Tutte le strade portano a Roma, e questo è un detto risaputo. Ma forse non tutti sanno che ci sono anche delle vie meno frequentate, che non ci conducono verso la capitale ma fra i vigneti della zona DOC Isonzo dove si fa una viticoltura di altissimo livello. Ci troviamo a Mariano del Friuli, sede dell’azienda “Le Vie di Romans”, dove Gianfranco Gallo è da trentasei vendemmie il protagonista assoluto delle fortune e dei successi di questa importante realtà produttiva. La storia della famiglia ci riporta indietro di parecchi secoli, ma se parliamo di azienda agricola, allora sono le ultime generazioni, capitanate dal nonno Basilio e dal padre Stelio, a occuparsi di vino, venduto sfuso o in damigiana. L’anno del nuovo corso è il 1978. Gianfranco, giovanissimo, entra in azienda e inizia un progetto di crescita personale che sarà parallelo allo sviluppo costante dell’azienda. Finiti gli studi, capisce quasi subito che il suo cammino non dovrà seguire tutti i rigorosi dettami della scuola di enologia. Le sue idee lo portano a esigere e perseguire una viticoltura che punti alla massima esaltazione del prodotto, ma ancor più del territorio con le sue molteplici e univoche peculiarità. Il suo cuore di vignaiolo batte per una terra, a nord della Francia, che ha fatto dell’esaltazione del terroir e del singolo vigneto il suo cavallo di battaglia e la sua ragione di esistere. La zona DOC Isonzo non sarà la sorella minore della Borgogna, ma l’eleganza e classe dei vini che escono dalla cantina di Vie di Romans, e la ricerca costante di prodotti che riescano a esprimere le differenze dei singoli cru, sono similitudini, non solo romantiche, che ci rimandano alla rinomata zona vitivinicola transalpina. L’anno 1990 si può descrivere con un’unica parola: cambiamento. La costruzione di una nuova cantina, efficiente e funzionale. La decisione di vinificare privilegiando ogni singolo cru e concedendo un anno in più di affinamento ai vini prima di essere commercializzati. Il cambiamento del nome dell’azienda, da Gallo (avvalendosi dell’antico detto che non vede positivamente l’azione di troppi galli nello stesso ambiente, la potente e omonima famiglia di produttori americani aveva fatto valere i propri diritti di esclusiva del marchio) a Vie di Romans, termine che deriva dal toponimo del tratto di strada che in tempi passati, da Aquileia raggiungeva Cividale del Friuli.
Cambiamento molte volte è sinonimo d’incertezza, ma per Gianfranco e la sua azienda invece è stato sinonimo di successo e scelte azzeccate. Un territorio vocato alla viticoltura, con un suolo ideale per esaltare il vitigno, e un clima ottimale che garantisce maturazioni costanti e lente con notevoli escursioni termiche, sono gli ingredienti principali per fare dei grandi vini. La mano dell’uomo in questo caso si sente eccome, ma più che la mano potremmo menzionare il contributo intellettuale che più di ogni altra cosa è capace di differenziare le persone. Nei 50 ettari di vigneto, Gianfranco Gallo ha deciso di intraprendere una viticoltura rigorosa dove tutte le varie componenti devono essere in equilibrio. Già dalla vigna parte un messaggio chiaro: i vini devono essere sì di qualità, ma devono anche identificare il singolo cru e soprattutto devono avere nella longevità, una delle caratteristiche irrinunciabili. Come un trapezista, che cammina sulla corda in costante equilibrio, anche il suo lavoro in cantina segue questa strada. Rigoroso ma non invasivo. L’uso sapiente di acciaio e barrique deve creare quelle condizioni di equilibrio che solo nei grandi vini è possibile ritrovare. Vengono prodotte circa 250mila bottiglie e i nomi in etichetta oltre a identificare il cru sono un chiaro riferimento alle antiche tradizioni friulane. Qui però non c’è nessun equilibrio. La bilancia pende nettamente dalla parte delle tipologie bianche. Vengono prodotte due versioni di Chardonnay, (il Ciampagnis Vieris e il Vie di Romans) e due di Sauvignon (il Piere e il Vieris). Altro rappresentante delle varietà cosiddette internazionali è il Dessimis Pinot Grigio. Le tipologie locali non sono però trascurate. Ecco, infatti, protagonisti anche il Dolée Friulano e il Dis Cumieris Malvasia Istriana.
Ad arricchire la gamma dei bianchi anche due blend. Il Flors di Uis (Malvasia Istriana 50 %, Tocai Friulano 35 % e Riesling Renano 15 %) e il Dut Un (Chardonnay 50% e Sauvignon blanc 50%). Interessantissimo il Gran a Gran, vino dolce con ultima annata in commercio 2006, prodotto da uve di Traminer, che quest’anno però sarà a base Malvasia, le cui uve sono lasciate ad appassire in vigna con gli acini attaccati dalla botrytis, la famosa muffa nobile. Anche se in netta minoranza, coraggiosi e impavidi rappresentanti delle tipologie rosse sono il Ciantons, a base Merlot ma prodotto come rosato, e il Maurus, Merlot in purezza. Gianfranco Gallo con i suoi vini è riuscito a sfatare un paio di luoghi comuni che nemmeno la crescente cultura dei consumatori è stata capace di dissipare del tutto. Per primo ha dimostrato che non solo in collina si possono ottenere grandi risultati. La pianura, se il terreno e il clima sono quelli ideali, riesce a regalare anch’essa grandi vini. Per secondo, se ancora ce ne fosse bisogno, ha dimostrato che anche le tipologie bianche, quelle friulane in particolar modo, possono essere longeve nel tempo, ne sono testimoni i vini di Vie di Romans che anche dopo 15-20 anni sono capaci di sorprendere ed emozionare.
DIALOGANDO CON IL VIGNAIOLO
Cosa c’è alla base della scelta di dare ai tuoi vini dei nomi così particolari e da dove derivano le nomenclature che compaiono in etichetta? Alla base di questa scelta, c’è la volontà di identificare i vini come unità territoriali e pedoclimatiche, oltre all’obiettivo di rappresentare i vari cru, ognuno con le proprie peculiarità e differenze. Partendo da queste basi, non potevamo usare una nomenclatura di fantasia e quindi la scelta è stata quella di puntare su termini che erano usati nel passato, da chi ci aveva preceduto, per identificare il territorio. Termini in lingua friulana adottati da generazioni. Potevamo fare delle analisi commerciali per identificare la fonetica più idonea per l’etichetta, ma questo non era il nostro scopo. Se si decide di lavorare valorizzando il concetto di cru, non ha senso inventarsi dei nomi solo per fini puramente commerciali.
La zona DOC Isonzo è stata sempre un po’ troppo sottovalutata, forse stretta dalla morsa ingombrante del vicino Collio e dei Colli Orientali del Friuli. I risultati che hai raggiunto sono il miglior spot elettorale per questa zona vitivinicola. Ma quali sono i veri punti di forza che permettono, a chi decide di fare viticoltura di qualità, di raggiungere grandi risultati anche in questo lembo di terra? Fare una grande vino senza avere a disposizione un grande terroir è impossibile. Le nostre sono zone di antica tradizione se si parla di coltivazione della vite, un territorio dove molte aziende agricole producevano in modo razionale già nel 1500 e che da sempre ha attirato le attenzioni di esperti e studiosi. A questo riguardo basti pensare che anche Louisis Pauster frequentava a metà ottocento una famosa azienda di Farra d’Isonzo (ora Tenuta di Villanova) disquisendo di microbiologia e vinificazioni con il proprietario, il nobile illuminato Alberto Levi, e compiendo importanti studi per combattere il calcino del baco da seta. La zona DOC Isonzo non è rappresentata solo dalle Vie di Romans, ci sono tante aziende che lavorano seriamente e producono ottimi vini. Non esiste competizione con le altre zone limitrofe che sono, sicuramente, vocate alla viticoltura di qualità e che hanno avuto una crescita e una visibilità molto più rapida. Ma bisogna anche sfatare il mito che i grandi vini si fanno solo in collina e che in pianura non ci sono grandi territori. Molti dei più grandi vini del mondo si producono su terreni pianeggianti e molte delle zone vitivinicole più rinomate sono in pianura. Negare questo significa negare il 75% dei più grandi vini al mondo. L’elemento fondamentale è sempre la terra. Esiste una differenza sostanziale fra un suolo autoctono che, una volta formatosi ha subito nei millenni trasformazioni fisico-chimiche sul posto di origine e un suolo invece alloctono, con prevalenza di argille ed elevata fertilità, formatosi altrove e trasportato dalle acque e poi sedimentato. Il primo risulta sicuramente più idoneo a una viticoltura di qualità. Quindi grandi vini in un grande terroir, e l’Isonzo lo è.
Qual è stata la scintilla, l’elemento scatenante, che ti ha convinto, a partire dagli anni ’90, a iniziare la vinificazione delle uve distinte per cru di provenienza e a commercializzare i vini dopo due anni dalla vendemmia? Il primo cru prodotto è stato il Piere Sauvignon nel 1984 e a seguire, nel 1990, tutti gli altri. Con il tempo ho capito che il metodo con cui si produceva in Borgogna era quello più vicino alle mie idee e alla mia filosofia. Una regione cui sono state date in dono dalla natura, ideali condizioni pedoclimatiche, dove i produttori conoscono il territorio a palmo a palmo e riescono a produrre vini di classe ed eleganza inimitabili e dove sono la zona e il vigneto a caratterizzare maggiormente la qualità dei vini. Massima espressione del terroir, quindi, senza andare alla ricerca di facili compromessi commerciali. Per quanto riguarda la scelta di commercializzare le bottiglie a due anni dalla vendemmia, il tutto è stato dettato dalla consapevolezza che un vino ha bisogno di tempo per maturare, evolversi e dare quindi il meglio di sé. Per me era prioritario presentare al consumatore un prodotto con il giusto equilibrio e capace di esprimersi ai massimi livelli una volta in commercio. Due parole descrivono bene la mia scelta: audacia e incoscienza. A un certo punto ho sentito che dovevo fare questo passo, ma ho scelto forse il momento peggiore poiché nello stesso anno ho costruito la nuova cantina. Non uscire con i vini e saltare dodici mesi d’introiti, nell’anno di maggiori spese, è stato sicuramente frutto di un sano pizzico d’incoscienza. Ma ero animato da questo desiderio e non ho fatto nessun calcolo. Fortunatamente i risultati mi hanno dato ragione.
Elementi fondamentali nella produzione di un grande vino sono ovviamente un territorio e un clima vocato alla viticoltura, e dei vitigni che riescano a dare il meglio di se in questo contesto pedoclimatico. Ma detto questo, per fare dei grandi vini, quanto è importante la figura dell’uomo, la tenacia delle sue azioni e la genialità delle sue idee? Anche se in precedenza ho affermato che il terroir è una condizione da cui non si può prescindere, la figura dell’uomo è ancor più importante e determinante con le sue scelte e le sue idee. Sta però nell’intelligenza dell’uomo non soverchiare ciò che un territorio potrebbe esprimere e ciò che un vino potrebbe regalare. Ogni uomo dovrebbe seguire i vecchi principi radicati e tramandati dalle prime civiltà agricole. Deve essere umile e consapevole che non si può sapere tutto. Deve vivere nel rispetto dei valori intrinseci del territorio in cui vive. Se manca questa sensibilità, anche se ci sono le capacità, si rischia di fare un prodotto industriale, senza anima. Un produttore deve sposare i valori del territorio in cui è nato. Imparare a conoscerlo e con il tempo la sintonia che s’instaura fra uomo e ambiente diventa determinante per ottenere grandi risultati ed è rappresentante di una vera tradizione culturale, duratura e longeva. Questo credo sia il vero valore aggiunto del nostro mestiere.
Già agli inizi, quando ti sei affacciato in azienda, avevi le idee molto chiare, soprattutto su concetti come qualità, cru e terroir, che per la viticoltura dello stivale erano ancora lontani dall’essere fatti propri. C’è stato qualcuno cui ti sei ispirato, o che è stato tuo maestro, e ti ha permesso di evolvere sia professionalmente sia come uomo? La situazione che vivo ora non è certo quella del 1978, anno in cui mi sono affacciato in azienda. Fresco di studio ero sicuramente più legato alle regole apprese a scuola ed ero un interventista nelle pratiche di vigna e cantina. L’esperienza però è maestra di vita. T’insegna ogni giorno qualcosa di nuovo. Prendi batoste, soffri e continui a imparare. Pian pianino si cresce e trovi a un certo punto la tua dimensione. Non c’è una persona in particolare che ho preso come guida. Ho preso spunti da molti, piccoli e grandi insegnamenti che ho fatto miei e che ho assimilato. Non posso però negare il fascino che il mondo culturale della Borgogna ha sempre suscitato in me.
Quali sono i segreti che permettono ai vini bianchi, i tuoi nel caso specifico, di avere un futuro radioso e longevo nel tempo? Bisogna innanzi tutto fare viticoltura in una zona che ha attitudine a produrre vini longevi. Un clima e un terreno adatti a questo scopo. Il Friuli in genere lo permette grazie alla squisitezza del suo clima e terreni che nelle loro differenze soddisfano le esigenze della vite. Ovviamente le scelte viticole ed enologiche possono confermare o disperdere quest’attitudine a produrre vini longevi.
Rubo una citazione che ho letto e dove tu dicevi: “Un buon viticoltore è come un bravo marinaio, non basta conoscere i venti, le attrezzature, le vele, la cosa più importante è avere un porto in cui arrivare”. La tua navigazione professionale si è svolta sempre in mari tranquilli o prima di raggiungere i tuoi obiettivi hai dovuto anche tu attraversare qualche mare in burrasca? Un marinaio non può valutare se un vento è favorevole se non sa dove vuol arrivare. Il nostro mestiere è così. Ci sono molti produttori che iniziano a lavorare senza avere un obiettivo enologico e i risultati non possono essere soddisfacenti. Una volta impressa nella mente la meta enologica da raggiungere, si possono fare le altre scelte, che diventano più facili da soddisfare perché la via è oramai tracciata.
Il 1969 è l’anno in cui nasce chi vi scrive (chi se ne frega direte voi) e l’uomo conquista la luna. Nel 1982 il mitico Presidente Sandro Pertini esulta come un bambino per festeggiare la vittoria dell’Italia ai mondiali di Spagna. Nel 1989 cade il muro di Berlino. Ma se ti dico 1990, che significato ha per te quest’annata? E’ un’annata sicuramente emblematica per la mia storia personale. Importante per la mia vita privata perché mi sposo. Dal punto di vista professionale è l’anno in cui abbiamo inaugurato la nuova cantina e deciso di vinificare tutti i vini per cru di provenienza, presentandoli sui mercati due anni dopo la vendemmia. È l’anno in cui l’azienda cambia nome, da Gallo al toponimo Vie di Romans. Il 1990 è stata certamente una delle migliori annate che ricordo con condizioni climatiche ideali e vini eccezionali. Non esiste un’altra annata che abbia trasformato e inciso, in termini così evidenti, il tessuto più profondo dell’azienda Vie di Romans.
Il successo del Prosecco in Italia e nel mondo testimonia forse un gusto globale che sta andando alla ricerca di prodotti poco alcolici, semplici e immediati. Tu che da sempre hai puntato, oltre che sulla qualità, anche su vini che potessero essere strutturati, di territorio, non modaioli, capaci di evolversi nel tempo, hai notato dei cambiamenti nelle richieste e nelle aspettative dei consumatori? Qual è il tuo pensiero al riguardo? Ovviamente ho grande rispetto per tutte le tipologie di vino e quindi anche per il Prosecco. E’ innegabile che il consumatore, per cause legate alla dieta, differente stile di vita, rischio ritiro patente, sia stato sensibilizzato al consumo di bevande con la minor quantità di alcol possibile. Certi produttori hanno anche cercato di adattarsi per soddisfare simili richieste, ma questo non ha nulla a che vedere con ciò che deve rappresentare una bevanda come il vino, così legato ad aspetti culturali e storici. Una sintonia con il territorio ben precisa, soprattutto legata a un piacere edonistico che viene ricercato come fonte di soddisfazione dal consumatore. L’alcol è una conseguenza di tanti fattori. Non possiamo certo dire che un vino più alcolico sia migliore di uno che ne abbia meno, ma non si può nemmeno scappare da certe regole che esistono in natura.
Dove c’è alcol ci sono zuccheri e altre sostanze importanti che ritroviamo nelle uve mature. Rinunciare all’alcol significa rinunciare alla specifica identità di un vino. Se un territorio esprime certi livelli alcolici, necessari per dare la massima piacevolezza, perché tradire questa identità, solo per esigenze che riguardano fattori esterni? Ci sono vitigni come la Ribolla Gialla e la Vitovska che donano vini con basso grado alcolico ma che sono dei prodotti completi, senza sbavature. L’importante è l’equilibrio di tutte le componenti di un vino che, se tutte al posto giusto, fanno passare in secondo piano l’imponenza del grado alcolico e non snaturano le peculiarità di una tipologia.
Quali sono i sogni e i progetti di Gianfranco Gallo e quali le speranze per il futuro dei tuoi tre figli? Anche se sono passate ben trentasei vendemmie, non è che non serbi ulteriori sogni e progetti. Mi sento come se fossi appena partito nel mio cammino professionale. Nel futuro sarò felicissimo se avrò il piacere di avere accanto a me qualche figlio in azienda. I maschi di 18 e 20 anni stanno studiando enologia. La figlia di 16 ha preso un altro indirizzo di studi ma questo non preclude il suo eventuale impiego in azienda. E’ normale che un padre pensi al futuro e alla continuazione del proprio lavoro, frutto di tanti sacrifici. Ma è giusto lasciare ai propri figli la scelta su quale sia la strada da percorrere. Un genitore deve concedere lo spazio d’azione affinché i figli possano perseguire i propri desideri. Il mio grande sogno mira a fare vini da cru sempre più circoscritti e territoriali che possano rappresentare il singolo vigneto e che permettano al consumatore di godere delle più svariate espressioni organolettiche che ogni vigneto è in grado di donare. Probabilmente per dare sfogo a questo mio progetto dovrò ridurre le varietà, concentrandomi solo su quelle che penso possano dare risultati in linea con il mio progetto e la mia filosofia.
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