
Il mio primo incontro con la Tenuta Col d’Orcia risale al 1999, fu una visita importante che mi permise di inquadrare subito le grandi potenzialità di questa azienda, di proprietà della famiglia Cinzano dal lontano 1973. Ma prima voglio raccontarvi un fatto curioso che avvenne proprio in quella giornata. Ero partito con l’intento di visitare prima Agostina Pieri e poi Col d’Orcia, ma non conoscendo ancora bene la zona, prima di giungere a destinazione mi imbattei in un cartello che mi mise in confusione: “Azienda Agricola A.Pieri“. Convinto di essere arrivato entrai con una certa circospezione, intorno c’erano galline, oche e un ambiente boschivo abbastanza atipico per un’azienda vinicola, ma la cantina c’era, e c’era il proprietario, uomo, non ebbi il coraggio di chiedergli a quale nome corrispondesse quella “A.” sul cartello. Mi disse che produceva solo sangiovese, ma si limitava a fare il Rosso di Montalcino perché fare il Brunello per lui era antieconomico vista l’esigua produzione di bottiglie, “tanto lo vendo tutto“. Nel frattempo aumentavano in me i dubbi, anzi, ero quasi certo di avere sbagliato azienda, ma ormai ero lì, perché non assaggiare il suo vino? Beh, ragazzi, era un po’ rustico ma andava giù che era una meraviglia! E costava solo 4.000 lire… ne comprai 6 bottiglie, che purtroppo si sono esaurite velocemente. Difficile dimenticare questa divertente esperienza, il vignaiolo era piuttosto anziano, quindi non ho idea se l’azienda esista ancora, non ho visto figli ma solo la moglie.

Dunque, dicevamo di Col d’Orcia, non è certo un’azienda qualsiasi, oltre ad essere il terzo produttore di Brunello con 108 ettari vitati (il primo è Banfi con circa 190 ettari e il secondo Castelgiocondo con oltre 150), il suo contributo nella ricerca è stato fondamentale; iniziata ben prima del boom del vino italiano e sempre work in progress, ha portato all’omologazione nel 2003 dei primi due cloni di sangiovese: SG-CDO-4 e 5, a cui si è affiancato nel 2001 il clone SG-CDO-8. Anche la questione densità di impianto non è da trascurare, partire a priori con 10.000 piante per ettaro non ha alcun senso se prima non si è verificato qual è l’equilibrio ottimale per ottenere il miglior risultato, per questo è stato impiantato un vigneto sperimentale con densità variabile da 2.500 a 8.000 ceppi per ettaro, utilizzando tre diversi portainnesti, e guarda caso la sperimentazione ha dimostrato che non sempre le alte densità forniscono i migliori risultati per il sangiovese, quantomeno nel territorio di Montalcino. Per quanto riguarda l’inerbimento in vigna, altro elemento tutt’altro che trascurabile, si è evidenziato che, oltre ad evitare i dilavamenti nei terreni con forte pendenza, la tipologia migliore di inerbimento è quella con essenze erbacee spontanee e diversificate, che assicurano un nutrimento più completo per il terreno. Ovviamente la ricerca è a tutto tondo, quindi si lavora per migliorare gli interventi di potatura verde e invernale e di gestione della chioma, fattori che incidono fortemente nella distribuzione delle energie della pianta e nella protezione dei grappoli, ancor più negli ultimi anni in cui abbiamo a che fare con un clima sempre più bizzarro e imprevedibile. Dal 2010 vigneti, oliveti, seminativi e tutto il parco della Tenuta sono condotti esclusivamente con pratiche agronomiche di tipo biologico, Col d’Orcia diventa così la più grande azienda vitivinicola biologica toscana.
Il 12 febbraio scorso presso il Grand Hotel Villa Cora di Firenze è stata un’occasione davvero piacevole per una verticale del Brunello di Montalcino Poggio al Vento Riserva, al quale sono stati affiancati tre campioni di Brunello annata. Il Conte Francesco Marone Cinzano ha volutamente evitato di condurre la degustazione lasciando ai numerosi invitati il piacere di valutarli in assoluta tranquillità, preferendo raccontare un po’ la storia dell’azienda e le caratteristiche del territorio. I vini in degustazione erano i seguenti: Brunello di Montalcino 2009, 2008 e 2006 Brunello di Montalcino Poggio al Vento Riserva 2006, 2004, 1998, 1990 e 1982.

LA DEGUSTAZIONE
Brunello di Montalcino 2009 – quando si ha a che fare con il Brunello di Montalcino, con il Barolo e il Barbaresco, con il Taurasi e con tutti quei vini che hanno nel loro DNA le caratteristiche per un’evoluzione lenta e duratura, non si può pretendere di trovarsi nel calice, all’inizio del suo percorso, un vino già godibile e completo nel suo manifestarsi. Questo millesimo, che si apre alla vista con un bel colore rubino vivace con vaghi accenni granati ai bordi, lascia solo intravedere le sue possibilità future, certamente l’annata ha favorito, soprattutto nel periodo settembrino, una maturazione piena delle uve, confermata dall’approccio espressivo già in parte aperto e stimolante, con note di viole e rose, cipria, ciliegia e lampone; è semmai al gusto che dimostra tutta la sua giovinezza, nel tannino fine ma ancora scalpitante, nella freschezza piena e nel percepibile contributo del legno. L’evidente traccia sapida e una personalità che sta già delineandosi sono elementi sufficienti per poterne apprezzare le sicure potenzialità. 2008 – a dimostrazione di quanto sia determinante l’andamento climatico, che rende ogni annata differente, qui ci troviamo di fronte ad un vino per certi aspetti più pronto e apprezzabile, rispetto alla versione 2006. Lo si percepisce già nella componente tannica, meglio integrata nella polpa, certamente c’è minore ampiezza e complessità, le sensazioni pseudocaloriche più manifeste e una struttura compatta e meno elegante lasciano supporre più stabilità nel tempo che grandi capacità evolutive. Ma questa è l’impressione del momento, molto spesso vini di questa tipologia possono rivelare percorsi inattesi, staremo a vedere. 2006 – nonostante quanto ho espresso in precedenza, questa è l’annata che mi ha più convinto, senza alcuna incertezza, la 2006 è quella che meglio mette in risalto la grande qualità del Brunello di Col d’Orcia, che nel Poggio al Vento raggiunge livelli straordinari. Qui al frutto e ai piacevoli ricordi floreali, si accompagnano le prime importanti venature speziate, di tabacco, ginepro, liquirizia e leggero pepe. La tessitura tannica è di eccellente finezza e la sua breve aggressività tenderà a scomparire negli anni.

Brunello di Montalcino Poggio al Vento Riserva 2006 – si profila già ora come una delle migliori annate di sempre, dove l’eleganza domina nonostante la struttura importante: bouquet che regala note di viola, rosa canina, ciliegia e lampone appena maturi, leggeri prugna e ribes, bei riflessi balsamici e di eucalipto e una speziatura in formazione davvero raffinata. Eccellente al palato, grande intensità e profondità, il tannino è esemplare, tanto fitto quanto finissimo, la differenza fra “sostenere” e “sormontare” è evidente, sembra quasi meno incisivo che nel Brunello annata, ma è solo perché è puro velluto. Uno di quei vini che vanno messi in cantina e dimenticati per molti anni, ma non senza averne comunque stappata una bottiglia ora! 2004 – la lettura di questo millesimo sembra piuttosto facile, grazie al grande equilibrio e alla notevole complessità che manifesta già all’olfatto: l’impronta balsamica è molto evidente ed è confortata da belle note di tabacco da pipa, cuoio, ginepro, liquirizia, pepe, non senza lasciare spazio al frutto in confettura; ancora una volta torna la nota di eucalipto e bei ricordi di viola appassita. Al gusto ti coinvolge al primo sorso, tutto fluisce senza ostacoli su una base piacevolmente fresca e un tannino praticamente perfetto; finale lunghissimo, balsamico, sapido, equilibrato. 1998 – l’ampio deposito, il colore che appariva stanco e il profumo fortemente evoluto e ossidato mi hanno spinto a chiedere di versarmi il vino da un’altra bottiglia, non poteva essere questo il vero ’98, ogni tanto può capitare la bottiglia sfortunata, un cattivo tappo può colpire anche così. E ho fatto bene perché questa volta mi sono trovato davanti ad un Poggio al Vento del tutto diverso, ancora giovane, dove rose, iris e ciclamini accompagnavano una ciliegia matura ma non in confettura, poi hanno fatto ingresso il pellame e il tabacco, il cardamomo e note di sottobosco. La bocca si è rivelata morbida, godibilissima, pervasa da una piacevole dolcezza ma ancora ben sostenuta dalla freschezza. 1990 – una delle poche annate di cui conservo ancora una bottiglia, e me la tengo stretta, perché a Firenze ho avuto conferma che il vino è tutt’altro che in fase discendente, anzi, appare più giovane della ’98. Profuma di rose macerate, frutti di bosco in confettura, timo, alloro, macchia mediterranea, poi arriva il terziario ma senza strafare, come a dire “abbiate ancora pazienza, non intendo darvi tutto ora”. La bocca è dolce, armoniosa, completa, quasi perfetta, non raggiunge l’eleganza di una 2006 ma è proprio una gran bella annata. 1982 – qui entriamo nella sfera dei vini per degustatori deliranti, si fa per dire, ma ammetto che quando si entra nella sfera dei grandi terziari, non tutti provano le stesse emozioni e apprezzano i toni della maturità. Per quanto mi riguarda ne vado caccia, perché hanno una tale ricchezza e profondità da lasciarmi senza parole. Questo 1982 è il regno dell’armonia, i sensi vengono accarezzati da una miriade di sentori, che siano funghi, tartufi, chiodi di garofano, radice di liquirizia, goudron, caffè, poco importa, è la modalità con cui vengono offerti che è pura poesia, non credo di poterlo esprimere a parole, e me ne dispiaccio, ma certi vini bisognerebbe veri sempre pronti, perché possono cambiarti radicalmente gli esiti di una giornata, allontanare qualsiasi pensiero spiacevole, e la sensazione di benessere va ben oltre il lasso di tempo di una degustazione. Vino indimenticabile.
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