), senza glutine (+3%) e biologico (+20%) e da materie prime italiane (+22%). Tutti i trend salutistici – sicuramente appartenenti alla cosiddetta fascia premium quanto a prezzi – invece di crollare si sono super consolidati.
Insomma, siamo in piena polarizzazione da anni e non se ne esce. Anzi, la forbice tra alto e basso ha fatto un ulteriore salto. Fenomeno d’altronde comune a tanti altri settori dell’agroalimentare.
Alessandro Franceschini
Fonti
– www.universofood.net/2019/07/11/pane-dati-2019
– www.agricultura.it/2020/01/20/pane-italia-maglia-nera-fra-i-consumatori-europei-solo-41-kg-annui-pro-capite-cresce-la-richiesta-di-farine-antiche-e-bio
– www.gdonews.it/2021/03/11/istituto-piepoli-ricerca-su-bakery-salato-gli-italiani-cercano-prodotti-salutari-e-con-farine-100-italiane
– www.aislombardia.it/viniplus/non-solo-vino/la-new-wave-dell-arte-bianca.htm
–www.informatoreagrario.it/news/consumi-calo-pane-bio-integrale