La genuinità contadina del Brunello di Montalcino Riserva 2010 Palazzo
Concludo questo primo ciclo di articoli, che ho scritto durante un anno e mezzo di residenza stabile a Montalcino, con un pezzo che fa da ciliegina sulla torta perché proprio negli ultimi giorni passati al Museo della Comunità di Montalcino e del Brunello, prima di tornare in Polonia, ho avuto il piacere di approfondire reciprocamente le opinioni sulle migliori bottiglie con la sommelier parmense Alessandra Chiarini e, sorpresa, fra tante ci siamo subito trovati d’accordo nel giudizio sul vino che fanno i Loia della società agricola Palazzo.
Alessandra poi mi ha anche scritto così: “Il Brunello di Montalcino Riserva 2006 Palazzo è una grintosa gentilezza. Montalcino è un sistema che al primo impatto appare complicato e complesso ma che in realtà offre appigli e riferimenti: colline, montagne, chiese, fiumi, paesi e non è da meno la vegetazione con zone boschive e coltivate e così, dopo un po’ ti ci ritrovi, nonostante i produttori si ostinino a non effettuare la zonazione. E, per orientarsi, l’utile cartina del Consorzio del Brunello con la lista dei produttori, più per l’orientamento e per l’identificazione delle cantine che non per le annate, dal 1945 fino all’ultima. La mano dell’uomo sui vini si sente e poi loro maturano, si evolvono e si affinano e l’annata da 4 stelle diventa da 5 e, se esistesse, anche da 6 oppure… anche viceversa. Ho conosciuto la cantina Palazzo nel novembre del 2014, appena terminata la peggiore vendemmia che io ricordi. A Montalcino non si sono raccolte le olive e le cantine note hanno deciso di produrre solo Rosso e… tante grazie perché alcuni Rossi di Montalcino 2014 sono veramente godibili, come solo in questa terra anche il Sangiovese giovane sa essere generoso ed espressivo. Un sole novembrino, vagando per cantine (è dura la domenica per l’enoturista in generale e anche a Montalcino, perché la maggior parte sono chiuse), ne cercavo una e… chiusa anche lei! Ma, a destra, la strada proseguiva e finiva sopra un colle. La cantina era identificata con il numero 71 tra due più note, La Cerbaiona e San Filippo. Siamo nel settore C, la zona esposta al sole e al vento, dal casolare deserto compare una signora da subito decisa e gentile: è Antonietta, s’intrattiene con noi, ci dedica tempo e, con passione, ci guida nella cantina in fase di ristrutturazione. Durante gli assaggi di Rosso, Brunello e Alcineo ci racconta la storia della famiglia e lo sguardo spazia al di là della cantina; un ricordo, una foto e, con le rose sui filari che guardano la distesa Val d’Orcia, è facilmente comprensibile che qualcuno possa innamorarsi davvero di questo posto. Conduzione famigliare, produttori di vino, contadini dignitosi, custodi e artigiani della terra. È questo che traspare dalle parole di Antonietta e il Brunello di Montalcino Riserva 2006 Palazzo è frutto di quella terra. Nella guida lo metteva “godibile sin d’ora e per altri 3 anni”, invece io l’ho stappato nel 2016 e probabilmente una prospettiva di evoluzione poteva ancora averla. Ci sono annate pronte e annate da affinamento, io l’ho trovata al pieno della sua prontezza; non è reticente e non ha perso tempo, ha tenuto bene e si è evoluta e io non ho pensato che andava lasciata ancora lì. Il vino è pulito, nessuna surmaturazione, nessuna nota di cottura. Me l’ha spiegato bene Lapo qualche anno fa all’Enoteca della Fortezza la differenza, le caratteristiche, quali sono i caratteri che deve avere un Brunello e quali non deve avere. Denso, ancora fresco, tannino asciutto e levigato, di fiori secchi e ciliegia matura, solare, anche un po’ austero ma non duro, equilibrato e armonioso e così, il Brunello di Montalcino Riserva 2006 Palazzo resta uno dei miei vini del cuore grazie anche alla signora Antonietta e alla sua grintosa gentilezza“.
Grazie, Alessandra, ci metto anche la mia firma. E aggiungo, da parte mia, che per questo tipo di vino uso la definizione di “vino genuino”, perché chi lo vinifica non è per niente angosciato dalla preoccupazione di sforare i limiti imposti dal disciplinare e di dover escogitare chissà che cosa per cercare di mantenersi nel rispetto delle prescrizioni scritte sulla carta, ma lo fa in modo genuino perché così vuole l’uva e in questa maniera riesce ad applicare spontaneamente le regole e, magari senza averle nemmeno lette tutte, con la pignoleria del notaio. E in ogni caso senza cercare attestazioni, riconoscimenti, premi, ma solo per il gusto di fare un vino buono, piacevole, come i padri e i nonni hanno sempre fatto, pur senza la burocrazia che c’è oggi e che può sempre essere aggirata invece dai furbetti e dagli azzeccagarbugli. Il vino buono non lo fanno lor signori, ma i contadini! E anche se altri Brunello di Montalcino vincono concorsi e strappano applausi (tanto di cappello!), il cuore batte sempre con quello che piace di più per una genuinità che gli viene non solo dalla qualità delle uve, ma anche dalla storia delle persone che le coltivano, che le curano in vigna senza guardare l’orologio né fare i ponti, quelle che vanno in vigna anche quando per gli altri è festa oppure quando sono malati e magari imbottiti di antibiotici pur di accudire il miglior frutto del loro lavoro come si è imparato a fare da piccoli.
Il vino genuino ha un profumo in più degli altri, qualcosa di familiare, perché chi lo fa non pensa proprio di essere migliore degli altri, non si esalta da solo, non assume esperti multilingue di public relations, ma è un vignaiolo che pensa di essere semplicemente normale come lo erano i suoi padri e i suoi nonni, dai quali ha preso il pollice verde da ragazzino, e di solito si fa i cavoli suoi senza ascoltare le sirene, anzi chiede sempre, umilmente, se il suo vino ti è piaciuto davvero, se era buono davvero quando lo hai assaggiato. Ti guarda dritto negli occhi perché lui sa quanti e quali sacrifici ha fatto per dare il meglio di sé in quel calice, non si aspetta né l’adulazione né un punteggio all’americana, ma la verità, la corrispondenza della tua genuinità con la sua. Gli fa male capire che addolcisci la pillola quando il vino non ti ha soddisfatto in pieno e cerchi di balbettare qualcosa di accettabile, ma gli fa ancora più male quando gli assicuri un grande successo soltanto per compiacerlo.

Antonietta Palazzo non la conoscevo. Una sera d’estate, proprio all’orario di chiusura del Museo a Podernovi, arrivò in cortile un’automobile piuttosto usata con due simpaticissime signore e non me la sono sentita di chiuderlo. Durante la visita si sono entusiasmate molto, perché riconoscevano uno dopo l’altro gli attrezzi di lavoro e le dotazioni di cucina dei propri avi, perché ne avevano ancora qualcuno in casa loro, oppure perché si ricordavano di quello della bisnonna. Le osservavo veramente divertito, perché sembravano tornate ragazzine, sprizzavano simpatia da tutte le parti. Una delle due era proprio la signora Antonietta, che però non aveva l’accento toscano. A domanda precisa mi aveva risposto che era di origine meridionale e che era arrivata a Montalcino più di trent’anni prima con il marito, precisamente nel 1983, dopo aver girato l’Europa per lavoro, un duro lavoro.
Sono emigrato anch’io, so cosa vuol dire. In gioventù aveva sposato un bel ragazzo di origine contadina come lei, Cosimo Loia, e avevano deciso appunto di emigrare in cerca di lavoro all’estero, in Inghilterra e poi in Scozia, dove avevano anche gestito un ristorante. In Scozia hanno lasciato due dei loro figli, Aldo e Manio Filippo, che hanno scelto di continuare a credere nelle loro capacità in quel nuovo mondo, anche se nei momenti topici dell’annata vengono pure loro a dare una mano in questa campagna ai genitori, all’altro fratello Angelo e alla sorella Elia. Tutta la famiglia dimostra un grande amore per la terra e la passione per la vitivinicoltura.
Il podere Palazzo (ma guarda il caso… proprio lo stesso cognome di Antonietta!) si trova nel nordest del tormentato territorio che discende fra i boschi secolari verso il fosso del Rigo (coordinate GPS: lat. 43.042717 N, long. 11.530047 E), proprio in fondo alla stradina che passa davanti all’agriturismo Bartoli Giusti della tenuta Comunali, subito dopo l’azienda agrituristica San Filippo. Il casale è situato a un’altitudine di 320 metri sul livello del mare e i vigneti si distendono sui suoli poveri, aridi e sassosi di questa zona in cui si faceva vino già nel Settecento, come prova il Catasto Leopoldino che certifica la costruzione di questa fattoria risalente al Seicento. In tutto sono 12 ettari di proprietà, di cui 4 a vigneto e 3 a oliveto in una posizione panoramica, sebbene protetta dall’umido vento di Libeccio. Anche se avevano piantato il sangiovese, hanno pazientemente cominciato dalla gavetta, iniziando a produrre vino da tavola nel 1986, poi sono passati a produrre il Rosso di Montalcino e soltanto nel 1995 hanno fatto il loro primo Brunello di Montalcino. La pazienza del contadino di origine meridionale è proverbiale.
Quelli erano gli anni in cui i lavori in vigna si sovrapponevano a quelli del necessario restauro del casolare, ma si dovevano ricavare tutte le risorse da sì e no 20.000 bottiglie l’anno e senza esagerare con i prezzi, altrimenti si perdeva mercato, dato che per una famiglia di forestieri non è facile né scontato competere sia con le famiglie locali dalla storia chilometrica, sia con i parvenues dal marketing che vale molto più di ciò che imbottigliano. C’era perciò da soffrire a pane e cipolla, a sangue e fatica, ma guai anche a fare i passi più lunghi della gamba e a non esercitare un controllo rigoroso della famiglia su ogni fase della coltivazione e della vinificazione. Fra quei sudati filari, tutti i santi giorni c’è sempre qualcuno. E ci sono anche delle notti in cui si vedono accese le luci interne della cantina.
La cura e la severa selezione delle uve durante il ciclo vegetativo permette una sana maturazione prima di effettuare la raccolta rigorosamente a mano per garantire la maggiore qualità possibile del vino, perciò in occasione delle vendemmie la famiglia si riunisce con gli amici vicini e lontani. Si sa che l’occhio del padrone ingrassa anche il cavallo. Io non sono affatto all’antica e ricordo perfettamente quello che mi diceva l’amico indimenticabile Loris Scaffei a proposito della differenza tra i nostri migliori vini e quelli dei grandi châteaux di Francia: loro di bottiglie con una qualità eccellente ne sanno fare mezzo milione per volta. E lo fanno con metodi ormai assodati, ma che non si possono definire antiquati. Noi, nel nostro piccolo, grazie a famiglie come questa dei Loia, possiamo però anche orgogliosamente affermarci nell’eccellenza mondiale e non soltanto sognare.
Con tanta naturalezza, eppure una scientifica certezza, dentro la vecchia casa colonica sapientemente ristrutturata hanno sistemato le botti, costate un occhio della testa a questi emigrati di ritorno che hanno dovuto ricorrere alle banche per acquistarle quando non era per niente scontato ottenere dei crediti vantaggiosi in periodi d’inflazione a due cifre, per la maturazione del Brunello. Di fianco hanno costruito una nuova cantina, perfettamente in linea con lo stile stesso del casale, per la vinificazione, l’imbottigliamento, lo stoccaggio e l’affinamento del vino, con un sotterraneo che assicura il mantenimento di una temperatura costante di 14-16 °C e una sala con mobili realizzati a mano da Manio Filippo e antichi strumenti di vinificazione recuperati da Aldo in giro per l’Europa. La dimensione è piccola, ma la qualità dei vini adesso è eccellente e, grazie anche al parere di Alessandra Chiarini, posso stare tranquillo che migliorerà ancora. Sono sempre Cosimo e Antonietta a tirare la carretta, ma l’azienda oggi è gestita dal figlio Angelo e dalla figlia Elia, in attesa che crescano nell’impegno d’impresa i nipoti Nadia, Sabrina, Maia e Nico. Mai la parola “impresa” (gigantesca) mi è sembrata più azzeccata per una società agricola così piccola. Chapeau bas!
La Riserva mi è piaciuta molto. Non viene prodotta tutti gli anni, perché Antonietta e Cosimo non fanno il vino per vincere concorsi o per far parlare di sé i giornali, gonfiando con i metodi tecnologici di oggi l’acidità totale, l’estratto secco, i tannini, il tenore alcolico e coprendo i difetti con l’abuso di legno. La Riserva è per loro, come per me, come sempre dovrebbe essere, il livello qualitativo più alto e non nasce dalle alchimie di cantina, ma da una simbiosi di sole, terra, vitigno, duro lavoro in vigna e una grossa mano dal cielo, nelle annate migliori e da una selezione delle uve più sane.
L’annata 2010 è stata eccezionale secondo la valutazione fatta dal Consorzio in occasione del Benvenuto Brunello del febbraio 2011. Oggi, senza tema di smentita, qualcuno parla già di annata leggendaria e molti la considerano una delle migliori di sempre. Come dargli torto? Parlandone con diversi produttori, ho avuto la netta impressione che quei vini sono risultati di una qualità molto superiore alle aspettative che avevano in quella estate scoppiata dopo che le abbondanti piogge primaverili avevano determinato un ritardo nella fase vegetativa delle viti. Invece a settembre il gran sole di giorno e le temperature piuttosto basse di notte avevano permesso un recupero inaspettato e determinato una maturazione perfetta delle uve, caratterizzate da profumi netti e colori intensi, elevata acidità e tannini morbidi in un equilibrio invidiabile, struttura e lunghezza in bocca.
La Riserva del 2010 del podere Palazzo viene dalla vendemmia degli ultimi giorni di settembre e dei primi di ottobre, dai grappoli più compatti fra quelli maturi, raccolti a mano e pigiati sofficemente. Il mosto è stato vinificato in vasche di cemento da 10 ettolitri (dove non ci sono le correnti elettrostatiche che nei tank d’acciaio inossidabile possono mantenere in sospensione le più piccole particelle) ed è macerato per 18-20 giorni a una temperatura da 28 a 30 °C. Il vino è poi maturato dopo la svinatura per 30 mesi in botti di rovere da 20 e da 25 ettolitri e per altri 12 mesi in tonneaux di rovere francese da 5 ettolitri, cui è seguito un affinamento in bottiglia di almeno 8 mesi a 14-16 °C nel sotterraneo prima della sua commercializzazione.
Il colore è rosso rubino intenso con riflessi granati. Il suo bouquet è ampio e si apre con aromi di piccoli frutti scuri maturi e confetture rosse sullo sfondo di quelli di sottobosco, legno di liquirizia e note speziate. Al palato è asciutto, fine, morbido, conferma gli aromi che riscaldano la bocca con la vivacità della polpa succosa fresca, molto piacevole, sapida e ben amalgamata con tannini levigati, non aggressivi. Il finale aggiunge alla sensualità del tannino uno speziato dolce e leggero e lascia un buon sapore molto persistente. Tenore alcolico: 14,5%.
Società Agricola Palazzo dei F.lli Loia
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