Walter De Batté. La buccia è territorio
Non ha e-mail, forse il fax, certamente il telefono, anche se ha tutta l’aria di poterne fare tranquillamente a meno. Ci accoglie in cima all’eremo di Campiglia, una piccola e arroccata frazione in vetta a una salita stretta circondata da castagni, che guarda al mare aperto del Tirreno, che poco dopo si congiunge con le insenature delle Cinque Terre, ma anche a quel vero e proprio fiordo ligure rappresentato dal porto di La Spezia. Così, dall’alto ha un aspetto meno minaccioso: domina l’arsenale che quasi si trasfigura insieme alle nuvole basse del mattino. Non ci fai quasi più caso e lo fondi insieme al tutto.
“L’asfalto ha ceduto, saliamo a piedi” e qualche centinaio di metri più in là una casa in pietra, una scalinata e un posto semi incantato, tra vecchissime travi, botti, bottiglie accatastate tra la pietra, piccoli serbatoi di acciaio inox e casse di vino. Un cesto di fresca focaccia e svariati bicchieri già preparati per tre persone attese: Franco Ziliani, Antonello Maietta e Augusto Manfredi.
L’intruso, intrufolatosi all’ultimo e senza preavviso, vale a dire il sottoscritto, costringe il gruppo a sparigliare i bicchieri, ma c’è posto sulla tavola di legno retta da due barrique.
Nonostante uno abbia appena cominciato ad accostarsi alla viticoltura delle Cinque Terre, tra piccoli garage-cantina incastrati tra le viuzze di Riomaggiore e vigneti a strapiombo sul mare, basta, in seguito, qualche ora inaspettata a parlare di territorio e di cinghiali, di muretti e armi subacquee, per capire che è meglio tirare una riga sopra quel poco che si pensa aver appreso in quasi due giorni di permanenza tra i Colli di Luni e una delle coste più famose dell’emisfero terrestre. Il colpevole si chiama Walter De Batté. Tanto legato al suo territorio quanto al tempo stesso avulso: vuoi per carattere, vuoi per la sua idea di lavoro, vuoi soprattutto per i suoi vini. Di carattere? Sapidi? Minerali? Nervosi? Certamente, e potremmo andare avanti pescando da tutto il vocabolario dal quale siamo soliti attingere quando ci troviamo di fronte a vini, diciamo, “diversi” od “originali”, se vogliamo, specie se filosoficamente vicini a tipologie oramai di culto, come quelle prodotte in altri lidi, magari friulani, precursori di una certa idea di vino e di vigna che ha fatto scuola.
Ecco, vicini, ma non identici. Le aspettative, infatti, cambiano in poco tempo, basta lasciarlo respirare nel bicchiere. “Nei miei vini senti prima il minerale, poi il frutto”. Credi di trovarti di fronte a vini sostanzialmente cerebrali, magari solo cerebrali, ma una dolcezza esuberante del frutto, di quella complessità e finezza quasi ipnotizzante, rimescola le carte poco dopo. Eppure sono vini macerati sulle bucce: da dove salta fuori questa solarità sfacciata, a tratti potente e così dolcemente avvolgente? Dal territorio? Certo, ma anche da una idea di territorio e di enologia che segue e non segue contemporaneamente determinate regole. “L’idea, diciamo, della macerazione sulle bucce mi è venuta in mente lavorando sulla varietà bosco. All’inizio, però, la applicavo insieme al freddo, a basse temperature. Poi ho conosciuto Gravner…”.
Una lettera di Veronelli lo introduce al cospetto di colui che macera per mesi e senza freddo. “Capisco che posso macerare fermentativamente”. L’uomo della ribolla in anfora, però, lascia a contatto le uve bianche con le proprie bucce anche per mesi. “Io no. Con 4 giorni (poco più o poco meno a seconda dei casi, ndr) si esalta il territorio, dopo è una questione anche e soprattutto di tecnica, di gestione delle ossidazioni” che probabilmente tendono ad annullare sia il varietale di partenza che il relativo terroir, puntando verso lidi affascinanti, ma altri. Si parte, quindi, dal valore fondante della buccia “che è territorio”, specie per certe uve, “che devono essere trattate come fossero rosse”, ma non lo si estremizza. Ti ritrovi così di fronte a una componente aromatica tanto semplice nel suo darsi, quanto complessa da decifrare. Le sfumature seguono una traccia che ti sembra di riconoscere immediatamente, ma poi si stratificano in quantità tali da lasciarti stranito e con la voglia di ricominciare.
“Io credo che tutti i territori abbiano una valenza, si tratta di tirar fuori la loro specificità. Io cerco di farlo con il materiale che ritrovo e recupero”. La curiosità, la voglia di sperimentare, abbassare le rese e via discorrendo. Fin qui, nulla di nuovo o comunque di già sentito. Il rispetto di quello che ritrovo, salvo, a volte senza neanche essere sicuro del suo nome, invece, l’idea decisamente fuori dagli schemi, quasi da archeologo o etnologo della vigna. Così metti il naso dentro un bicchiere composito e spiazzante, frutto dell’unione di sangiovese, canaiolo e colorino e poi ancora dolcetto, cabernet e moscato nero. “E poi probabilmente anche di altro, solo che non l’ho ancora riconosciuto”. L’unico denominatore comune in mezzo a questo melting-pot è l’età delle vigne di partenza: 70 anni. Il vino si chiama Tonos e proviene dai Colli di Luni. Una concentrazione di colore poderosa e un equilibrio tra cremosità del frutto e freschezza gustativa, tra polpa ed eleganza, di fascino indiscusso.
Tonos e Harmoge e poi ancora Carlaz, Viasso o Sarricò. Nomi di bottiglie che non sono messi a caso. Certo pensati e non casuali, ma non figli di un atteggiamento naïf, costruito ad hoc per colpire il prossimo e distinguersi eccentricamente dal resto del gruppo. “Harmoge contro tonos, luce contro ombra. Mi ha colpito l’idea di architettura di Vitruvio. Sicché ho cercato di armonizzare le vigne dei Colli di Luni e delle Cinque Terre”. L’Harmoge 2006 ti paralizza nel tentativo di capire dove voglia andare: salmastro e iodato, poi minerale e mieloso, senti il tannino che ha rapito dal bosco, dall’albarola e dal vermentino, ma non è protagonista come credi all’inizio. Sostiene il vino e nasconde quasi l’acidità ben presente, esaltando una sapidità di rara nitidezza e precisione. Tra un consiglio di temperatura di servizio (non sotto i 16°C) e una snasata alla paletta di spezie fini che comincia ad emergere, ti dice: “Il grande vino si fa sugli squilibri e noi abbiamo degli squilibri straordinari”. Abbozzi una risata a metà strada tra la complicità e l’asserzione, ma in realtà sei più confuso di prima, anche se ti sembra di cominciare a capire il senso di quello che sta cercando di tirar fuori dai suoi vini.
De Batté non nasce viticoltore, anche se, come molti da queste parti, vigne e terreni ne aveva. Gli altri comincia un po’ a comprarli “mentre gli altri li abbandonavano” un po’ ad affittarli e prenderli in gestione con il tempo, dove pensa che ne valga realmente la pena. Tra il 1989 ed il 1990 la sperimentazione. Nel ’91 la partenza. Ma prima? “Lavoravo all’arsenale di La Spezia e facevo sperimentazione sulle armi subacquee per la Marina Militare”.
A raccontare i progetti sui quali lavorava gli si illuminano gli occhi, quelli classici di chi si appassiona appena intravede una strada affascinante da percorrere e non ancora battuta da altri. “Poi sono finiti i soldi e ci hanno lasciato in un ufficio a vegetare”. Comincia così a studiare, a frequentare i corsi AIS, a collaborare con l’amico ed enologo Giorgio Bacigalupo, si fa conoscere tra gli stand di Fornovo e il resto è storia di continua ricerca e fatica, orgoglio e amore per una terra non facile da affrontare, quelle Cinque Terre, protette da un parco nazionale e dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco, ma che sono messe in difficoltà non tanto e solo dalla conformazione geografica ostica e dura, quanto dai degustatori più esigenti che esistano. Hanno quattro zampe e spesso il loro pelo serve per confezionare pennelli: i cinghiali. “Rovinano i muretti, ma soprattutto mangiano l’uva”. Non tutta però; quella matura, gli acini migliori. Scelgono e colpiscono con precisione chirurgica. Se il grappolo è completamente maturo non lasciano neanche il raspo, se invece l’equilibrio zuccherino è ancora da farsi, succhiano e ti lasciano in vigna come dei palloncini d’acqua sgonfiati.
Si ride, ma amaramente. Pensare che una viticoltura di questo tipo, che tiene su colline altrimenti destinate a franare, possa essere messa a rischio dai cinghiali, lascia perplessi. Il Cinque Terre Doc, l’unico che riporta in etichetta il suo nome (gli altri vengono commecializzati sotto il cappello di Prima Terra, azienda fondata insieme a Riccardo Canesi e Pierfrancesco Donati), un piccolo gioiello di solarità e freschezza, ne è un esempio. “Potrei farne 5000 bottiglie, di fatto se va bene 1000, quasi 1200”. E il resto? Chiedere ai cinghiali.
Alessandro Franceschini